Quello che sta succedendo nel capoluogo campano, a partire dall’insorgenza di piazza di venerdì 23 ottobre, sembra assumere connotati molto interessanti sul piano sociale e politico. Non un fenomeno episodico, ma una sedimentazione all’interno della quale pezzi sociali diversi iniziano a riconoscersi in un “comune” a partire da condizioni materiali molto simili tra loro. Nelle sue peculiarità, Napoli rappresenta un terreno privilegiato di inchiesta e di analisi ed è per questo che seguiremo l’evoluzione di quanto accade attraverso una serie di interviste. La prima è stata fatta ad Antonio Musella, giornalista di Fanpage, che ha seguito l’evoluzione della protesta, fin dalle due origini.
Tu hai seguito proteste di piazza a Napoli fin dalle origini, ossia da venerdì 23 ottobre. Napoli è stata la prima città dove le tensioni sociali si sono espresse in maniera così evidente: quali sono state le caratteristiche delle proteste, quale la composizione sociale e l’evoluzione?
Siamo partiti da un tumulto, quello di venerdì 23 appunto, che ha dato vita a un’agitazione sociale che si è poi animata in diversi segmenti della città.
Le immagini di quel venerdì le hanno viste tutti: era la prima notte di coprifuoco alle 23 e la protesta arrivava poche ore dopo l’annuncio del presidente della regione Vincenzo De Luca di un nuovo lockdown. Ci sono stati violenti scontri sotto la sede della regione, in una piazza che era stata convocata con un tam tam sui social, che ha visto sì la partecipazione di commercianti e titolari di locali, ma soprattutto di chi in questi esercizi commerciali ci lavora. Una composizione molto variegata, in cui le fasce più povere della città si sono riversate in piazza dando vita a quello che è stato un vero e proprio assalto alla sede della regione.
Bisogna sottolineare che non c’erano componenti politiche organizzate, né dei centri sociali né del mondo della destra, come qualcuno ha voluto far credere, ma segmenti sociali realmente variegati. Io utilizzo sempre questo tipo di metafora: quando pensiamo ai poveri di Napoli ce li immaginiamo come personaggi di una commedia di Edoardo De Filippo del dopoguerra – umili, timorati di Dio, dignitosi e mansueti – oppure teniamo conto delle forme della povertà del nostro tempo? Queste prevedono il fatto che chi è povero probabilmente lavora informalmente, in nero o anche non lavora, o partecipa alle forme di economia illegale per rientrare in quelle legali.
Anche l’analisi che leggeva in quella piazza la partecipazione della criminalità organizzata è sbagliata, se noi vogliamo andare a immaginare una regia criminale fatta addirittura dai clan. Ma sicuramente all’interno di quella piazza c’erano ragazzi e ragazze che lavorano con i mercati illegali: questo è assolutamente veritiero e ci parla di una composizione spuria che prevede come collante le condizioni materiali di vita e in particolare l’impossibilità di avere un reddito in caso di un ulteriore lockdown e di un’ulteriore ristrettezza.
Inoltre non era affatto una piazza negazionista, anzi era una piazza che poneva al centro il dramma della crisi sanitaria che sta vivendo la Campania e il Paese e aveva degli obiettivi molto chiari: il governatore De Luca e, in seconda battuta, il governo Conte. Quello che si chiedeva erano soldi e sicurezza rispetto alla tenuta sanitaria di un sistema ospedaliero che in questo momento in Campania è al collasso.
Dal tumulto di venerdì, che ha scatenato le più spicce sociologie nel dibattito pubblico, si è sedimentato un percorso assolutamente più definito e diverso. Il giorno successivo c’erano ad esempio in piazza, sotto la sede di Confindustria, precari dello spettacolo, sindacati di base, disoccupati; e anche lì ci sono stati degli scontri a Piazza dei Martiri quando i manifestanti volevano partire in corteo per raggiungere la sede della Prefettura di Napoli, dove nel frattempo era stato convocato d’urgenza il Comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza.
Già la piazza di sabato rivendicava in maniera più chiara sussidi, reddito per tutti, in caso di chiusura e di lockdown, e diceva una cosa chiara: «noi la crisi non la paghiamo!». Nella giornata di domenica c’è stata un’ulteriore manifestazione in un “quartiere bene”, quello del Vomero, che ha visto una composizione sociale completamente diversa: c’erano i titolari degli esercizi commerciali. Persone che, le cronache ci raccontano, molto spesso hanno a che fare col fenomeno dell’evasione fiscale, che non sono le categorie più svantaggiate o quelle che stanno pagando di più gli effetti di questa crisi sociale. Ma erano in tanti; parliamo quasi di un migliaio di persone che si sono radunate nel salotto buono della città, in via Scarlatti, e hanno sfilato fino alle strade del centro.
Lunedì c’è stata quella che, a oggi, è la fotografia politicamente più leggibile di tutto quello che sta avvenendo a Napoli in questi giorni. Stiamo parlando della grande manifestazione convocata in Piazza Plebiscito con lo slogan “Tu ci chiudi, tu ci paghi”, in cui c’erano diversi segmenti sociali organizzati e visibili: lavoratori del settore della ristorazione, dei bar e della ricreazione in generale, che hanno inscenato un cacerolazo con gli shake, i cuochi, gli animatori sociali che lavorano nelle feste, ma anche quei segmenti di lavoro informale scesi in piazza il venerdì precedente, che in quel contesto hanno finalmente potuto dire chi erano e cosa volevano.
“Tu ci chiudi, tu ci paghi” è qualcosa di molto esplicativo: se c’è bisogno di una chiusura per evitare l’aumento dei contagi, allora c’è bisogno di soldi, perché la crisi è di sistema e non può essere scaricata sulle categorie più deboli, ormai allo stremo in questa città già da marzo. Ricordiamo che a marzo ci sono stati degli interventi del governo che hanno spalmato gli aiuti su tutte le categorie, ma eravamo ancora di fronte a un’epidemia che nessuno conosceva. Chi governava e governa, a livello locale e nazionale, ha giocato in quella fase sulla paura di morire, da parte di tutti, ma in particolare dei più poveri, che non possono pagarsi le migliori cure come ha fatto ad esempio Silvio Berlusconi la scorsa estate. In questa fase non stiamo parlando di qualcosa di sconosciuto, ci sono stati 7 mesi in cui, dal punto di vista sanitario, sia il governo che le regioni, a cui compete la gestione della salute pubblica e dei servizi sanitari, hanno avuto tempo per organizzarsi e non lo hanno fatto.
Secondo una relazione dell’Anac (Autorità nazionale anticorruzione) presentata a giugno in parlamento, la Campania è la regione che ha speso più soldi per l’emergenza Covid e, a fronte di questo, oggi siamo una regione che conta 3 mila contagi al giorno, con il 60% dei quali che provengono dall’area metropolitana di Napoli. Sono stati spesi 18 miliardi di euro per costruire tre ospedali prefabbricati che lavorano a singhiozzo, sono stati aperti reparti Covid senza che ci sia stata l’assunzione di medici e infermieri, portando il personale sanitari all’estremo. C’è inoltre un’inchiesta aperta da parte della Procura della Repubblica di Napoli, nata proprio dopo un’inchiesta giornalistica di Fanpage, per turbativa d’asta e frode in pubbliche forniture che riguarda il “cerchio magico” del presidente della Regione. È questa situazione che ha determinato il tumulto di venerdì e, soprattutto, quello che è successo dopo: una regione in cui “l’uomo solo al comando” ha costruito una narrazione tossica del “miracolo campano” si ritrova dopo 7 mesi a non aver posto negli ospedali, con pazienti contagiati che aspettano per ore nelle ambulanze, non c’è possibilità di curare altre patologie.
Tornando alla manifestazione di lunedì, questa è arrivata sotto la sede della Regione senza scontri, anche per una gestione diversa da parte delle forze dell’ordine che si sono rese conto dei numeri della piazza, parliamo di oltre 6 mila persone. Da lunedì in poi c’è stato un crescendo: sono scesi in piazza i ristoratori, i genitori dei bambini delle elementari, che chiedono la riapertura in sicurezza delle scuole, manifestazioni convocate nei quartieri, in particolare in quello operaio di Bagnoli, o sotto al carcere, dove si stanno creando numerosi focolai di contagio. Nonostante l’annuncio da parte del governo Conte del “decreto ristori”, che indirizza gli aiuti esclusivamente nei confronti dei titolari degli esercizi, queste mobilitazioni non si sono fermate, anzi si sono moltiplicate.
Quindi, dal tumulto del venerdì si è passati alla sedimentazione di un percorso che ha rivendicazioni chiare e precise. Rivendicazioni sociali, che partono dalle condizioni materiali di vita, che non solo non negano l’emergenza sanitaria, ma puntano il dito contro regione e governo per non averla saputa gestire. Un’operatrice sociale che manifestava a Bagnoli mi raccontava: «io voglio il lockdown, meglio anzi che si faccia subito, ma ci devono dare i soldi per campare perché non si può scegliere se morire di fame o morire di Covid». Io penso che in queste parole c’è la definizione di quelli che stanno scendendo in piazza in questi giorni a Napoli.
Un ultimo elemento importante. Dopo la manifestazione di lunedì sera c’è stata un’assemblea che ha fatto segnare un salto di qualità per il fatto che segmenti sociali diversi si sono riconosciuti tra di loro constatando le condizioni uguali che stanno vivendo in questo momento. Questa sera (sabato 31 ottobre ndr) ci sarà questo grandissimo appuntamento alla rotonda Diaz, sul lungomare, a cui guarda tutto quello che si è sviluppato in questi giorni. Una manifestazione che giunge dopo il varo del “decreto ristori” e che anticipa di qualche giorno la richiesta di lockdown che farà il parlamento al governo, ma che soprattutto sarà ricca di questo tipo di rivendicazioni di cui parlavo prima.
Infine dobbiamo tener presente le reazioni da parte della politica. De Luca prima del tumulto sotto la Regione parlava con i suoi soliti toni bellicosi, puntando il dito contro i comportamenti a suo dire “irresponsabili” da parte dei cittadini. Dopo quei fatti non ha più parlato in questi termini, non ha fatto il lockdown regionale, alla conferenza Stato-Regioni ha sostenuto l’impossibilità di farlo in usa sola regione e anche alcune forze politiche che lo sostengono, pur condannando le “violenze” di venerdì, dicono che bisogna ascoltare la sofferenza sociale in questo momento. Quindi quello che è successo in questi giorni ha prodotto senza dubbio dei risultati: De Luca sembra un pugile suonato e sembra aver dilapidato quell’ampio consenso raccolto alle elezioni del 20 settembre.
Ci sono tanti elementi di grande interesse che emergono in quello che dici: le peculiarità di Napoli, un tumulto che ha creato sedimentazioni e che ha costretto “la politica” quantomeno a tornare sui propri passi. Emerge una visione della “cura” che è molto più complessa rispetto a quella emersa nella cosiddetta “prima ondata”. C’è però una questione che, da punto di vista dell’analisi di movimento, ci può interessare più di altre ed è legata al reddito. Secondo te l’humus che si sta creando in questa fase può creare i presupposti per una battaglia su questo tema che sia finalmente aggiornata e articolata rispetto alle condizioni materiali del presente?
Conosco i movimenti sociali da qualche decennio e non mi è mai parso che la parola “reddito”, così come quella “patrimoniale” siano mai state così di moda. La rivendicazione più chiara che emerge in tutte le piazze, quelle fatte dai lavoratori e non dai gestori, è proprio questa. “vogliamo reddito”. D’emergenza, universale, di cittadinanza, chiamatelo un po’ come volete, ma la sostanza è questa.
Certo, poi ci sono interessi divergenti, che per il momento non stanno ancora andando in contrapposizione. La richiesta del titolare di bar di non pagare le tasse per un anno per il momento resta una richiesta di settore, ma che non va in contrapposizione con chi chiede «fate il lockdown, ma dateci i soldi». Io penso che questo sia un terreno ricompostivo e, almeno a Napoli, si sta lavorando in questa direzione, dove la richiesta di reddito si intreccia con quella di sicurezza sanitaria.
Tutto questo avviene a Napoli in queste forme perché per otto mesi è stato raccontato ai cittadini napoletani e campani che noi vivevamo sulla Luna, che il sistema sanitario campano era il migliore del mondo. E non sto forzando la mano, sono proprio le parole precise utilizzate a più riprese da Vincenzo De Luca. Ti renderai conto che se uno racconta questa storia per otto mesi e oggi per avere un tampone in una Asl di Napoli ci vogliono tra i 20 e i 25 giorni, chiudono i reparti ordinari perché convertiti in Covid, nei pronto soccorso ci sono in promiscuità contagiati e non, allora è chiaro che la richiesta di sicurezza sanitaria diventa dirimente.
Faccio una ulteriore considerazione. C’è stato il tentativo di pezzi di destra, da venerdì in poi, di provare a costruire egemonia su quello che si è mosso. Ho visto con i miei occhi delegazioni di Fratelli d’Italia partecipare alle manifestazioni, in particolare quella del Vomero, con tanto di rappresentanti istituzionali. Il tentativo è miseramente fallito nel momento in cui la piazza di lunedì ha trovato un luogo di discussione, che è stata l’assemblea pubblica del giorno dopo che sarà seguita da un altro momento pubblico di discussione oggi in piazza Dante alle 18. È proprio questo salto di qualità che ha fatto fallire i tentativi di infiltrazione da parte delle organizzazioni di destra.
Ti faccio un’ultima domanda. Tu sei un giornalista, un bravo giornalista, ma probabilmente sei tra i pochi , quantomeno nella sfera mainstream, che è riuscito a raccontare gli eventi accaduti negli ultimi giorni nella loro complessità. Purtroppo, e questo sta accadendo dagli inizi della pandemia, stiamo assistendo a un abbassamento della qualità del giornalismo, a narrazioni troppo semplificate che rischiano di creare un grosso problema di lettura della fase. Una tua considerazione su questo.
Sarebbe un discorso molto complesso, ma provo a darti tre elementi di valutazione.
Il primo è che i fatturati dei giornali nel periodo dall’inizio della pandemia, le visualizzazioni per quanto riguarda gli online, i dati di share per le televisioni sono profondamente migliorati e sono aumentate, di conseguenza, anche le entrate per le pubblicità. Questo non vale per la carta stampata, i cui dati sono in ribasso all’interno di un trend che dura da anni. Questo vuol dire che il flusso enorme di informazioni con la parola chiave Covid-19 o Coronavirus deve quotidianamente essere molto alto. Tenendo questo flusso alto si ha bisogno di catturare l’attenzione e per spostare il traffico sul proprio canale bisogna trovare per forza di cose una particolarità o una differenziazione.
Questo porta, talvolta in modo non voluto e come puro esercizio tecnico, a una eccessiva semplificazione dei fenomeni, al provare ad azzardare ipotesi che magari qualche giorno dopo vengono completamente smentite.
Il secondo elemento di valutazione è che i giornalisti che vanno in strada in questo momento sono pochi. In molte redazioni ci sono stati focolai di Covid e questo ha determinato che in alcune testate non ci sia stata la possibilità concreta di leggere i fenomeni con più punti di vista. Ci sono alcune testate che – per scelta o necessità – raccontano il Covid senza mai scendere in strada o senza mai aver inviato qualcuno in un pronto soccorso, senza parlare mai con una persona che aspetta un tampone da 20 giorni.
Il terzo è la necessità di comprendere subito i fenomeni. Il mondo dell’informazione è un meccanismo rapidissimo, probabilmente il più rapido che il capitalismo conosca. Bisogna dare una lettura e se per questo ci vuole tempo questo automaticamente diventa ostativo rispetto a questa necessità. Soltanto la sedimentazione dell’osservazione può dare visioni più chiare.
Io non credo che ci sia la volontà di strumentalizzare le piazze o distorcere la realtà; non credo a una teoria del complotto dei media che criminalizzano le piazze per far dormire sonno tranquilli a chi governa. Semplicemente il mondo dell’informazione è un tritacarne nel quale prevalgono le letture rapidissime.
Quello che francamente mi ha sorpreso è stata la reazione della politica rispetto alla lettura che hanno fatto i giornali. Molte testate hanno parlato di “criminali, mafiosi e fascisti”, mentre da parte di alcune forze politiche c’è stata un’analisi più chiara di quanto stava accadendo e sta accadendo. E mi ha sorpreso perché solitamente non è una cosa che accade.
Infine credo anche che il problema di molta stampa sia quella di non andare a indagare quelle che sono le condizioni reali del Paese. Ad esempio in Campania abbiamo una inchiesta molto importante per quanto riguarda gli appalti per la gestione Covid, che è nata dopo un’inchiesta giornalistica di Fanpage; ne abbiamo un’altra che riguarda i fondi dati alla sanità privata per mettere a disposizione posti Covid, anche quella nata da un’inchiesta giornalistica, in questo caso di Repubblica. Quindi la capacità di inchiestare i fenomeni paga, ma quando è l’elemento della velocità a doversi imporre il rischio di dare letture sbagliate è molto alto.