di Marco Bertorello
*articolo pubblicato su il manifesto del 18 aprile
Come diceva John Belushi, «quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare». A forza di fare i duri la corda si spezzerà facendo esplodere l’eurozona? Uno scenario ancora improbabile, ma che non si può certo escludere e le cui conseguenze sono imprevedibili. Per provare a mettere in fila i problemi iniziamo dai dati del Fmi.
Si annuncia un pianeta in recessione con una contrazione del Pil pari al 3% (nel 2009 fu dello 0,6%). Per l’Italia è previsto un -9,1% (nel 2009 -5.2%) dentro un quadro dell’eurozona pari a -7,5% e con la Germania a -7%. Numeri che danno il senso di una precipitazione storica dell’economia globale. Una recessione che avviene sopra la crisi precedente, dentro contraddizioni tutt’altro che risolte e che la pandemia ha accelerato e reso evidenti.
La ritrosia della Germania nel giocare un ruolo di tenuta dell’Unione da un lato appare incomprensibile, considerati i suoi fondamentali e lo sviluppo ottenuto grazie all’eurozona, dall’altro è frutto di una iper-competizione economica di cui è essa stessa grande artefice e alla quale è vincolata, anche sul piano del consenso politico. Insomma, il ruolo di potenza egemone capace di assumersi gli oneri della tenuta del sistema, è lontano dall’essere ricoperto dal principale paese del Vecchio continente.
É in questo quadro che vanno letti i No tedeschi a una consistente mutualizzazione dei costi relativi all’espansione del debito pubblico che si determinerà soprattutto in Francia, Spagna e Italia. La trattativa sarà complessa e potrebbe fallire veramente. Con diverso entusiasmo si discute di un piano B a destra come a sinistra, a partire dall’idea che se necessario «faremo da soli».
Meno chiare sembrano le conseguenze di un tale scenario. L’ordine di grandezza della liquidità emergenziale necessaria al sistema-Italia è stimata tra i 150 e 200 miliardi. È pensabile sia sufficiente riprendersi i soldi versati nel Mes come teorizza Giorgia Meloni? Attingere in maniera più o meno forzosa dai risparmi nazionali? Oppure recuperare una banca centrale e far battere moneta o comprare titoli di Stato? Le prime due ipotesi appaiono insufficienti, mentre gli effetti dell’ultima sarebbero in prima battuta una svalutazione della nuova lira e un’impennata inflazionistica, mentre le dinamiche successive sono difficilmente preventivabili.
Il piano B, dunque, possiede una sua forza nella logica del ricatto sulle conseguenze disastrose per tutti. Esiste evidentemente un potere contrattuale da mettere sul tavolo. A destra il «prima gli italiani» finisce per legittimare il «prima i tedeschi» e per sottovalutare drammaticamente le difficoltà.
Insomma il piano B è necessario, a condizione che non la si faccia semplice e che sia funzionale anche a una strategia in Europa per perseguire il piano A. Il MES è fatto di risorse insufficienti, con potenziali condizionamenti e con procedure assai lunghe. I Coronabond sembrano naufragare e probabilmente non sarebbero risolutivi nel lungo termine. I tassi di interesse italiani non sono ancora saliti alle stelle per gli acquisti della BCE, anche se si registrano tensioni crescenti.
L’alternativa, nell’emergenza, può essere il finanziamento monetario della Bce, come paventato dall’appello dei 101 economisti, che fornirebbe liquidità diretta alle persone e agli Stati, superando i divieti previsti nei trattati europei.
Una proposta d’emergenza, e non risolutiva, ma che potrebbe favorire un contesto di generale superamento dei dogmi neoliberisti e spingere nella direzione di una possibile ristrutturazione dei debiti. Il problema è infatti quello di uscire dalla logica del semplice finanziamento del debito, dell’espediente finanziario che prolunga la vita del malato ma nulla risolve dei problemi preesistenti. Altrimenti ci resta quel livore verso l’Europa che da settimane la Meloni ci propina, ma che pare ancorato a una propaganda incapace di andare oltre la prospettiva di un traballante sovranismo liberista.