In me la notte non finisce mai

di Walter Catalano

Roberto Taddeo, La storia del Mostro di Firenze. Vol. 1 – La sequenza dei delitti e la pista sarda, Mimesis, pp.430, euro 20,00.

Non commetterò più errori, la polizia sì. In me la notte non finisce mai”. (da una presunta lettera del Mostro al quotidiano La Nazione nel 1985)

Gli anni ’80 non sono stati solo gli anni del riflusso, gli anni di Ustica e della strage di Bologna, dei NAR e della P2, di Maradona, di Wojtyla e di Craxi, del walkman e del Commodore 64, di Dynasty e delle Tartarughe Ninja, del synthpop, dei paninari e della fine della Nuova Hollywood. Per i fiorentini, specialmente quelli allora più giovani, il decennio vuol dire anche paura e paranoia: non astratta, non lontana; paura diretta e concreta, appena dietro l’angolo, oltre il parabrezza di un’auto, al di là dei cespugli familiari di una radura al buio.

Tutti, fra il Valdarno superiore e inferiore, occhieggiavamo sgomenti, come mai avevamo fatto prima, le sanguinose pagine in cronaca nera che ci rivelavano un’altra città parallela e oscura, un mondo sordido e insospettato fatto di ronde notturne, di guardoni e maniaci, di perversioni e morbosi misteri. Chi scrive aveva allora appena scavalcato i vent’anni e per lui la nativa Firenze era stata fino a quel momento una città tutto sommato piacevole e rassicurante – appena il vago ricordo dell’alluvione, troppo lontano nelle caligini dell’infanzia, un magico lucore di candele, perché avevano tolto la corrente elettrica per giorni – una città borghese e bottegaia in cui lo scontro politico dei ’70 non aveva mai raggiunto la tensione e la pericolosità di altri capoluoghi: pochi i fascisti, abbastanza tranquilli gli ultrasinistri – almeno questa era la percezione probabilmente inesatta e fallace – solo qualche “indiano metropolitano”  ormai in disuso in giro e qualche frikkettone tossico che si sparava di eroina nei vicoli del centro.

Quando gli anni ’80 erano subentrati come una pialla, si era soprattutto pensato a divertirsi, sex&drugs&rock’n’roll più che altro: era esploso il nightclubbing fiorentino, del Banana Moon e del Casablanca, del Tenax e del Manila, dei Litfiba e dei Diaframma, delle etichette discografiche indipendenti e dei giovani stilisti della moda creativa. Ma dietro quel luccicore ostentato, il babau, l’uomo nero non lasciava mai la presa: ad intervalli quasi regolari, quando avevi appena cominciato a dimenticarlo, ricompariva. Colpiva soprattutto ragazzi di provincia, giovani di famiglie popolari, lontani dalle aule universitarie e dai salotti mondani, per due volte anche coppie di campeggiatori stranieri. Chiunque non avesse mezzi, seconde case, garçonnieres, ecc. era potenzialmente esposto. Per chi scrive, timido, bruttino e imbranato com’era allora, l’impossibilità improvvisa e cogente di appartarsi in luoghi discreti con ragazze e fidanzate era l’ultimo dei problemi, ma amici e coetanei più fortunati cambiarono d’un tratto abitudini, non uscirono più la sera o non si allontanarono più dai quartieri urbani affollati anche dopo il tramonto, trovarono provvidenziale complicità e case finalmente lasciate libere per qualche ora dai genitori più comprensivi. La città mostrava adesso la sua doppia faccia, tutto bene entro le mura e fino al tramonto, poi uno sguardo sghembo rivelava con un brivido i volantini circolanti in bar e locali notturni: “Occhio ragazzi”, dicevano in italiano, francese, inglese, spagnolo e tedesco, e poi c’era il numero di pronto intervento della polizia e dei carabinieri.

Un fantasma ci accompagnava. C’era e non c’era. Probabilmente ancora ci accompagna, ancora c’è e non c’è. L’abbiamo rimosso ma non dimenticato. E’ l’Ombra, il riflesso oscuro della città (sarà solo un caso che una minaccia del genere si sia manifestata non a Torino, a Bologna o a Trieste ma proprio a Firenze ?). Il fatto che mai, dopo decenni, sia stato scoperto il Mostro – uno o tanti? Lustmörder solitario o setta satanica, singolo “genio del male” o losca e abborracciata combriccola di “compagni di merende”? – che l’arma dei delitti – la fantomatica Beretta calibro 22, serie 70 a canna lunga – mai sia stata ritrovata; che il garbuglio di fatti e controfatti, di colpevoli presunti e presunti innocenti, di indiziati e sospettati, di inspiegate morti collaterali (prostitute, medici, poliziotti), di testimonianze ambigue, di depistaggi e impistaggi, di telefonate e lettere anonime, di messaggi terrorizzanti e macabri souvenirs anatomici, mai sia stato coerentemente dipanato, rende la questione tutt’altro che conclusa e archiviata. Come Jack the Ripper anche il Mostro di Firenze è ormai divenuto un personaggio mediatico internazionale, amico e collega di Hannibal Lecter, oggetto di film, serie tv e romanzi thriller e horror; per gli americani solo un Michael Myers più figo perchè agiva nella città di Dante, Leonardo e Machiavelli, ma per chi aveva seguito la successione dei delitti in diretta e magari aveva conosciuto e ricordava ancora le vittime, i poveri fidanzati caduti sotto i suoi colpi, uno spauracchio ben poco finzionale e fin troppo concreto. Cosa c’era, anzi cosa c’è dietro a tutto questo? E’ questa la domanda più inquietante a cui nessuno ha mai risposto: un dubbio, un sospetto sulla città intera, sulla gente che ci vive, sull’omertà che ha impedito per tutti questi anni l’emersione della verità o almeno di una spiegazione coerente.

All’ormai sostanziosa bibliografia sull’insoluto caso criminale, forse “il caso” di tutta la storia criminale italiana, si è aggiunto recentemente un monumentale testo in tre volumi, opera prima dello studioso Roberto Taddeo, che ha, a differenza di quasi tutti quelli già editi, il grosso pregio di non voler sostenere alcuna tesi precostituita ma semplicemente di raccogliere e ordinare in modo logico e congruente tutti i fatti noti, con l’intento non di convincere, esibendo una teoria anziché un’altra, ma semplicemente di narrare, sviscerando tutto quello che è possibile sapere: una mappa di orientamento all’interno di un labirinto.   

Questo primo tomo presenta in dettaglio tutta la sequenza dei delitti – partendo dal primo del settembre 1974, perpetrato fra Vicchio e Barberino di Mugello e l’ultimo del settembre 1985, a Scopeti vicino a San Casciano Val di Pesa – e approfondisce la cosiddetta “pista sarda” che riconnette ai delitti del Mostro – per l’uso della stessa pistola, mai ritrovata, e dello stesso tipo di proiettili, Winchester calibro 22 Long rifle, serie H, a piombo nudo o ramati – un precedente delitto avvenuto, con dinamiche assai diverse, nell’agosto del 1968 vicino a Signa.

La pista principale degli anni’80 è proprio quella sarda – perseguita dopo una misteriosa soffiata anonima, fatta passare ufficialmente per la geniale intuizione di un carabiniere – che mette in relazione l’arma del primo crimine con quella dei successivi. Una linea di indagini che oppone – evidenziando in modo paradossale le contraddizioni e inefficienze delle “forze dell’ordine” – i carabinieri con il giudice istruttore Mario Rotella – risoluti nel sostenere che “la pistola di un omicidio non passa mai di mano” e che quindi chi ha commesso il primo delitto in cui compare (e scompare) la misteriosa Beretta, nel 1968, sia necessariamente l’autore anche di tutti gli altri – alla polizia, la Questura e i procuratori Piero Luigi Vigna, Paolo Canessa, Carlo Bellitto e Francesco Fleury, con la neocostituita (nel 1984) SAM, la Squadra Anti Mostro, che cercano (senza praticamente cavare un ragno dal buco) in tutt’altre direzioni.

Rimandiamo all’appassionante testo per i dettagli del groviglio inestricabile della pista sarda che ha per protagonisti, tutti emigrati in Toscana dalla Sardegna, un minorato mentale, marito cornuto contento (ma non troppo), Stefano Mele, che cambia ogni momento versione dei fatti sull’omicidio della moglie fedifraga e di uno dei suoi numerosi amanti, e accusa ora sé stesso (facendosi così parecchi anni di gabbio), ora un ampio spettro di parenti e amici sul quale emergono soprattutto due poco raccomandabili fratelli, Francesco e Salvatore Vinci, entrambi amanti della moglie (uno dei due, bisessuale, anche del marito); infine un bambino, il figlio di Mele, testimone reticente dell’uccisione della madre e dell’amante, più un verminaio di personaggi minori uno più sinistro dell’altro.

Il volenteroso giudice istruttore Rotella coi suoi fidi carabinieri, sarà costretto alla fine a gettare la spugna, non riuscendo a incastrare Salvatore Vinci, il principale imputato al ruolo di mostro, che non subirà alcun processo e farà perdere le sue tracce (tutt’ora non si sa se sia ancora vivo in Spagna o no). La pista sarda verrà definitivamente abbandonata nel 1989, col proscioglimento per i delitti del Mostro, di tutti gli indiziati. Affossati i carabinieri, uno a zero per i procuratori, la polizia e la Squadra Anti Mostro, che stanno ancora cercando, per il momento senza successo, altre diverse vie di indagine.

Nel frattempo gli anni ’80, il decennio del Mostro, finiscono. Gli anni ’90, per fortuna senza più delitti e nuove vittime, saranno quelli dei processi a Pietro Pacciani e ai compagni di merende, a cui è dedicato il secondo volume in uscita a ottobre. Il terzo, che avremo a novembre, si concentra invece sugli altri possibili mandanti e figure oscure della “mostrologia”: Francesco Narducci, medico perugino ripescato (se il corpo era davvero il suo) nelle acque del Trasimeno nel 1985; Francesco Calamandrei, farmacista accusato e assolto per insufficienza di prove; Giampiero Vigilanti, ex legionario neofascista. Si giungerà così a individuare e determinare gli sviluppi investigativi più recenti, ancora pienamente in moto a tutto il febbraio del 2023, di un cold case tutt’altro che chiuso, un enigma che, come un malefico e velenoso miasma, non cessa di tormentare la Città del Fiore.

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