Le immagini che arrivano ormai da ogni parte del mondo ci mostrano una “nuova normalità” fatta di città desolatamente deserte a testimonianza di come la pandemia abbia bloccato non solo le relazioni sociali ma anche le attività economiche. Ma, come abbiamo potuto osservare in queste settimane di chiusura, c’è un mondo oltre la quarantena che persevera nelle sue logiche produttive, di distruzione del pianeta e di morte. È un mondo dove l’estrattivismo continua incessante a estrarre ricchezza dalla vita e in contropartita a seminare morte e distruzione, continuando con la sua inarrestabile corsa a trascinarci verso l’abisso. Dunque, questa “nuova normalità”, come l’ha definita il presidente cileno Sebastian Piñera, mentre ci costringe a rimanere bloccati, al distanziamento fisico, a rinunciare ai diritti, a pagare in prima persona l’emergenza, continua senza sosta, attraverso l’estrattivismo, a depredare i territori, questa volta anche con due vantaggi ulteriori, quello di non doversi preoccupare delle opposizioni comunitarie, popolari e sociali, bloccate in casa, e quello che i suddetti progetti di morte saranno considerati imprescindibili per la ripresa economica.
In tutto il mondo infatti, sono vietati gli assembramenti, le manifestazioni, le proteste. Sono sospesi i diritti, talvolta solo con decreti e richiamando a un giusto senso di responsabilità, ma in alcuni casi, come per esempio in Perù, utilizzando i militari come strumento di controllo e imposizione. Insomma, se è pur vero che il sistema capitalista ha inizialmente patito l’esplosione del virus e ha subito grandissime perdite economiche, è anche vero che ha saputo riorganizzarsi rapidamente e ora ha rimesso in moto la spietata macchina del profitto ricominciando a trarre vantaggi economici pure da un evento drammatico come quello attuale e naturalmente sempre sulla pelle dei più deboli.
In molti in questi mesi hanno denunciato la relazione esistente tra il sistema estrattivista con la diffusione del virus. Su tutti cito le chiarissime parole di John Holloway secondo cui «il coronavirus non viene fuori dal nulla. Piuttosto nasce dalla distruzione del rapporto tra gli esseri umani e altre forme di vita. Urbanizzazione, industrializzazione sul campo, cambiamenti climatici, deforestazione, perdita di biodiversità, esaurimento dell’acqua: tutti questi cambiamenti hanno un profondo effetto sugli habitat e sulle condizioni di vita della fauna selvatica. Ciò facilità la trasmissione di virus da questi animali all’uomo (e viceversa)».
Sul banco degli imputati è dunque il sistema estrattivista stesso, non è una questione di colore politico dei governi in carica (sebbene ci siano chiaramente delle differenze). A sostegno di questa tesi propongo di seguito tre esempi. Da una parte infatti c’è il governo progressista del Messico, che nonostante l’emergenza continua nel progetto del “mal chiamato Tren Maya”. «Il cuore della corruzione neoliberista continua intoccabile», assicura Carlos González, membro del Congresso Nacional Indigena. Dall’altra parte c’è il Perù dove il governo del conservatore Vizcarra (tra l’altro nel mezzo di una crisi istituzionale che dura da anni), ha imposto il coprifuoco, mandato i militari nelle strade a perseguire e ad arrestare chi esce di casa, ma allo stesso tempo ha permesso alle imprese minerarie di continuare indisturbate il proprio lavoro estrattivo e distruttivo del territorio, provocando tra le altre cose anche la diffusione del contagio tra gli operai. Nel mezzo c’è la Bolivia in cui il governo de facto “cattofascista” sta proseguendo sul solco tracciato dal MAS, con politiche estrattiviste di sfruttamento e distruzione del territori, come testimoniato dagli incendi “illegali” che hanno avuto un incremento preoccupante in aprile proprio durante il lockdown. Vediamo dunque nel dettaglio cosa è successo in queste settimane.
Messico, il mal chiamato Tren Maya continua a correre
Il progetto del “mal chiamato” Tren Maya non è solo una linea ferroviaria che vuole congiungere lo Yucatan con il Chiapas attraversando altri tre stati del sud messicano, è molto di più. È un progetto predatorio su larga scala con cui il governo messicano guidato dal “progressista” Andrés Manuel López Obrador vuole trasformare quella zona del paese in un modello produttivo coerente con l’idea capitalista di sviluppo e sfruttamento del territorio e delle risorse.
Per costruire questa moderna linea ferroviaria, non solo si dovranno deforestare migliaia di ettari di terreno (dove molto spesso risiedono popolazioni indigene), stravolgendo completamente il delicato ecosistema presente, ma sarà anche la scusa per “occupare” e sottomettere definitivamente allo sfruttamento turistico la Riviera Maya, come ad esempio la Laguna di Bacalar, area protetta dove è prevista la costruzione di nuovi e imponenti complessi turistici. Il tutto, nemmeno a dirlo, con la retorica fuorviante, del sostegno ai popoli che abitano quelle zone che, grazie a questo grandioso progetto di sviluppo, trarrebbero “incredibili” benefici economici.
Ma, come sottolinea la giornalista Sandra Suaste su Regeneración Radio, «le pratiche (proprie del sessennio passato) vengono alla luce: il percorso non si conosce, è una specie di via fantasma. Il Manifesto di Impatto Ambientale non è pubblico “per evitare l’opposizione” e la Consulta Indigena corrispondente, in accordo con l’articolo 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIT), non è stata effettuata nelle condizioni stabilite».
Pratiche che dunque dicono una sola cosa: per il governo questo progetto si deve fare e nemmeno la diffusione della pandemia può fermarlo. Già ad inizio aprile, infatti, il presidente ha autorizzato al proseguimento delle attività lavorative tutte le produzioni di acciaio, cemento e vetro che hanno contratti in corso col governo federale, in particolare per la realizzazione delle grandi opere come quella del Tren Maya appunto. Una settimana più tardi, la FONATUR (l’istituzione responsabile del progetto) ha cominciato i colloqui coi residenti nelle zone di passaggio del treno (oltre il 50% del percorso del Tren Maya si trova in terreni ejidales, comunitari), in vista di possibili ricollocazioni.
Infine, l’ultima settimana di aprile, sempre la FONATUR ha comunicato che è stato assegnato al consorzio portoghese Mota-Engil Mexico associato alla parastatale cinese China Communications Construction Company LTD, un contratto di 15 miliardi di pesos per il tratto di 232 km tra Palenque e Escarcega. Il secondo tratto di 222 km, tra Escarcega e Calkiní nello stato di Campeche, è stato invece assegnato a una società appartenente all’uomo più ricco del paese, Carlos Slim, con un contratto di oltre 18 miliardi di pesos. E proprio i lavori di quest’ultimo tratto potrebbero partire il 12 maggio prossimo, in piena emergenza coronavirus, se il ministero della salute dovesse dare il via libera (che appare scontato), previa attuazione delle misure di prevenzione e contenimento.
Per ultimo, come riportato da Desinformemonos, anche le autorità giudiziarie si sono attivate per spianare la strada al progetto e, approfittando dell’emergenza, hanno bloccato i ricorsi presentati da alcune popolazioni indigene per fermare la costruzione della linea ferroviaria: «è evidente che il Governo Federale sta approfittando della pandemia e della situazione di contingenza e di rischio sanitario per avanzare nella costruzione del progetto Tren Maya, mettendo in pericolo i diritti elementari della popolazione, come la salute o il diritto ad avere una casa e incluso il diritto alla vita».
Perù, giù in miniera a contagiarsi
Il Perù è uno dei paesi latinoamericani con più casi di contagio da coronavirus. Il governo di Vizcarra fin da subito ha utilizzato la mano pesante per cercare di contenere la diffusione, imponendo il coprifuoco e dando carta bianca ai militari per il controllo nelle strade. Tuttavia, non sono dovuti passare molti giorni perché anche qui sorgessero i problemi. Il Perù infatti, come quasi tutti i paesi dell’area ha una grossa fetta della popolazione che vive di lavoro informale, nelle strade, e isolamento sociale e coprifuoco hanno costretto moltissimi a dover scegliere se uscire di casa e rischiare contagio o repressione o restare a casa e morire di fame. A questo si è aggiunto nelle ultime settimane il problema dell’esodo interno: sono infatti oltre 230 mila le persone che, sfidando i divieti, si sono messi in marcia a piedi per lasciare le grandi città (in particolar modo la capitale Lima) per raggiungere i luoghi d’origine dove sperano almeno nel sostegno della propria comunità.
Come riporta Gran Angular, già dal 17 marzo le imprese minerarie durante tutto il periodo della quarantena sono state autorizzate dal ministero dell’Energie e delle Miniere a proseguire con la loro attività. Lo stesso presidente Vizcarra qualche giorno dopo in conferenza stampa ha giustificato la decisione di lasciare aperte le miniere in quanto sono lontane dalle città e i minatori in isolamento permanente.
Trascorso solo qualche giorno da queste dichiarazioni sono però comparsi i primi casi di contagio: il primo è stato registrato ad Arequipa il 25 marzo, il secondo il giorno seguente a Pasco. Le organizzazioni di categoria hanno cominciato a protestare e a chiedere misure di sicurezza e la chiusura degli impianti. A ben vedere, perché a distanza di un mese da questi primi casi, sono oltre 250 i minatori che hanno contratto il virus lavorando.
Il caso più eclatante è quello dell’impresa Antamina, una delle miniere più grandi del paese che produce zinco. Come dichiarato dalla stessa impresa, anche durante il periodo obbligatorio di quarantena, l’attività è proseguita con 2400 lavoratori e solo da metà aprile, dopo i primi contagi, ha annunciato di aver sospeso le attività per sicurezza e che sarebbero continuate solo le attività essenziali.
Anche così però il contagio si è diffuso tanto che, come riporta la Red Muqui il 23 aprile l’impresa è stata costretta a evacuare a Lima 1500 lavoratori e a procedere con la realizzazione del tampone e con la quarantena. I risultati dei tamponi hanno evidenziato la positività di 210 lavoratori, 17 dei quali hanno dovuto ricorrere alle cure ospedaliere. Qualche giorno dopo, c’è stato il primo decesso.
Nonostante questa grave situazione di rischio persistente, domenica 3 maggio il presidente Vizcarra ha promulgato un decreto dando avvio alla ripartenza e, naturalmente, tra le attività autorizzate a ripartire risultano l’industria, le costruzioni e naturalmente il settore minerario. Sulla vicenda si è espressa anche una Plataforma de la Sociedad Civil che, in una lettera al presidente ha evidenziato come «in relazione alle imprese minerarie, nonostante abbiano ridotto il livello delle loro operazioni, molte continuano nelle loro attività a contatto con la popolazione e mobilitando il personale molto vicino alle comunità della loro zona di influenza senza nessun tipo di controllo da parte del Governo, né della polizia né dell’esercito».
La Bolivia va a fuoco
Nei giorni scorsi il CEJIS (Centro de Estudios Juridicos e Investigación Social) di Santa Cruz ha pubblicato un report sugli incendi attualmente in corso in tutto il paese. Già l’estate scorsa la Bolivia aveva vissuto una drammatica stagione di incendi in cui sono stati bruciati 5,3 milioni di ettari. Oltre al gravissimo danno ambientale, risultarono colpite 47 comunità indigene e numerose aree protette e parchi naturali. Come avevamo raccontato su Globalproject, gli incendi non avevano solo una causa naturale (la siccità, anche questa comunque legata all’azione dell’uomo sulla natura), ma erano diretta responsabilità di leggi permissive in fatto di “incendi controllati” e soprattutto di accordi politici che garantivano l’impunità per gli incendi illegali, messi in atto per far avanzare la frontiera agricola in favore delle imprese zootecniche. Le leggi e gli accordi con le imprese zootecniche allora furono firmati e siglate da Evo Morales in nome della crescita e dello sviluppo del paese, vale a dire da un governo che si dichiarava anticapitalista e in sintonia con la Pachamama.
Oggi, anche a causa di queste scelte estrattiviste, il governo indigeno e “ambientalista”, a seguito di una rivolta e del conseguente colpo di stato, è stato sostituito da un governo temporaneo ultra conservatore, in completa antitesi al precedente. Tuttavia, come denunciato da numerose organizzazioni ecologiste e indigene e da molti attivisti, esiste una continuità preoccupante in merito alle politiche estrattiviste. Così, ritornando al report recentemente pubblicato dal CEJIS, è da segnalare come nei primi 21 giorni di aprile, quindi con il paese in completo lockdown, sono 2499 i focolai di incendi registrati, di cui 1799 nel solo dipartimento di Santa Cruz, la regione più produttiva/ricca del paese. Ad essere colpite ancora una volta sono le aree protette, i parchi naturali e naturalmente i territori di alcune comunità indigene.
Comunità indigene che, a seguito di questa “emergenza nell’emergenza» hanno preso parola per denunciare quanto sta accadendo e per chiedere al governo, evidentemente sordo a tali richieste, di intervenire tempestivamente per limitare i danni ambientali e le collaterali conseguenze negative per le stesse comunità. «Chiediamo al governo di fermare tutte le attività estrattive nei nostri territori: di legname, minerarie, di idrocarburi e di monocolture. Non possiamo ripetere l’ecocidio del 2019. Per garantire la vita di tutte le boliviane e tutti i boliviani, si devono fermare tutti gli incendi e abrogare tutto il pacchetto normativo che beneficia l’agrobusiness a spese della produzione comunitaria e familiare».
Pur riconoscendo l’importanza del restare a casa, visto nell’ottica del prendersi cura dei propri quartieri o della propria comunità, dobbiamo però riconoscere che questa retorica è diventata uno strumento che ha permesso al sistema capitalista di riorganizzarsi e ricominciare a estrarre profitto senza preoccuparsi delle conseguenze sanitarie e sociali provocate da questo agire. Ecco perché è importante ricominciare a uscire, a trovare nuove forme di lotta e di resistenza perché questa “nuova normalità” che il sistema stesso sta costruendo è molto simile a quella dalla quale proveniamo e che ha causato questo collasso, con l’unica differenza che a cambiare sono solo i nostri diritti, perduti, non il lucro di pochi avvoltoi, non le disuguaglianze, non le ingiustizie.