Nella nostra valutazione dell’impatto economico delle misure finora concordate, sappiamo già gran parte di quanto è necessario conoscere. Il Consiglio Europeo ha trovato un accordo sulla versione di Angela Merkel, e non sui coronabond né sulla proposta spagnola. Come riportato da “Faz” stamattina, il piano prevede che la Ue aumenti il suo bilancio dall’attuale 1,2% al 2% per un periodo di due o tre anni. Questo aumento non avverrà sotto forma di contributi diretti da parte dei paesi membri, ma sotto forma di garanzie. L’articolo stima il volume annuale a una somma di 100 miliardi di euro, ovvero, secondo i nostri calcoli, lo 0,6% del Pil dell’Unione Europea (Eu-27). Il totale dei prestiti che potrebbero essere fatti sarebbe nell’ordine di 250-300 miliardi di euro nell’arco di due o tre anni. Questi prestiti extra non rappresentano il fondo stesso, sul quale la Commissione spera di fare leva per un ammontare maggiore. Una parte dei fondi sarà resa direttamente disponibile sotto forma di finanziamenti. Un’altra parte genererà investimenti tramite prestiti, e su questi si dovrà fare leva finanziaria per raggiungere l’ammontare target.
Qui sta la grande decisione politica che non è ancora stata presa. Gli olandesi e i tedeschi differiscono per diplomazia e linguaggio, ma esortiamo i nostri lettori a non cadere nella loro retorica sulla solidarietà. Entrambi i paesi vogliono che la maggior parte degli esborsi sia fatta sotto forma di prestiti. Ed è ciò che pensiamo accadrà. La parte di prestiti effettuata sotto forma di finanziamenti includerà un certo elemento redistributivo, con particolare enfasi sugli Stati membri che sono stati colpiti più duramente dalla crisi. Ma saremmo sorpresi se la Ue fosse in grado di concordare delle ri-allocazioni radicali delle proprie risorse entro questa categoria, semplicemente per il modo in cui vengono prese le decisioni sulle allocazioni stesse. I tedeschi parlano di solidarietà, ma anche loro hanno delle regioni povere che vorrebbero beneficiare del fondo. Se assumiamo un totale di prestiti per 300 miliardi di euro, la metà dei quali sotto forma di finanziamenti, l’impatto macroeconomico medio sarebbe dello 0,4% del Pil per tre anni. Questo sarebbe a livello di Eurozona, un po’ di più nel sud-ovest, un po’ di meno al nord-est. Data l’entità della recessione, questa cifra è praticamente nulla, indipendentemente da quanto sarà accentuato l’elemento redistributivo.
Come al solito, non fidatevi dei totali che vengono riportati nei titoli dei giornali. L’altra sera Ursula von der Leyen ha detto che l’ammontare sarà nell’ordine dei triliardi [migliaia di miliardi, NdT], non dei miliardi. Scorrendo i titoli dei giornali stamattina abbiamo trovato un sacco di giornalisti creduloni che sono stati colpiti da questo numero. Pensiamo sia un’illusione. Così come lo era il pacchetto di 500 miliardi di euro dell’Eurogruppo, perché confondeva e mescolava all’interno della stessa cifra l’intera capacità del Mes con la stima della capacità totale di leva finanziaria di due diversi fondi. È meglio pensare alle diverse categorie separatamente. Gran parte del nuovo denaro verrà sborsato sotto forma di prestiti al settore privato. La Commissione Europea tenterà allora di fare leva su quella parte dei 200-300 miliardi di euro che non saranno stanziati per finanziamenti, al fine di gonfiare la capacità totale del fondo al numero desiderato che deve essere riportato nei titoli dei giornali. Il metodo sarà quello del famigerato piano di investimento di Juncker.
I lettori ricorderanno che siamo stati tra i più vigorosi scettici di questo metodo. E siamo in buona compagnia. La stessa Corte dei Conti europea ha calcolato, secondo le proprie stime sul piano Juncker, che sebbene siano stati finanziati degli investimenti, è discutibile che quegli stessi investimenti non sarebbero stati finanziati comunque in altri modi. Non siamo nemmeno sicuri che questo meccanismo sia adeguato a risolvere i problemi di solvibilità del settore privato. Recentemente abbiamo notato una proposta interessante di un gruppo di economisti che hanno suggerito che la Ue partecipi direttamente nelle quote azionarie delle imprese. Una versione finale recentemente pubblicata del loro report entra nel dettaglio dei fondi. Siamo d’accordo che questo rappresenterebbe un modo migliore di effettuare gli esborsi da parte della Ue rispetto al fare credito. Non sarebbe né un prestito né un finanziamento. Ma solleverebbe la questione di chi dovrebbe coprire le perdite nel caso in cui la strada intrapresa fosse quella di un fondo finanziato con l’aiuto delle garanzie dei paesi membri, e presumiamo sarebbe la Banca Europea per gli Investimenti.
L’Ansa riporta che la Commissione farà delle proposte la seconda o la terza settimana di maggio. Gli investimenti non inizierebbero prima del 2021 nel migliore dei casi. I sostenitori dei coronabond hanno perso la loro battaglia, in parte anche perché non avevano un piano strategico. Sono stati raggirati da Angela Merkel e dai suoi alleati, che hanno una comprensione molto più profonda di cosa possa fare la Ue in una situazione come questa. La Ue può aumentare il debito, certo, ma secondo i trattati attualmente in vigore non può agire da stabilizzatore fiscale. Se Giuseppe Conte avesse davvero voluto i coronabond, avrebbe dovuto fare squadra con Emmanuel Macron e Pedro Sánchez. Ma questo non è avvenuto. Benoît Coeuré ieri ha fatto una serie di opportuni commenti al Senato francese, nei quali ha evidenziato il ruolo utile ma limitato che la Bce può giocare nella imminente valutazione delle priorità di soccorso ai debiti dei settori pubblici e privati. Ha detto che la sostenibilità del debito è un concetto politico. La Bce giocherà un ruolo di sostegno limitato in questo processo, non sarà l’attore principale in gioco.
L’impatto della crisi sul debito del settore pubblico dipenderà ampiamente da quali imprese faranno default sui prestiti coperti da garanzie statali. Coeuré ha definito la ristrutturazione del debito un atto fiscale, in cui l’onere viene trasferito da un attore economico a un altro. Noi poniamo la domanda se questo trasferimento potrà essere effettuato a livello di ciascuno Stato membro. Ciò pone a sua volta la domanda se il recovery fund possa trasformarsi in un meccanismo di trasferimento del debito, liberando i paesi più colpiti dal coronavirus dalla necessità di doversi accollare i debiti dei loro settori privati in via di fallimento. Questa sarebbe una grande differenza rispetto al piano Juncker, che aveva uno scopo molto diverso. La Bce non può monetizzare il debito Ue più di quanto possa monetizzare il debito di qualsiasi singolo paese. Questo significa che il debito finirà per tornare sulle spalle dei paesi membri. L’elemento redistributivo ci sarebbe solo nella misura in cui i prestiti e i finanziamenti non fossero proporzionali alle garanzie. Perciò potete girarla e rigirarla come volete, ma questo non è uno stimolo fiscale. Nella migliore delle ipotesi potrebbe diventare un veicolo di trasformazione del debito. Questo sarebbe il maggiore vantaggio che riusciamo a trovarci.
(Wolfgang Munchau, “Italia e Spagna piegate: passa il Recovery Fund tedesco”, pubblicato da “Eurointelligence” e tradotto da “Voci dall’Estero” il 24 aprile 2020. Direttore di “Eurointelligence”, analista economico internazionale, Muchau è editorialista del “Financial Times”).
(Wolfgang Munchau, “Italia e Spagna piegate: passa il Recovery Fund tedesco”, pubblicato da “Eurointelligence” e tradotto da “Voci dall’Estero” il 24 aprile 2020. Direttore di “Eurointelligence”, analista economico internazionale, Muchau è editorialista del “Financial Times”).