di Matteo Bortolon, CADTM Italia*
articolo pubblicato su il manifesto del 4 luglio 2020
L’attacco alle pensioni e la pressione per la loro riduzione è diventato così frequente che non fa nemmeno più notizia. Dalla famosa « riforma Dini » del 1995 si sono susseguite numerose misure che hanno peggiorato le condizioni dei pensionati ; ultima di essi : a giugno scorso l’aggiustamento del coefficiente di trasformazione che tramuta l’ammontare dei contributi (i soldi versati dal lavoratore) in importo pensionistico. Chi va in pensione nel 2020/21 sarà penalizzato.
Nel sistema precedente, detto « retributivo », nella fase post lavoro la somma ricevuta era calcolata in riferimento alle ultime retribuzioni; e l’obiettivo era che il soggetto mantenesse la stessa capacità di consumo. Nella fase successiva il sistema « contributivo » si focalizza invece sui versamenti contributivi : il lavoratore riprende (più o meno) quello che ha dato.
Abbastanza prevedibilmente le pensioni si sono abbassate : mentre prima del 1992 l’importo era intorno all’80% delle ultime retribuzioni, già nel 1995 una ricerca IRS calcolava che si era scesi al 64,7% (per giungere anni più tardi a poco più del 50%).
Tale processo apre il mercato della previdenza privata: i provvedimenti che abbassano le pensioni vanno di pari passo con quelli che stabiliscono le regole per il nuovo settore: il D Lgs. 503/92 del 30 dicembre 1992 taglia le pensioni; il D. Lgs 124/93 del 21 aprile 1993 (quattro mesi dopo!) istituisce i fondi pensione.
La logica è semplice quanto aberrante : dato che lo Stato diminuisce le sue prestazioni, va affiancata una forma privatistica che integri l’oramai dimagrito reddito dei pensionati con la adesione a fondi pensione, consegnando ad essi il proprio TFR.
Una parte di salario differito viene dirottato nei circuiti della finanza con investimenti poco decifrabili dagli aderenti.
Queste logiche consistono in uno spostamento per la soddisfazione dei propri bisogni dal terreno collettivo a quello individuale (o, al massimo, corporativo) : ad un diritto di carattere pubblicistico subentra una forma di contratto in cui l’alpha e l’omega è la scelta del singolo, che dovrà cavarsela da solo per capire la convenienza e il livello dei rischi. Teoricamente la Stato vigila, nel migliore dei casi potrà rendere più difficili truffe e amministrazioni allegre ma lo stesso ragionamento è stato fatto per la deregolamentazione dei mercati finanziari e non è finita tanto bene.
Ciò su cui è effettivamente difficile vigilare è la reale effettività dei contributi ricevuti, dato che le diverse forme contrattuali incorporano livelli crescenti di rischio, legandosi a fattori macroeconomici che su scala ultradecennale è difficile prevedere, se non alla stessa incertezza degli investimenti. In altre parole, a differenza delle rassicurazioni di consulenti che cercano di « piazzare il prodotto », il welfare di mercato sarà sempre più incerto – si pensi al fondo dei poligrafi che ha visto un dimezzamento degli assegni pensionistici…
Inquietante è il fatto che su questo specifico campo si realizza una forma di connivenza fra parti sociali: i fondi pensione sono frutto non solo di una legge, ma di contrattazioni collettive fra parti datoriali e sindacali, e sono catastrofici su tutti i fronti: la contribuzione da parte datoriale ad essi è senza dubbio un costo, che va sullo stesso piatto degli aumenti salariali, così che eventuali aumenti vengono sacrificati per dare liquidità a enti cui non tutti i lavoratori aderiranno (sempre che non diventi obbligatoria la sottoscrizione) ; ma nella amministrazione dei fondi vi è una compartecipazione di esponenti datoriali e sindacali.
Una «cogestione» che vede per esempio nel CdA di Cometa, il fondo pensione per i metalmeccanici di svariati esponenti di sindacati assieme al presidente Oreste Gallo, ex BlackRock, il fondo d’investimento privato più potente al mondo, ex Morgan stanley e ex Credit Suisse. Un campione di lotta di classe, ma dalla parte sbagliata.