Martedì 5 luglio si è tenuto presso lo Stand Media e Produzioni il talk intitolato “La guerra climatica”, con ospiti Alessandro Runci (Re:Common), Ferdinando Cotugno (giornalista) e Antonio Pio Lancellotti (moderatore).
Nei dibattiti di questa edizione del Festival, il tema della guerra è stato affrontato sotto vari punti di vista: dalle implicazioni economiche, politiche e geopolitiche (“La guerra oltre la guerra”) al tema della solidarietà internazionale con le reti autorganizzate ucraine (“Solidarity from below against the war”). Il nesso tra guerra e clima è rimasto sullo sfondo, ma è centrale in qualsiasi discussione, soprattutto considerata l’importanza strategica dell’Ucraina sul piano delle risorse e dei flussi energetici, che – dopo due anni di pandemia – sta contribuendo a far emergere un corto circuito inedito nello sviluppo-inviluppo del capitalismo. Citando Andreas Malm, Lancellotti introduce il dibattito facendo riferimento al concetto di “emergenza cronica”, come crisi intrinseca al modello di sviluppo capitalista in questa fase storica.
Il giornalista prosegue interrogando Alessandro Runci sulla “dipendenza dal gas russo”, che lo stesso Runci – intervistato per Globalproject.info nel corso del Meeting internazionale dei movimenti climatici tenutosi al Centro Sociale Rivolta lo scorso inverno – aveva definito come nient’altro che dipendenza dagli interessi delle grandi multinazionali come ENI, che non solo detengono il controllo energetico, ma in alcuni casi sono i principali attori della stessa politica estera. «Cosa pensi che sia cambiato in questi mesi?»
Runci riflette sull’ipocrisia di governo e multinazionali che, per sostituire il gas russo, stanno stipulando nuovi accordi – prima in Algeria, poi in Qatar, a breve probabilmente anche in Egitto e Mozambico. Da sempre il governo italiano accompagna ENI in queste missioni di “diplomazia economica” diventandone l’apripista: la dipendenza dal gas russo rappresentava nient’altro che un vantaggio dal punto di vista diplomatico. Gli stessi soggetti, continua Runci, che oggi parlano di diversificazione, propongono alternative non attuabili nel breve termine e, proprio perché ci hanno portato in questa situazione, non dovrebbero avere nessuna legittimità nel proporre le alternative per uscirne.
Il dibattito prosegue sul tema della ricarbonizzazione: Lancellotti interroga Ferdinando Cotugno sul ritorno ai combustibili fossili, sancito dall’ultimo G7, a poco più di due anni dalla votazione con cui il Parlamento europeo aveva invece dato inizio al cosiddetto “Green Deal”.
Per Cotugno, se è vero che quella in Ucraina non è la prima guerra climatica, è altrettanto vero che è la prima grande guerra da quando la lotta ai cambiamenti climatici è diventata una lotta geopolitica. Ci troviamo quindi di fronte a un bivio per risolvere questa crisi: scegliere se continuare ad utilizzare gli strumenti del capitalismo per risolvere i problemi che il capitalismo stesso ha creato (alla COP26 si è parlato di finanza, non di clima) o rimuovere la causa della stessa crisi.
«Non stiamo andando verso una vera transizione energetica perché non stiamo sostituendo energia ma, anzi, la stiamo aggiungendo: attualmente il 40 % dell’umanità ha i consumi dell’Europa del ‘900. Questo dato parla chiaro: una parte dell’umanità ha il dovere ridurre il suo consumo di energia mentre un’altra parte ha il diritto di aumentarli. Il G7 è stato un “liberi tutti”, non c’è stata davvero l’intenzione di andare verso una riduzione dei consumi ma solo di sostituire i combustibili fossili di Putin con quelli di altri. Esiste tecnologia per un’efficienza energetica, dovremmo utilizzarla».
Lancellotti prosegue con una domanda per entrambi gli ospiti: «Nel dibattito di movimento – e non solo – il tema delle risorse spesso si lega con quello delle cosiddette “alternative energetiche” che però sono difficilmente individuabili se non ci si pone il problema dell’alternativa complessiva a questo modello di sviluppo. Cosa ne pensate?».
Alessandro Runci: «non siamo attrezzati a rispondere, ma questa è la domanda centrale. Quando diciamo “Dobbiamo dimezzare le emissioni e i consumi” de-politicizziamo la questione aprendo la strada a finte soluzioni tecnologiche. Il governo attuale sta tentando di individualizzare la crisi riducendola ad una questione domestica, come era stato fatto durante la pandemia. La risposta non è in mano agli esperti, bisognerebbe invece chiedersi: “Da dove partiamo? Quali consumi riduciamo?” Quale economia agiamo? Ci sta bene questo modello economico e produttivo? Qual è il modello energetico ovvero da quali fonti ma soprattutto per chi e per cosa produciamo energia e a quale costo?».
Ferdinando Cotugno: «dobbiamo uscire da discorsi tecnico-scientifici (che non hanno valore per le persone) sul tema dell’energia, cominciare a pensare a che società vogliamo costruire (lavoro, rapporti interpersonali, abitudini), andare verso un cambiamento “esistenziale”. In questo momento il processo è scoraggiante e faticoso ma il fulcro dev’essere “per cosa fatichiamo, cosa accadrà poco, che mondo stiamo provando a costruire”. Ora che la “transizione ecologica” sta mostrando le sue mancanze, abbiamo la possibilità di dichiarare amnistia su tutto quello che è stato fatto finora. Le nuove domande vanno fatte su una scala diversa – quella esistenziale».
Lancellotti continua con Alessandro Runci: «Nelle inchieste di Re-Common avete sempre tenuto insieme la questione ambientale e quella finanziaria. Cosa ha cambiato la guerra – o cosa ha accelerato – in questa prospettiva?».
«Quello che cerchiamo di fare come Re-Common è di utilizzare la finanza come una leva per colpire l’industria fossile, poiché attore fondamentale nei piani di espansione di ENI. Negli ultimi anni abbiamo avuto un impatto notevole sulle 3 principali istituzioni finanziarie che hanno dovuto adottare delle politiche di restrizione dei finanziamenti ai combustibili fossili. L’azione fondamentale, ma anche complessa, è stata quella sulla cosiddetta “finanza pubblica”, sull’agenzia SACE, cassaforte e garante dell’industria fossile italiana, il 90% delle cui risorse sono concentrate nel settore crocieristico, energetico, di armi e infrastrutture. Portare SACE a disinvestire dai combustibili fossili è molto più complesso che agire sul privato. Privato che ormai attua politiche climatiche molto più avanzate di quelle della Commissione Europea stessa; basti pensare che nella “tassonomia verde” a livello europeo il gas viene considerato un investimento verde».
Lancellotti prosegue con Cotugno: «oltre alla questione energetica, questa guerra sta avendo forti implicazioni su una crisi alimentare che potrebbe profilarsi all’orizzonte?».
«La crisi alimentare è una catastrofe che non riusciamo ancora a visualizzare ma è utile a capire quanto sia sistemico il problema: non solo energetico ma di un intero sistema sociale, economico e politico che sta collassando. Il continente più danneggiato è l’Africa: nel 1970 un rapporto FAO diceva che l’Africa era autosufficiente dal punto di vista alimentare, in 50 anni problemi politici, infrastrutturali, cambiamento climatico hanno cambiato le regole del gioco ed oggi il continente africano si trova in una situazione di totale dipendenza (la Nigeria dipende per i 2/3 delle calorie dal Mar Nero), nonostante siano qui il 60% delle terre arabili del pianeta. Bisognerebbe tornare a coltivare prodotti locali (cassava, miglio, ensete), adatti al territorio e più resilienti anziché importare: l’80% delle calorie consumate dall’uomo vengono da 13 prodotti e questo soprattutto a causa di una logica economica a profitti. Il colonialismo non è davvero finito, ha solo trovato nuovi modi di funzionare. Di nuovo, anche la soluzione alla crisi alimentare è culturale e politica, strettamente legata a temi energetici ed economici».
Sempre a Ferdinando Cotugno: «un altro tema è quello della siccità, nell’ottica emergenziale. Di recente hai scritto su Domani che la siccità è la “nuova normalità climatica” per l’Italia».
«Oltrea “normalità”, altro termine fondamentale è “realtà”: negandola, si accumula un debito che poi va pagato. Dobbiamo immaginare l’acqua come un conto in banca: possiamo controllare quanto risparmiamo e quanto preleviamo ma non quanto viene versato perché dipende dal ciclo dell’acqua e dagli ecosistemi. Noi continuiamo a prelevare come se niente fosse, senza risparmiare, ignorando gli allarmi e i dati sulla siccità. Il problema è quindi di dissociazione: l’Italia sta vivendo una catastrofe, economica, alimentare, agricola e sul piano internazionale continua a comportarsi come il paese più fossile d’Europa. Siamo cresciuti con un’idea di abbondanza di acqua che non è più sostenibile, e non siamo culturalmente pronti a cambiare il nostro rapporto con l’acqua: come al solito trattiamo il problema come un’emergenza. La siccità invece è come un piano inclinato, c’è bisogno di aprire gli occhi e attrezzarsi per una realtà diversa che vedrà conflitti su più piani: tra gli usi (agricolo, industriale, civile) e tra i territori (tra chi avrà poco e chi pochissimo)».
Risponde anche Runci: «da un lato la logica di mercato continua a farci mettere in atto comportamenti irresponsabili “finché conviene”, dall’altro il racconto dei media – a parte alcune eccezioni come Domani – della crisi della siccità impedisce di prendere coscienza collettiva su quali siano le radici sistemiche del problema. è un continuo tentativo di trovare la soluzione tecnologica di breve termine senza mettere in discussione il modello».
Cotugno aggiunge a questo proposito che il problema dell’acqua, non dipende dagli sprechi del sistema (quello che perdono gli acquedotti torna in falda). Non è risolvendo il problema dell’infrastruttura e dello spreco che si risolve il problema della siccità.
A entrambi gli ospiti viene posta l’ultima domanda: «un attivista invitato al meeting internazionale alcuni mesi fa aveva detto che “i movimenti attuali non lavorano per il caos, ma per riequilibrare le sorti di un mondo a rotoli e di un’umanità devastata”. Secondo voi qual è il ruolo che possono avere i movimenti in questa fase storica?».
Ferdinando Cotugno: l«a risposta è “il capitale morale”. C’è un enorme bisogno di partecipazione politica di massa, di uscire dalla bolla. Nel 2019 l’ecologia era diventata finalmente una rivendicazione di massa popolare; poi la pandemia e la guerra hanno amplificato la crisi energetica e questo processo è stato interrotto». Bisogna ritornare a quello spirito di primavera del 2019, ribadisce Cotugno, mobilitando i giovani, ma anche quello che Bill McKibben chiama “Third Act”, i “sessantenni”, la classe anagrafica più numerosa (quella che spende di più, vota di più).
Alessandro Runci: «Il modello energetico è fallito portando ad una precarietà energetica (nel sud Italia oltre 1 famiglia su 10 non riesce a pagare le bollette). Le istituzioni rispondono finanziando il mercato, il clima politico per parlare di transizione ecologica non è mai stato così ostile. Ma a livello sociale, come movimenti, abbiamo fatto abbastanza per intercettare una frattura (non prevista)? Siamo rimasti a guardare anziché affrontare il tema della povertà energetica – dell’accessibilità delle risorse – in Europa 1 famiglia su 4 non ha accesso all’energia: la questione climatica e la cosiddetta “fine del mondo” si intrecciano profondamente con la questione “fine del mese”».