Non siamo politologi e certamente la prematura caduta di colui che veniva considerato il “salvatore” dalla situazione di emergenza sanitaria, politica ed economica nel nostro paese non fa altro che confermare la crisi sistemica ed organica della governance capitalistica, della seppur labile parvenza di democrazia rappresentativa e di stato di diritto.
In realtà, come già detto da molti, questo modello produttivo si nutre della crisi e dell’emergenza permanente come vera e propria metodologia di governo. Emergenza su emergenza – dalla sindemia, alla guerra, alla siccità, alla carestia – sembrano avverarsi le profezie apocalittiche di tonalità teologico religiosa. Ma è solo una mera suggestione: in realtà non c’è alcuna apocalisse intesa come evento unico posto in un futuro indefinito, magari in attesa dell’avvento del messia che può salvarci, perché siamo già pienamente inseriti in una serie concatenata di “catastrofi”. Sappiamo benissimo che queste catastrofi non sono neutre, ma hanno una matrice unica: il capitalismo, l’estrattivismo, il colonialismo e la distruzione della vita, o meglio la sottomissione della vita nel suo complesso alla logica del profitto in nome di uno sviluppo indefinito e infinito.
Altro che attesa messianica: si tratta di costruire con metodo, pazienza, giorno dopo giorno un processo in grado di trasformare realmente l’esistente, tessendo conflitti, relazioni, pratiche organizzative. Cosa che, pur con tante difficoltà legate proprio alla fase storica, stanno già facendo ad esempio migliaia di giovani attivisti “climatici” nei tanti appuntamenti che si stanno dando in giro per il mondo.
Ebbene, anche la politica rientra fino in fondo in questa logica emergenziale. In questi ultimi mesi è stato pienamente svelato che non esiste alcuna “transizione green”: ancora petrolio, gas, la riapertura dell’opzione nucleare, ancora più impoverimento di massa ed aumento delle diseguaglianze sociali. Come ben descritto da Naomi Klein, la shock economy, teorizzata da Milton Friedman e dai Chicago Boys, i teorici del neoliberismo, fa delle catastrofi un nuovo sistema di accumulazione di capitale, di rilancio del capitalismo, ed è proprio ciò che sta succedendo nell’emergenza permanente. Il disordine, il caos, la destabilizzazione dall’alto dell’ordine costituito diventano matrici per produrre nuovo ordine, ricostruito di volta in volta nel quadro dell’eccezionalità, per renderlo funzionale alle mutevoli esigenze delle grandi lobbies multinazionali e del capitalismo finanziario.
Non sfugge a questa logica la crisi italiana nella vicenda della caduta del governo Draghi, dove si intrecciano le vicende globali della crisi della governance con le peculiarità proprie del nostro paese. Dopo un arco di tempo piuttosto breve, evapora l’artificio dell’ennesimo governo di “unità nazionale” nel quale la partitocrazia, le oligarchie e gli interessi particolari delle singole forze politiche prevalgono su quello che doveva essere un governo forte attorno alla figura di Mario Draghi, l’uomo delle banche a servizio dei poteri forti europei.
Intanto la contraddizione immanente racchiusa negli stessi termini “unità” e “nazione”: lo Stato nazionale, così come sviluppatosi storicamente sull’idea di sovranità popolare ed autonomia decisionale è in inesorabile declino. Ciò chiaramente non significa scomparsa dello Stato, ma una sua rifunzionalizzazione e subordinazione rispetto a poteri transnazionali e sovranazionali, dove si concentrano i veri centri delle decisioni economico-finanziarie. E poi il concetto di unità, dove al contrario è evidente la disunione particolaristica delle forze in campo che attraversa l’intero arco dei partiti nonché ogni singola forza politica.
Qui potremmo sbizzarrirci sulla tragicomica caduta del MoVimento 5 Stelle, le polemiche nel centrodestra nella concorrenza tra Meloni e Salvini per la leadership nel futuro governo, dove lo stesso Salvini rilancia il problema delle frontiere e del blocco dei migranti e più poteri di polizia, sulla ricomparsa delle figure da opera buffa quali Renzi e Calenda per la costruzione del grande centro, sul PD e Letta alla ricerca di nuove alleanze “centriste” alla maniera democristiana. Quest’ultimo partito, anche in questa parte finale di legislatura si è contraddistinto sempre per essere più realista del re, più draghiano dei draghiani, più atlantista degli atlantisti, in prima fila nel riarmo e nelle spese militari sotto l’egida della Nato, nella repressione contro i movimenti, e potremmo continuare. Ma basta! Provoca disgusto persino parlarne di questa “autonomia del politico” in salsa italiana. E poi, naturalmente, c’è la grande torta dei fondi europei in cui i predatori rapaci fanno a gara per spartirsela.
Infine la vicenda di Mario Draghi, per alcuni versi enigmatica. I numeri per governare al Senato c’erano, anche senza i pentastellati, avrebbe potuto mediare sui famosi 9 punti posti da Conte e così via. L’impressione è che con il discorso al Senato rivolto alle forze politiche e la proposta di votare la fiducia sulla mozione Casini, sapendo benissimo che non sarebbe passata, abbia davvero cercato la rottura e porre fine a questo governo. Perché? Forse davvero vuole “pieni poteri” e non tollera la benché minima critica o interferenza, forse si è reso conto della mole di emergenze e della situazione catastrofica del nostro paese sul piano della crisi climatica e sociale, del fatto che il prossimo autunno si presenta denso di contraddizioni e di probabili mobilitazioni (ce lo auguriamo) e si è sfilato al momento opportuno, rendendosi conto dell’ingovernabilità strutturale da parte della classe politica.
Sullo sfondo della crisi di governo c’è sempre la lotta di classe, nelle sue forme vecchie e nuove, dalla moltitudine dei movimenti contro i cambiamenti climatici e per la giustizia sociale, alla ripresa delle lotte operaie, su reddito e lavoro, in particolare nel settore strategico della logistica, alle lotte trans-femministe contro il patriarcato, il razzismo, il colonialismo. Un potenziale ancora frammentato, ma che può ricomporsi in forme nuove per diventare potenza costituente e costruire l’unico antidoto al caos sistemico della governance neoliberista: le nuove istituzioni del “comune”. Siamo in una sorta di interregno, nel quale, come diceva Gramsci, il “vecchio muore, ed il nuovo stenta a nascere”.