La vicenda giudiziaria che ha travolto Mimmo Lucano e Riace non è ancora finita, dovremo aspettare l’appello, quindi anni dati i tempi biblici della giustizia italiana. Eppure il senso politico e collettivo mi pare già più che definito.
Non è necessario perdersi dentro le oltre novecento pagine delle motivazioni alla condanna contro Mimmo Lucano per capire che il processo contro Riace ha in sé un messaggio forte e chiaro: fatti i fatti tuoi.
Se il sistema di accoglienza è un business in cui i migranti vengono – nella migliore delle ipotesi – parcheggiati nei templi dell’alienazione oppure rinchiusi in prigioni per innocenti o ancora abbandonati alla mercé del capitalismo criminale; tu “fatti i fatti tuoi”.
Se le frontiere uccidono, i mari si fanno cimiteri, le campagne sono fabbriche di schiavitù; tu “fatti i fatti tuoi”.
E se pensi di realizzare, nel tuo paese o nella tua città, un modello per fare fronte alle politiche criminali, sappi che criminale sarai giudicato tu.
Tieniti pronto a ritrovarti sul banco degli imputati. E pure sulle prime pagine e nell’aperture dei tg: denigrato, offeso, insultato. Qualche volta, santificato, giusto per la regola della par condicio.
È andata così a Mimmo Lucano e Riace. Sotto la forma più burocratizzata possibile il potere ha distrutto un modello che ha fatto scuola per vent’anni. E, attenzione, Riace non è solo il luogo dell’accoglienza ma anche – e soprattutto – un laboratorio politico dove in questi anni le anime più diverse della sinistra si sono incontrate, talvolta anche scontrate. Producendo pensiero.
Ma la solidarietà è diventata un reato, quindi l’emblema della solidarietà andava distrutto. Non ha posto in una visione del mondo diviso per frontiere, di un potere che ordina alle persone di comportarsi in modo disumano e che non ammette alcun rifiuto, nessun dissenso, alcuna disobbedienza.
Siamo stretti tra sciagurate scelte governative (nazionali ed europee) e interventi della magistratura, perché le questioni sono due: il governo dei territori e la giustizia penale.
Le politiche migratorie si sono incancrenite su frontiere sempre più rigide. Le riforme degli ultimi anni hanno peggiorato un sistema che già non funzionava bene. Oggi, chi assiste con una coperta o chi crea un paese dell’accoglienza mette una pezza sui vuoti colpevoli delle istituzioni. E questo le istituzioni non lo possono sopportare, perché mette in luce tutta la loro crudeltà.
Non è più “solo” una questione di odio, ma una vera e propria guerra. In quella che è ormai una dichiarata guerra dell’Unione europea ai migranti non c’è posto per la solidarietà. Per il sistema, chi è solidale è un traditore.
Eppure il destino degli ultimi del mondo è inscindibile da quello dei penultimi. È anche il destino dei nostri territori, delle nostre città. Per questo dovremmo smettere di parlare di accoglienza lì dove l’interesse è generale e riguarda la cittadinanza, tutte e tutti noi.
Nelle indagini contro Mimmo Lucano – così come in quelle (archiviate) contro le attiviste della Rete solidale di Pordenone e diverse altre simili circostanze – è stato tirato in ballo “l’interesse politico”. Si rimprovera l’interesse politico in un paese in cui vige la legge del voto di scambio.
A quanto pare anche fare politica è diventato un reato. Tanti anni di “vaffanculismo” e di antipolitica diffusa si sono trasformati in antipolitica istituzionale. Così, piovono accuse di interesse politico – attenzione, non interesse economico personale o di potere. Le prove a carico contro questi criminali politici sono: manifestare, rivendicare, denunciare, chiedere il cambiamento delle cose esistenti.
Allora è chiaro: non dobbiamo fare politica, il nostro modo di fare politica è completamente diverso da quello ammesso dalle istituzioni. Siamo a un bivio, praticare la politica come noi la intendiamo oppure non farlo. Perderci nelle polemiche del giorno, perire nell’attesa che qualche briciola di potere ci dia nuova linfa. Oppure no.
Ricordate la stagione delle occupazioni? Per decenni occupare il suolo pubblico o privato in abbandono ha rappresentato una forma di liberazione di parte dei territori delle nostre città. Oggi quell’azione è vista esclusivamente come un reato, se non un reato un “peccato”, una cosa che non si fa.
Un bel po’ di tempo fa, Tolstoj si chiedeva se vogliamo immaginare un mondo che ci somigli di più senza chiedere nulla ai governi e tenendoli il più lontano possibile da noi. L’asticella del possibile e dell’impossibile è la nostra grande sfida.
Noi non siamo buoni, abbiamo idee e la forza di rivendicarle. È questo il problema. È questa la lezione di Riace: davanti all’ordine “fatti i fatti tuoi” rispondere con un sonoro rifiuto.