In Kurdistan può esserci la pace?

La liberazione di Rêber Apo è storicamente un argomento sulla bocca di tutti in Kurdistan; in qualunque anfratto, angolo o piazza dei territori dell’Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord-Est (DAANES) non c’è altro che una sua raffigurazione. Sbiadita o appena dipinta che sia, Öcalan presidia ogni strada per ricordare a imperitura memoria che è la voce politica di milioni di curdi, e non solo. Perché è un simbolo dell’identità curda (anche per chi non condivide le sue posizioni politiche) e al tempo stesso un pensatore che ha fornito un nuovo paradigma politico anche alle popolazioni armene, arabe, siriache, turche, eccetera. 

L’Akademiya Zanistên Cîvakî Abdullah Öcalan porta la responsabilità di quel nome, sorge alla periferia di Heseke e si aggrappa alla campagna brulla che caratterizza il suolo di una città che sorge alla riva di un fiume, come a inseguire la stessa speranza che ha il popolo curdo di rivedere libero il proprio leader. A dirigerla c’è Hevî, una donna risoluta e preziosa studiosa delle Scienze Sociali, ha un atteggiamento dolce ma usa delle parole molto dirette, che non lasciano spazio a libere interpretazioni, per lei Öcalan va liberato subito, come appunto indicano le insegne ad ogni bordo strada. 

Se in Rojava parlano le città, poco distante, in Turchia, sono i media a prendere il timone della conversazione su Öcalan, sul futuro del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e la cosiddetta questione del terör. Dopo anni di censura, sembra essere tornato di moda discuterne pubblicamente, il fatto strano è che sia la stampa a far da padrona nel dibattito dopo che per anni, praticamente tutti quelli del governo Erdoğan, sia stata non solo pesantemente censurata ma anche taciuta e messa fuori legge con subdoli motivi. 

Sono ventisei anni che la Turchia non ha alcun serio interesse per il dialogo, l’ultimo tentativo è finito in un buco nell’acqua nel 2015, ora dopo dieci anni si riaprono dei colloqui, dove incredibilmente è Öcalan a svolgere ancora una volta un ruolo decisivo nella ricerca di una soluzione politica, nonostante il suo isolamento cui è costretto dal febbraio 1999, quando avvenne quella che i curdi chiamano “cospirazione internazionale”, che ha tra i suoi protagonisti i servizi segreti di Stati Uniti, Israele, Grecia, Kenya e Turchia. Viene definito “Roja Reş” – il giorno buio – spiega ancora Hêvi e continua “Öcalan fu abbandonato e si vide sbattere le porte delle democrazie mondiali in faccia”. 

“A meno che il Presidente Apo non intervenga e parli con gli amici, non si possono avere chissà quali aspettative dopo una semplice videochiamata. Se il nostro leader non può parlare con l’organizzazione in maniera diretta, come potrà convincerli a deporre le armi?”, fa così eco Murat Karayılan, membro del Comitato Esecutivo del PKK, in un’intervista in cui gli viene chiesto cosa pensa della telefonata con Abdullah Öcalan, prevista proprio per il prossimo 15 febbraio. Di fatto, sostiene Karayilan, il PKK è pronto sia per un’intensificazione del conflitto con lo stato turco che per un potenziale negoziato di pace: è preparato a qualsiasi evenienza, memore della lotta armata intrapresa nel 1984, proprio in risposta alla discriminazione subita in Turchia. Secondo Karayılan, un cessate il fuoco reciproco e un cambiamento di retorica sarebbero necessari per creare un clima favorevole ai colloqui di pace. “Non siamo persone che amano le armi per il gusto di farlo; amiamo piuttosto la libertà, la democrazia e la parità di condizioni. Se queste si realizzano, le armi non saranno più necessarie”.

L’altro fronte di apertura lo segnala la visita che il 28 dicembre 2024 hanno potuto fare a İmralı Sırrı Süreyya Önder e Pervin Buldan, entrambi parlamentari del partito DEM, nel quale sostanzialmente Öcalan ha detto che per velocizzare questo processo di pace vi è la necessità che si apra un dialogo all’interno del Parlamento e che esso ne diventi il fulcro, seppur agendo “in modo costruttivo e dando contributi positivi senza farsi prendere da calcoli meschini e opportunisti”. I due parlamentari hanno avuto poi la possibilità di incontrare Öcalan per la seconda volta il 22 gennaio, sancendo definitivamente, attraverso un breve messaggio, l’intenzione di Öcalan a partecipare al processo rimaneva immutata, seppur con necessità di garanzie.

È importante sottolineare che questo conflitto non è limitato ai confini dello Stato turco, ricorda ancora una volta Hêvi, perché se parliamo di pace in Kurdistan dobbiamo pensare proprio oltre al concetto di confini. Le regioni abitate dai curdi sono divise tra quattro stati, presentano al loro interno una grande varietà religiosa, linguistica ed etnica, oltre che risorse naturali e materie prime. Porre il problema dell’autonomia per le diverse parti del Kurdistan vuol dire porre il problema del rapporto tra stato e società, tra “centro” e “periferie” in tutto il Medio Oriente. La “questione curda” non si risolve con la fondazione di un nuovo Stato o con il riconoscimento di autonomie esclusive che, su scala ridotta, riproducono il modello statale (come avviene nel Kurdistan meridionale, all’interno dei confini iracheni). Al contrario, la soluzione passa attraverso la costruzione di società autenticamente democratiche, prive di discriminazioni culturali, religiose e di genere, in cui ogni comunità presente su un territorio abbia voce in capitolo nella sua gestione.

Anche l’agenda anti-curda di Erdoğan non conosce confini: non bastano i sindaci democraticamente eletti in Bakur deposti a favore di amministratori statali, le manifestazioni brutalmente represse e le centinaia di persone arrestate, ma è un dato di fatto che la Turchia ha scelto anche il Rojava come suo obiettivo da sconfiggere. Al Confederalismo Democratico si oppone la volontà egemonica dello stato turco, che rispetto agli altri stati dell’area in termini di “tenuta” istituzionale, capacità di produzione industriale e potenza militare da uno stacco evidente, così come è evidente la sua necessità di trovare nuovi mercati per i propri prodotti.

La forza politica che dagli inizi di questo secolo incarna questa ricerca della supremazia turca è l’AKP, la declinazione turca del partito dei Fratelli Musulmani. Le necessità espansive del capitalismo turco e l’ideologia dell’islamismo politico che si intrecciano nel governo di Erdoğan sono entrate in conflitto con gli altri due imperialismi concorrenti nella regione: quello iraniano (con i suoi regimi e movimenti armati “satellite”) e quello saudita (che ha cercato il legame con il regime sionista). In Siria, questo conflitto tra imperialismi ha fornito l’occasione a una popolazione esasperata dal regime di Bashar Al-Assad per avviare un processo rivoluzionario. La complessità geografica, economica e sociale del paese, oltre agli sviluppi militari sul campo, ha portato la rivoluzione ad articolarsi in forme nettamente diverse sulle due sponde dell’Eufrate: a Est l’Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord e dell’Est, a Ovest il “governo provvisorio” guidato da Ahmed Al-Sharaa (Al Jolani), la cui milizia HTS è oggi la forza armata egemone (ma non l’unica!). Confederalismo Democratico da un lato, Islamismo politico dall’altro.

Oggi sono in corso trattative tra il “governo provvisorio” di Damasco e DAANES. La scelta di rimandare le elezioni tra quattro anni ha determinato il fatto che non si contino i voti ma i fucili e quindi il dialogo è di fatto tra chi controlla la maggior parte delle aree sulle due sponde dell’Eufrate: Ahmed Al-Sharaa da un lato e il comandante delle SDF (Forze Democratiche Siriane) Mazloum Abdi dall’altro. Il tutto mentre queste ultime devono comunque affrontare il più pesante attacco degli ultimi anni da parte dell’SNA (Esercito Nazionale Siriano), che in realtà dipende per armi e paghe da Ankara e non dal “governo provvisorio” di Damasco. Ad ora, nonostante l’appoggio aereo dell’esercito di Ankara, le milizie dell’SNA non sono state in grado di piegare la resistenza delle SDF. Ovviamente lo scontro diverrebbe assolutamente impari se entrassero in gioco fanteria e carri armati turchi. A quel punto è facile prevedere cosa accadrebbe: DAANES verrebbe spazzata via come struttura amministrativa ma continuerebbe ad esistere come movimento di guerriglia, mentre i circa ventimila affiliati a Daesh tornerebbero in libertà, determinando così le condizioni per un bagno di sangue dagli esiti incalcolabili e imprevedibili.

In questo contesto l’amministrazione Trump, come del resto la precedente, non si sbilancia. Da un lato un approccio pragmatico può spingerla ad evitare il peggio e favorire il dialogo tra le diverse parti turche, siriane e curde, dall’altra sappiamo bene quanto gli USA e soprattutto Israele possano essere interessate al conflitto e al caos in tutto il Medio Oriente. Di qui le riflessioni di Öcalan sulla necessità per i curdi di non farsi usare, ma bensì di inserirsi nella partita tra potenze con un’agenda propria, orientata al dialogo e alla convivenza a livello regionale.

Emerge un’ovvia contraddizione in cui annaspa la Turchia, perché se da una parte non si è mai parlato così tanto di dialogo e mediazioni, di fine del conflitto con il PKK, al tempo stesso si continuano a minacciare e ad attuare azioni militari da parte dell’esercito turco in Siria e in Iraq. Come scrive Devriş Çimen su Jacobin “se la Turchia fosse davvero pronta, la soluzione sarebbe semplice: parlare apertamente e direttamente con Öcalan e i rappresentanti del Movimento per la Libertà del Kurdistan invece di limitarsi a parlare di loro”.

Öcalan cerca di cogliere, nel radicale rimescolamento degli equilibri del Medio Oriente, l’occasione per una pace stabile che apra reali possibilità. Non si tratta di farsi illusioni, né di arrendersi, ma di usare le contraddizioni del presente per avanzare nella costruzione di una società democratica. Per raggiungere questo fine, l’uso delle armi è necessario nell’ambito dell’autodifesa, ma occorre cogliere ogni occasione per poterle deporre, di uscire dal linguaggio della forza. La rivendicazione di autonomia democratica per le quattro parti del Kurdistan, anziché di indipendenza, sottende proprio questo cambio di paradigma insieme alla volontà di non farsi usare dagli imperialismi contrapposti, bensì di trasformare la società trasformando sè stessi e dando anche a chi oggi è il nemico l’occasione di cambiare. La volontà di trattare costituisce una sfida e un’occasione anche per l’islamismo politico di Erdoğan e Al-Sharaa. Se vogliono insistere sulla strada del settarismo e della violenza, il PKK è pronto a rispondere al piombo con il piombo e a pagarne il prezzo. Cogliere l’occasione della pace vorrebbe dire, invece, portare la propria modalità di gestione del potere ma anche il proprio pensiero politico e religioso verso una necessaria chiarificazione delle proprie contraddizioni. Un nemico che diventa avversario, il conflitto armato che diventa unità dialettica in una nuova gestione del Medio Oriente potrebbe essere non una rinuncia, ma una grande occasione per entrambe le parti. Sempre che vi sia la volontà e la pazienza di percorrere una strada che non sarà facile né breve.

Il messaggio di Öcalan del 28 dicembre si concludeva con le parole: “È tempo di un’era di pace, democrazia e fratellanza per la Turchia e la regione”. Chiuso nella sua cella in un’isola-prigione, senza più niente da perdere perché tanto nessuno può più ridargli una vita passata tra clandestinità, esilio, guerriglia e carcere, il leader curdo vede in questa prospettiva il coronamento di una vita al servizio della rivoluzione. Una prospettiva che significa uscire dalla logica della violenza e della sopraffazione, uscirne insieme: curdi e yazidi, turchi e arabi, musulmani e cristiani, socialisti e combattenti. Uscire dalla trappola costruita più di un secolo fa dalle grandi potenze che si sono spartite il Medio Oriente e farlo insieme al proprio nemico perché solo questo orizzonte può evitare la rovina comune. Dal 1999 il 15 febbraio è conosciuto come il “Giorno Nero”. Ora Öcalan sta lavorando per trasformare il “Giorno nero” nel “Giorno della speranza e della pace”.

Condividi questo contenuto...

Lascia un commento