Giancarlo Cappello è ormai molto noto per l’approccio che diffonde, quello della cosiddetta Coltivazione Elementare, “Non-Metodo Cappello”. Significativi i risultati raggiunti. Lo abbiamo intervistato.
Cappello, classe 1957, agrotecnico dal 1977, è autore del libro “La Civiltà dell’Orto. La Coltivazione Elementare“. Ha maturato una pluridecennale esperienza professionale in Italia, Sud Africa, Australia, Cina, Nord America, Russia, Libia, Portogallo, Olanda. Per oltre dieci anni consulente RAI in materia di agricoltura, dal 2006 si dedica all’orticoltura sperimentale con risultati incisivi sulle metodologie già vocate al biologico.
Diffonde la propria pratica presso realtà rivolte all’autosufficienza alimentare: ecovillaggi, comunità, orti condivisi, orti didattici, associazioni, ecc. Dal 1978 è inoltre diplomato «Potatore specializzato» in olivicoltura e ha messo a punto una propria modalità conosciuta come «Potatura Rispettosa dell’Olivo». Svolge un’intensa attività di formazione.
Lo abbiamo intervistato.
Da quale tua situazione nasce e in quanto tempo e sperimentazioni sei riuscito a definire l’attuale Coltivazione Elementare e ora che rese ha?
«Sono nato a Milano nel 1957, ma i miei genitori si sono trasferiti quand’ero piccolo e tutta la mia infanzia è trascorsa sugli appennini Emiliani degli anni Sessanta, quando ancora le strade erano per lo più sterrate, giravano poche automobili e le porte delle case e delle stalle erano sempre aperte per un pezzo di pane o per un bicchiere di latte. Sono cresciuto immerso in una dimensione agricola di altri tempi e malgrado le pressioni dell’industria chimico-meccanica sulle materie di studio della scuola agraria la mia ricerca di un’agricoltura a dimensione umana non è mai stata stravolta. La sintesi tra questa dimensione e l’affrancamento dalla fatica del passato l’ho trovata non nei moderni metodi industriali di coltivazione, ma in un percorso originale, umanistico e non scientifico, che mi ha portato nei decenni a superare i rendimenti dell’agricoltura distruttiva asservita all’industria. La Coltivazione Elementare è un “Non-metodo” che ho sviluppato a partire dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso. La caratteristica fondamentale consiste nel riportare la capacità di coltivare nell’ambito dell’estemporaneità naturale intesa come saggezza insita in ogni essere umano, che si accresce con la pratica e l’esperienza e si trasmette sul campo alle nuove generazioni. Al di là di questi aspetti assimilabili più a una contemplazione attiva che a una pratica agricola, ritengo siano da mettere in rilievo la quasi assenza di investimenti economici per raggiungere raccolti abbondanti per l’autosufficienza alimentare delle famiglie e delle comunità; la semplicità delle poche pratiche di coltivazione necessarie; l’adattabilità a qualsiasi situazione pedoclimatica non estrema; il risparmio idrico; l’alto valore nutrizionale dei frutti».
Tra i tanti spunti interessanti di cui scrivi sfati finalmente il mito per il quale per coltivare ci vuole la terra “buona” e in questo modo incentivi a coltivare praticamente ovunque. Ci puoi spiegare cosa intendi?
«La terra è “cattiva” perché è stato “cattivo” l’intervento umano su di lei. Siamo eredi di millenni di interventi “cattivi”, dalla pastorizia alle continue lavorazioni del terreno a scopo di lucro. I proprietari terrieri prima, il sistema bancario e il mito del consumismo oggi hanno costretto e costringono i contadini a cercare di tirare fuori dalla terra non il cibo quotidiano e le materie prime, ma il profitto altrui, aspetto non previsto negli equilibri della terra e della Natura in generale, generosa verso tutti gli animali. La terra rispettata, come avviene in Coltivazione Elementare, dà sempre cibo e prodotti in abbondanza indipendentemente dagli stupri subiti nel passato e nel presente e dalla natura geologica che l’ha formata».
Altro mito che seppellisci è quello tragico per cui l’orto vuole l’uomo morto. Parli infatti di impegno, ma non di fatica. Parole forti e coraggiose dato che si è abituati a pensare a un’agricoltura che spezza immancabilmente la schiena.
«La cultura occidentale, malgrado l’apparente benessere, è fondata sulla fatica dell’esistere delle masse, causata da chi detiene il potere a scopo di contenimento e sfruttamento della nostra vitalità naturale. L’etimologia di “capitalismo” è nel “caput pecoris”, il capo di bestiame costretto in uno spazio controllato e destinato al macello dopo lo sfruttamento in vita. Il principio capitalista vale sia per le greggi che per le masse umane assoggettate: una vita di restrizioni e sfruttamento e, vista la piega presa dagli avvenimenti globali, l’instradamento verso la soluzione finale che darà la possibilità ai potenti di prelevare tutto ciò che abbiamo prodotto in vita – e che è già depositato presso le loro banche – senza neppure doverci più vendere un paio di scarpe in cambio. Questa modalità di appropriazione si è verificata diverse volte nella Storia, solo per citare due esempi molto conosciuti: nel medioevo nei confronti dei Templari e nella Germania degli anni Trenta e Quaranta nei confronti degli ebrei e di altre minoranze. Il piano di contrazione numerica delle masse umane sino a una consistenza controllabile (militarmente, ma non solo) e al servizio della classe al potere non si è interrotto con la caduta degli Dei nel 1945, ha solo trasferito oltreoceano il suo centro decisionale. Anche se celato dietro la democrazia, la teocrazia, il nazionalsocialismo, il comunismo o altre facciate è sempre il capitalismo che vuole l’uomo morto. La Coltivazione Elementare non si è limitata e non si limita a dire basta, è un’agricoltura per una società alternativa».
Un aspetto poi centrale è quello dell’uso del fieno e non della paglia come pacciamatura, che tra gli altri vantaggi permetterebbe un uso dell’acqua ridottissimo, anche in estate con temperature prossime ai 40 gradi. E’ effettivamente possibile? Inoltre ritieni che non sia necessario utilizzare compost o letame, perché?
«Il fieno tagliato secco che deriva dai campi spontanei è formato da fibre variate e ricche di energia diversificata. La paglia proviene da una monocoltura su terra impoverita dalle lavorazioni e oltre a questo porta con sé residui di sostanze chimiche diserbanti, concimanti, antiparassitarie e biocide in generale. La struttura povera e inquinata della paglia non può dar luogo ai vantaggi della pacciamatura di fieno proveniente da prato spontaneo. L’effetto principale dell’assorbimento del fieno da parte del terreno è la formazione di un humus altrettanto variato ed energetico, grazie al quale si ricostituiscono sia il giusto grado di umidità indipendente dalle condizioni esterne sia la capacità nutritiva del terreno stesso. L’abitudine di considerare indispensabile l’aggiunta di concime, sia chimico che organico, nasce dalla consuetudine di lavorare la terra, magari anche solo leggermente come si usa oggi sotto l’anglicismo “soft tilling”, invece di pacciamarla con fieno secco
senza mai toccarla. Le lavorazioni portano la vitalità della terra al di sotto della soglia di capacità nutritiva necessaria alle crescita sana e forte delle piante: da qui l’illusione che l’aggiunta di concime
sia indispensabile. La realtà è che in condizioni di forzatura le piante diventano sensibili a condizioni meteorologiche ancora nella norma oltre che ai naturali tentativi di attacco da parte di forme di vita altrimenti utili. Oltre a questo le erbe spontanee intercettano le concimazioni e diventano anch’esse un problema (invece di una risorsa) da risolvere con i diserbi. Tutto lavoro autoindotto: questa agricoltura è la stampella di chi si taglia una gamba volontariamente».
Un tuo video veleggia verso i due milioni di visualizzazioni con undici lingue disponibili per la traduzione, direi che è un grande successo. Come ti spieghi questo notevole interesse? Sai indicativamente quante persone stanno applicando il tuo Non-metodo e con quali risultati?
«Effettivamente su YouTube una mia video-intervista del Non-metodo Elementare, realizzato nel luglio del 2021 dai giornalisti divulgatori Francesca della Giovampaola e Filippo Bellantoni nel mio orto, viaggia spedito verso i due milioni di spettatori, ma ce ne sono molti altri “visualizzati” da una quantità impressionante di persone. Tale diffusione, insolita nel settore, è certamente dovuta alle pratiche che presento, ma nell’oceano dei filmati on-line sull’orticoltura credo che tanta rilevanza dipenda anche dal messaggio sociale e umano di cui è portatrice la Coltivazione Elementare. Anche se non si svolge sotto i riflettori massmediatici, la Coltivazione Elementare è una pratica molto popolare, diffusa da decenni. Se ogni persona entrata in contatto con essa l’ha adottata e l’ha consigliata possiamo parlare di centinaia di migliaia, forse milioni, di Orti Elementari nel mondo. Già da un pezzo il mio libro “La Civiltà dell’Orto. La Coltivazione Elementare” è attestato nei primi posti delle principali librerie on-line: molte coscienze sono rimaste scosse e cercano un’alternativa comunitaria alla deriva autoritaria in atto. Per lo stesso motivo anche il libro da me introdotto e tradotto “L’Orto Senza Fatica” della coltivatrice statunitense Ruth Stout, pioniera del “bio”, conosce uguale fortuna. Le mie conferenze riempiono le platee. Sui social gli interventi dei coltivatori e coltivatrici “Elementari” sono innumerevoli ed estremamente favorevoli (e basta approfondire la
provenienza dei pochi contrari per comprendere gli interessi da cui muovono). Chi è consapevole di ciò che sta facendo e persevera nella Coltivazione Elementare ottiene ottimi risultati, anche le persone anziane e chi soffre di disagi fisici».
E’ possibile applicarlo anche per grandi appezzamenti e per la coltivazione di cereali?
«Come scrivo nel mio libro “La Civiltà dell’Orto. La Coltivazione Elementare” una persona già esperta riesce da sola a coltivare 1000 metri quadrati abbondanti di orto lavorando mezza giornata per cinque giorni a settimana senza alcun attrezzo meccanico. Per dimensioni superiori serve la comunità. La Coltivazione Elementare non è una riforma delle pratiche agricole, ma una diversa impostazione per ottenere ortaggi eccellenti a costi vicini allo zero riportando nella dimensione umana l’atto del coltivare come primo passo di crescita personale e di cambiamento sociale. Non intende integrarsi e sostenere l’attuale sistema economico, ma traghettare verso l’unica realtà possibile, quella naturale. La Coltivazione Elementare è una risposta pratica e filosofica alla deriva agricola, sociale ed esistenziale. Proprio per questo è considerata da molti anche “bella e poetica”. Ritrovarsi da soli a dover gestire ettari di terra è il risultato delle storture di una società fondata su proprietà surdimensionate rispetto alle necessità individuali e sul sistema economico che ci isola gli uni dagli altri. Non esiste un modo per “adattare” la Coltivazione Elementare su vasti appezzamenti gestiti da una sola persona, esiste solo la necessità di richiamare una comunità alla terra. Le conseguenze di una lavorazione anche leggera del terreno le pagano l’ambiente, la società e il coltivatore. L’apparente guadagno è soltanto una esternalizzazione dei costi. “Ritornare ad una agricoltura personalizzata e familiare è il nostro obiettivo. Se pensiamo sempre alla quantità piuttosto che alla qualità e al ricavato in denaro piuttosto che al ricavato in salute, psico-fisica-
spirituale, andremo inevitabilmente a “coltivare” la nostra fine…”. Io non penso come un’azienda, penso come una persona. Ho avviato da diversi anni interessanti sperimentazioni riguardo i cereali, farro e mais in particolare. I risultati sono incoraggianti e presto comincerò a trarne pubblicamente le prime conclusioni».
Sembri molto critico con la metodologia dell’orto sinergico che pare invece riscuota dell’interesse.
«La diffusione che ha avuto nel passato l’orticoltura definita “sinergica” è stata causata dall’assenza di alternative veramente percorribili conosciute dal pubblico, ma se la confrontiamo con lo splendido lavoro di Ruth Stout, precedente di decenni a Emilia Hazelip fondatrice del “sinergico”, possiamo vedere i limiti che ne hanno poi decretato il declino. Meglio ancora la causa di tale declino l’abbiamo vista nei campi deformati dai bancali che caratterizzano tale pratica, dove dopo il terzo anno la terra diventa dura come cemento, le erbe pioniere prendono il sopravvento e l’orto viene immancabilmente abbandonato a meno che non si dedichi uno sproposito di tempo, energia e fatica per mantenerlo in vita: l’orto sinergico vuole l’uomo morto. Se ancora se ne parla come di una attualità è perché chi coltiva ha via via abbandonato le modalità “sinergiche” continuando a chiamare “sinergico” il proprio orto, che magari nel frattempo è approdato proprio alla Coltivazione Elementare. Avrei potuto adagiarmi al conformismo dei “diversamente conservatori” e definire sinergico il Non-metodo, ma per onestà nei confronti di chi lo pratica ho scelto la strada più impervia dell’innovazione: nemo profeta in patria, ai posteri l’ardua sentenza e via dicendo».
Dici nel tuo libro “La Civiltà dell’Orto. La Coltivazione Elementare” che c’è qualcuno che ti combatte. Chi? I seguaci dei vari metodi cosiddetti biologici o le multinazionali dell’agribusiness chimico?
«Pur nella generale approvazione c’è in effetti anche chi mi contrasta. Racconto spesso di quando durante una conferenza sull’autonomia alimentare un signore mi ha chiesto: “Ma tu ce l’hai la scorta?”. Solo ripensandoci ho poi realizzato che non si riferiva alle scorte di verdura per l’inverno… Scherzi a parte, la Coltivazione Elementare viene percepita non come riforma al sistema, ma come una sostanziale rivoluzione. Le riforme vengono tollerate e talvolta alimentate perché di fatto confermano le condizioni di fondo smussando qualche spigolo, non rappresentano un’istanza di cambiamento radicale che possa distogliere gli oppressi dall’oppressione. I principi rivoluzionari invece non sono gestibili, almeno fino a quando l’ispiratore è in vita ed è incorruttibile. Solo post mortem i rivoluzionari vengono strumentalizzati dal Potere come i riformisti. Spero non sia così anche nel caso della Coltivazione Elementare (e del sottoscritto)».
Dici che sei un moneylessman… o quasi, cosa significa nel concreto?
«Il mio lavoro non è finalizzato al guadagno. La popolarità della Coltivazione Elementare mi consentirebbe di approfittarne, ma sono convinto che il vero guadagno sia mantenere viva la sensibilità per apprezzare il filo d’erba mosso dal vento da tempo immemore senz’altro scopo che esistere. Quando entri nel vortice della competizione, delle aspettative, del sospetto perdi te stesso e non c’è quantità di monete che possa farti ritrovare. Ho anche vissuto totalmente senza denaro dal 2013 al 2016, ma come racconto nel capitolo “Moneylessman o quasi” del mio libro in quell’esperienza ho vissuto splendori e miserie. Ora mi accontento del necessario e mi alleno
all’autosufficienza in attesa di una società senza denaro».
Sembri essere un po’ scettico su progetti come comunità intenzionali, ecovillaggi etc anche per esperienze personali mentre sembri più possibilista su progetti di Eco vicinato. Ci puoi spiegare la tua visione in merito?
«Ogni processo sociale procede per gradi. Incoraggio e sostengo fattivamente le realtà attuali, anche se sono ibride tra passato e futuro. Altre ne nascono più aderenti ad una visione veramente rivoluzionaria della società umana e del suo inserimento nell’ambiente naturale. Le restrizioni attuali della libertà e della dignità umana hanno dato un impulso mai visto prima alla formazione di nuove aggregazioni “intenzionali”, intenzionate cioè non a combattere contro il sistema, ma indirizzate alla costruzione di aggregazioni umane su basi più confacenti al nostro naturale desiderio di pace e serenità. Purtroppo i tempi della repressione sono rapidi e quelli della costruzione di nuove comunità sono lunghi. Io giro per l’Italia come una trottola per dare il mio supporto alla conquista almeno dell’autosufficienza alimentare di queste realtà in formazione».
Nel tuo libro parti dall’orto per poi dare una visione complessiva di cambiamento della società, pensi che davvero sia possibile questo cambiamento? Pensi che nonostante il periodo che stiamo vivendo con continui attacchi alla libertà, discriminazione e odio contro le persone, ci siano ancora speranza e possibilità di costruire un mondo migliore? A questo proposito citi il film meraviglioso e visionario “Il Pianeta verde”; potremmo mai vedere una realtà simile nella nostra società?
«I totalitarismi, anche quello attuale, si fondano sulla mancata risposta della società civile e sulla repressione armata. I tutori dell’ordine e i soldati difendono la classe al potere dalla quale vengono sfruttati al pari di coloro che vanno a reprimere nelle piazze. In tempi storicamente recenti i partigiani hanno cercato di cambiare la società a costo del sacrificio della propria vita; erano abbastanza organizzati, lottavano per tutti e malgrado questo molti di loro sono stati vittime della delazione dei compaesani e di chi infiltrandosi cercava vantaggi personali, soprattutto in politica. Nessuno aveva il coraggio di andarli a staccare dai lampioni, ma se diecimila persone lo avessero fatto nessuna milizia avrebbe potuto impedirlo. Gli Alleati li hanno armati e strumentalizzati e poi di fatto hanno assunto nel proprio establishment d’oltreoceano le menti migliori (si fa per dire) del nazismo – il che spiega l’attuale piega presa dagli avvenimenti – e in Italia dietro personaggi di facciata hanno riconsegnato il potere agli stessi funzionari del fascismo e ai capi cosca delle mafie. Nella Storia della civiltà il male ha sempre vinto. Mentre noi portiamo il nostro messaggio di pace e fraternità il Potere scalda i motori dei carri armati nelle caserme e alza il livello del terrore sanitario nella comunicazione massmediatica. Questo Coline Serreau nel suo film non lo aveva previsto. Spero che nell’attuale passaggio storico si realizzi l’eccezione che conferma la regola (del passato) e che vinca il bene; di certo grava su di noi la responsabilità di prendere il testimone dei partigiani e di riprendere la loro lotta per la libertà, armati questa volta non di fucili ma di Verità e di buon senso».
Alla fine del tuo libro c’è una interessante capitolo di Mara Lilith Orlandi che rivisita il maschile e il femminile e i loro ruoli nel storia del dominio e dell’umanità, perché hai scelto di trattare questo argomento?
Risponde Mara Lilith Orlandi.
«Quando si parla di Natura si parla di Madre e non solo in senso archetipale. In questo capitolo ho voluto evidenziare come storicamente la perdita, la svalutazione e la distorsione del femminile siano concausa degli attuali comportamenti violenti e predatori dell’essere umano nei confronti dei propri simili e della T/terra e di come solo il “recupero” dell’essenza materna insita nella Natura, nelle sue reali qualità amorevoli e formative, non corrotte dalle deviazione delle culture, possa dare origine ad una nuova migliore umanità».
Hai tradotto il libro di Ruth Stout “L’Orto Senza Fatica”, che è l’antesignana del tuo non metodo. Come mai da noi la sua intuizione rivoluzionaria è arrivata così tardi e comunque in genere hanno avuto più diffusione altre metodologie cosiddette biologiche?
Ho conosciuto il lavoro di Ruth solo tre anni fa, quando ormai la Coltivazione Elementare era ben delineata. Se l’avessi incontrata prima (intendo sui libri, è nata nel 1884 ed è morta nel 1980 quando io avevo appena ventitré anni) mi sarei evitato molta sperimentazione. Oggi posso dire che la Coltivazione Elementare rispetto a lei aveva già spostato avanti i paletti della coltivazione secondo Natura decenni prima che io venissi a conoscenza della sua opera. Tuttavia ritengo che la lettura de “L’Orto Senza Fatica” di Ruth Stout, dove la mia introduzione è praticamente un capitolo in più, sia un passo fondamentale per approfondire la comprensione anche del mio lavoro. Per me lo è stato. Masanobu Fukuoka (1913-2008) è considerato dai più come l’iniziatore della filosofia del “non fare” in agricoltura, ma il suo lavoro si è diffuso a livello mondiale solo dopo la metà degli anni Settanta, cioè quando Ruth Stout coltivava già da trent’anni, che è poi la differenza anagrafica tra i due. Bisogna aggiungere che l’attenzione di Fukuoka all’orto risulta assolutamente marginale in quanto era un produttore di agrumi e cereali – oltre che un cacciatore e un pescatore – e non cercava raccolti stabili e sicuri nell’orticoltura, mentre per Ruth l’orto rappresentava il fulcro dell’attività e la vera fonte dell’autosufficienza alimentare».
Cosa pensi della sistema di Food forest? Martin Crowford afferma che lavora poche ore al mese per il mantenimento, Panos Manikis dice che lavora solo per raccogliere, sembrerebbero sistemi efficaci e di pochissimo impegno, almeno quando sono a pieno regime.
«Stiamo parlando di frutteti, non di orti o quantomeno non di una orticoltura bastante per l’autosufficienza alimentare di una comunità. Il terreno ottimale per la crescita delle piante legnose come gli alberi da frutta è diverso da quello che fa crescere sane e forti le piante orticole, che sono erbacee: il primo si forma con le foglie che cadono dagli alberi, il secondo con gli steli che si allettano quando l’erba muore. Per ottenere un orto affidabile e produttivo è necessario che la pacciamatura assecondi questa condizione e sia formata da fieno ottenuto da un campo spontaneo e non da foglie o pezzetti di legno come nel sottobosco della food forest. Oltretutto l’orto vuole l’irrorazione diretta del Sole, cosa impossibile da ottenere sotto le chiome degli alberi. Un altro aspetto che non condivido dell’affidare la produzione orticola alla food forest è che gli spazi coltivati devono essere più ampi del necessario a causa della basse rese; questo significa che per proteggere le coltivazioni dagli animali selvatici andrebbero recintate vaste aree delle quali essi potrebbero invece godere anche in presenza di agglomerati umani».
Cosa diresti a chi vorrebbe iniziare a fare un orto?
«Gli consiglierei di informarsi il più possibile e poi di dimenticare tutto e di lasciare a casa il portafoglio. Di entrare senza apprensione nel terreno destinato alla coltivazione, di non diserbare e di non toccare la terra. Di restare immobile e in silenzio fino quando non accadrà qualcosa e la pacciamatura verrà stesa, le piante saranno allineate in filari e i raccolti cominceranno a riempire i cesti. Per il primo anno e magari anche il secondo consiglio di fare esperienza di Coltivazione Elementare su una superficie piccola di massimo cento metri quadrati e poi di espandersi negli anni successivi. A parte Schroeder di Linus, nessuno si può sedere davanti a un pianoforte e cominciare da subito a suonare Beethoven».
Fai consulenze o supporto sul campo e in caso è possibile contattarti per chi volesse applicare il tuo Non-metodo?
«Le consulenze private appartengono al passato di agrotecnico libero professionista nella mia vita precedente. Dedico il mio tempo principalmente al lavoro nell’orto. Affido l’opera di divulgazione ai libri, alla presenza sui social, al sito internet e alle conferenze e ai seminari che svolgo durante l’anno (di persona, mai on-line). Il sito internet in particolare raccoglie molte informazioni utili:
www.coltivazione-elementare.org. Altri libri sono in cantiere».
Foto: Mara Lilith Orlandi