Pubblichiamo l’intervista di Marco Armiero a Malcom Ferdinand – autore di Une écologie décoloniale. Penser l’écologie depuis le monde caribéen (Seuil 2019) – realizzata per il dibattito “Decolonizzare la crisi ecologica” tenutosi al Venice Climate Camp. Malcolm lavora al French National Council for Scientific Research e frequenta il dottorato di ricerca all’università Paris-Diderot; le sue aree di competenza sono filosofia politica, ecologica politica e storia ambientale ed è uno dei maggiori studiosi dell’area caraibica. Traduzione: Eleonora Sodini e Anna Viero.
Possiamo iniziare la nostra conversazione con una domanda: perché abbiamo bisogno di un’ecologia politica decoloniale? Cosa manca quando non consideriamo la prospettiva colonialista nell’ecologia politica di oggi?
Beh, mancano molte cose e potrebbe non essere efficace. Il punto di partenza di questa ecologia decoloniale è la realizzazione che siamo di fronte a una frattura non solo all’interno dell’ecologia politica, ma forse anche all’interno delle diverse forme di movimento ambientalista ed ecologico. Una frattura per cui da una parte ci si chiede, ci si confronta, si ragiona su problematiche relative al cambiamento climatico, alle politiche ambientali, perfino alla sociologia ecologica, ma si esclude il vero problema del razzismo, del lascito della schiavitù e della storia mondiale della colonizzazione. Dall’altra parte, molte persone “non bianche”, profondamente impegnate in questioni anticoloniali, antirazziste e decoloniali, tendono a diminuire l’importanza di problemi ambientali.
Questa frattura la si può notare in diverse occasioni: durante conferenze, in classe. Tuttavia, ci accorgiamo anche che quando usciamo e ci confrontiamo con la diversità, siamo in grado di riconoscerla, quando però torniamo in classe e parliamo di ecologia si crea questo paradosso per cui improvvisamente la stessa diversità sparisce. Non è solamente una questione di diversità, ma è anche una questione concettuale e di tematiche importanti per persone povere e vittime del razzismo. Quindi, non adottando un’ecologia decoloniale, si mantiene intatta una società in cui non vengono prese in considerazione le esperienze di coloro per i quali la storia del colonialismo e della schiavitù non è un qualcosa di lontano nel tempo, ma è tuttora molto presente.
Quello che ho fatto nel mio libro è evidenziare una diversa genealogia del pensiero ecologico. I filosofi a cui maggiormente ci rifacciamo sono Jean Jacques Rousseau o Henry David Thoreau, uomini bianchi che vivevano in una società coloniale e schiavista e fingevano di girare intorno a un “circolo naturale vergine”. Il mio presupposto è diverso. Nel 18esimo secolo, ma anche nel 19esimo, in America, nello stesso momento in cui questi signori scrivevano importanti opere, uomini, donne, bambine e bambini venivano schiavizzati sulle navi negriere.
Ma anche loro avevano un’idea, una visione del mondo. Così è successo che non hanno potuto evitare i sistemi politici per incontrare la cosiddetta “Natura”. Le loro esperienze di “Natura” venivano assimilate dalle storie personali di colonizzazione e razzismo. Partendo da questo presupposto, possiamo anche vedere la resistenza attiva che articolava e univa due tipologie di opposizione: da una parte la distruzione ecologica derivata dal sistema delle piantagioni (che prevedeva la presa di vari terreni e foreste che venivano abbattute e trasformate in una o due colture da esportare), dall’altra parte la resistenza veniva messa in atto contro il razzismo e la schiavitù.
Alcuni dei personaggi che maggiormente hanno ispirato il mio pensiero erano gli schiavi fuggitivi, i cosiddetti “maroons” (cimarroni) in quanto ben mostravano questo duplice aspetto.
Il primo punto che voglio evidenziare nel mio libro è una sovra-branca dell’ecologia politica: la fondamentale resistenza alla distruzione ecologica e al dominio politico allo stesso tempo. L’altro problema è che non applicando un’ecologia decoloniale riproduciamo uno spazio dove le persone pensano alla Terra e al mondo in maniera globale, senza però pensare alle persone che lo abitano. E quindi la domanda è: che tipo di mondo ci stiamo immaginando se viene data voce solo a una piccola parte di questo? L’ecologia decoloniale è davvero una chiamata, un invito ad andare oltre questa frattura, a mettere insieme le due lotte e ad avere più modi di pensare un mondo diverso e di andare contro alle società capitaliste.
Mentre parlavi mi venivano in mente molti spunti: ho pensato al lavoro di Cedric Robinson sul marxismo nero, prima di tutto, e il suo pensiero circa il capitalismo razziale. Il razzismo non viene quindi visto come un tipo di aberrazione del capitalismo, ma come modalità in cui il capitalismo è costruito e opera. Anche Laura Pulido parla di razzismo e Antropocene, definendo l’antropocene come “l’era dell’essere umano”. Hai anche menzionato la nave negriera: quello che mi viene in mente è lo studio di Jason Moore e la sua concezione della Terra come una grande nave negriera. Forse richiama anche la metafora dell’essere tutte e tutti insieme sulla stessa barca.
Adesso seguirà la mia seconda domanda. Vorrei che tu ci parlassi del termine “Negrocene”: che cos’è e perché è importante? Io credo che sia un modo per reagire in maniera oppositiva anche ad una narrativa egemonica rispetto all’Antropocene, ma adesso lascio parlare te…
Il punto di partenza, come hai detto tu, è la tendenza universale ad affermare che esiste una parola capace di fissare e di spiegare la realtà: questa parola è proprio Antropocene, cioè l’era dell’anthropos. Di certo moltissimi studiosi e studiose hanno negato l’esistenza dell’anthropos, affermando che siamo tutti e tutte una moltitudine di diversi gruppi, che in alcuni casi si dominano l’uno sull’altro.
Quello che ho trovato stimolante è che quando pensiamo al concetto di “minorità” delle popolazioni indigene, di solito vi è un’opposizione fra il colonizzatore europeo e occidentale e le persone autoctone. Il confine fra i due è molto debole. Tuttavia, quando entriamo nel particolare della prospettiva degli schiavi africani deportati nelle Americhe, non sappiamo in che categoria inserirli. Perfino in alcuni filoni di pensiero ecologico è molto comune appellarsi alle soggettività indigene senza però necessariamente riferirsi alle loro opinioni.
Quindi perché il Negrocene è importante? Perché è frutto di una creazione. Il termine “negro” deriva da una creazione politica di un essere che può essere sfruttato, di un essere che non ha una voce, e che non può entrare in alcuno spazio politico. Dimentichiamo la sua cultura, il suo immaginario, la sua identità. Ecco la differenza tra una persona nera e una persona negra. E se si va ancora oltre, ci si rende conto che questa costruzione non fa riferimento solo agli esseri umani, ma anche ai non umani, più nello specifico alla Terra che viene trattata in quanto negra.
Per mettere in luce questa “negrificazione” del mondo uso il termine Negrocene. Questo ci ricorda che la schiavitù è stata un precursore del capitalismo, come fra molti ha affermato Eric Williams. Tiene anche in considerazione non solo la sua storia, ma anche la resistenza, le persone che hanno cercato di opporsi al cosiddetto Antropocene, che è sia devastazione ambientale che oggettivazione dell’essere umano. Usando il termine Negrocene volevo sottolineare questo aspetto, che è stato prontamente escluso dagli esponenti dall’Antropocene. Un esempio è rappresentato da Paul Crutzen: viene da un Paese, l’Olanda, dal passato coloniale e che tutt’oggi possiede colonie nei Caraibi, in Indonesia, Sudafrica e Sudamerica. Eppure ritiene normale parlare della storia della terra senza nominare la storia coloniale del suo Paese. Ecco perché ho deciso di mettere in luce l’esistenza del Negrocene e della necessità di parlare anche di questa tematica.
Sono d’accordo. Credo che alcuni – Giovanna Di Chiro se non sbaglio – abbiano parlato anche dell’Antropocene dell’uomo bianco, mettendo in relazione patriarcato, razzismo ed eteronormatività. Grazie del tuo approfondimento. Penso che il concetto del Negrocene stia aprendo una grande porta nell’attuale crisi sociale ed ecologica. E parlando di crisi ecologica, oggi siamo qui a Venezia al Climate Camp 2020. Potresti parlarci del cambiamento climatico dal punto di vista della decolonizzazione e del Negrocene? Come pensi che questi due concetti siano in relazione tra di loro? Potremmo addirittura parlare di riforme ecologiche e decolonizzate, o al contrario di politiche ecologiche coloniali?
Quando facciamo delle riforme o creiamo dei motti riguardanti la crisi climatica dobbiamo ricordarci sempre che non si tratta solo di clima, ma del tipo di società che vogliamo creare.
Nel passato, e anche oggi, alcune persone hanno sfruttato la crisi climatica – se la paragoniamo a una tempesta – per escludere il diverso, renderlo schiavo e gettarlo in mare. Possiamo dire che a volte la crisi climatica ci fa vedere il mondo come una nave negriera. Molte volte nella storia americana c’è stato un uragano, ad esempio l’uragano Katrina – e sappiamo bene che il cambiamento climatico amplifica questi fenomeni – che ha reso i poveri ancora più poveri e oppressi. Poveri che non hanno nemmeno le stesse risorse per affrontare e sollevarsi dalla tempesta.
Ecco perché non possiamo pensare alla crisi climatica senza includere il concetto di giustizia, non solo quella sociale e politica, ma anche quella per tutti coloro colpiti dal razzismo. La schiavitù infatti non è solo un sistema politico, ma è anche uno schema mentale in cui le persone nere non meritano la giustizia. C’è una storia interessante riguardo all’immaginario culturale degli afroamericani. Per loro gli uragani seguono la stessa rotta delle navi schiaviste: partono dalla costa ovest dell’Africa, giungono in Sudamerica, America centrale e del Nord, per poi dirigersi verso l’Europa.
La domanda allora diventa questa: gli uragani, intensificati dal cambiamento climatico, renderanno più grandi anche le disuguaglianze che già esistono?
La risposta è in un’alleanza tra i movimenti antirazzisti e quelli per la giustizia climatica. A Parigi negli ultimi mesi abbiamo visto qualche tentativo di collaborazione: in occasione delle proteste antirazziste per l’uccisione di Adama, ammazzato dalle forze dell’ordine francesi proprio come George Floyd, abbiamo organizzato alcuni eventi cercando di unire il movimento contro la polizia e quello climatico.
Se non si include una visione anticolonialista alla crisi climatica, le leggi andranno sempre a sfavore delle soggettività più svantaggiate, di coloro che hanno contribuito meno al cambiamento climatico ma che risentiranno maggiormente delle sue conseguenze.
Sono completamente d’accordo. Stavo proprio pensando a questa necessità di creare un’allenza, una cooperazione. Mi ricordo che qualche anno fa il movimento Black Lives Matter era andato a Standing Rock per supportare la lotta dei nativi americani contro la costruzione dell’oleodotto. Penso che lo slogan #Icantbreathe rappresenti perfettamente questa interconnessione tra il razzismo e la crisi climatica, e ritengo che questa crisi rappresenti un’occasione per creare una nuova alleanza antirazzista e anticapitalistica.
Parliamo spesso del grande problema del negazionismo climatico. Eppure, penso ci sia anche un altro problema: cosa potrebbe succedere se a un certo punto la classe al potere accettasse il cambiamento climatico? Ci sarebbe il rischio della nascita di un nuovo gruppo di vigilanti bianchi. Ed è proprio quello che stiamo osservando in New Orleans.
Rebecca Solnit, scrittrice americana, dice che ogni paradiso ha bisogno del suo inferno, del suo muro. Ora, quello che sto per dire potrebbe sembrare controverso: penso che la risposta non risieda nell’accoglienza – anche se ovviamente dobbiamo essere accoglienti – ma nell’abbattere quel muro.
Sì, dobbiamo distruggerlo. E credo che un modo per farlo sia proprio attraverso la collaborazione. A volte è proprio una questione di potere: insieme siamo forti e possiamo influenzare molte cose.
In Francia il movimento antirazzista e quello climatico hanno lo stesso slogan. Non respiriamo, vogliamo respirare.
Sia per la presa della polizia, sia per l’inquinamento. Si tratta di un movimento molto potente, che alcune persone non vogliono vedere, ma che potrebbe fare molte cose belle.
Penso che possiamo concludere con queste belle parole. Grazie Malcom per essere stato qui con noi oggi.
Grazie a te Marco, e a tutti e a tutte voi.