di Sandro Moiso
Will Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma ottobre 2023, pp. 775, 28 euro
La musa per eccellenza di Lou Reed era New York con la sua bellezza selvaggia e cacofonica, le seduzioni, i pericoli e i milioni di storie. Al concerto che organizzò per i suoi cinquant’anni al Madison Square Garden nel 1997, David Bowie presentò Lou Reed – l’ospite più importante della serata – come il « re di New York». (Will Hermes – Lou Reed)
Occorre iniziare da questo rapido appunto dell’autore della monumentale biografia di Lou Reed, appena pubblicata da Minimum Fax, per entrare nel mondo vasto, complesso e ramificato che ha dato vita e ispirazione ad una delle più importanti leggende del rock.
A differenza di altre biografie dello stesso musicista, che hanno dato più spazio alle testimonianze di chi aveva conosciuto Lewis Allan Reed (1942- 2013) come quella di Victor Bockris pubblicata per la prima volta nel 1994 e in Italia nel 1999, quella di Will Hermes cerca di ricostruire con estrema accuratezza l’humus non soltanto sociale, ma anche, e forse soprattutto, culturale e letterario da cui è sorta la figura di uno dei protagonisti della scena musicale della seconda metà del ‘900.
Figura che soltanto una metropoli come New York e nessuna altra al mondo avrebbe potuto creare. Una figura che nelle innumerevoli contraddizioni che l’hanno caratterizzata ha saputo spesso, e probabilmente in maniera involontaria, riassumere quelle di una città mondo in cui l’arte moderna si è incontrata con gli slum degli immigrati più poveri, la violenza con la gioia di vivere, le culture ebraiche della diaspora con quella degli afro-americani di Harlem, l’oscurità dei vicoli dello spaccio e delle innominabili prestazioni sessuali con la luce del Central Park (dove comunque, in prossimità di uno degli ingressi, fu ucciso John Lennon proprio da un ammiratore), la Statua della Libertà con le osservazioni caustiche e feroci di Le Roi Jones sul razzismo americano, l’innovazione jazzistica e letteraria con le ambientazioni di tanti film noir e i concerti alla Carnegie Hall durante i quali furono presentate per la prima volta al pubblico opere di Antonin Dvořák, Richard Strauss, George Gershwin, Sergej Rachmaninov, Arnold Schönberg, Duke Ellington, Igor’ Fëdorovič Stravinskij, Olivier Messiaen, Edgard Varèse e Philip Glass, solo per citare alcuni compositori e tralasciandone molti altri altrettanto famosi.
Una sala da concerto che da sola già potrebbe riassumere tanta dell’esperienza musicale poi rimaneggiata da Lou Reed e che portava in sé sia le stimmate del grande capitalismo industriale, essendo stata costruita nel 1890 per volontà di Andrew Carnegie uno dei magnati più importanti dell’acciaio americano e delle sue guerre, che della cultura di massa, oltre che colta, legata alla musica di largo consumo, avendo ospitato sulla sua scena, tra i tanti, i Beatles, David Bowie, Shirley Bassey, i Jethro Tull, i Rolling Stones, Frank Sinatra, Neil Young, Ike e Tina Turner e infiniti altri protagonisti della musica pop, rock e soul.
Elenchi qui riportati soltanto per far comprendere il composito quadro culturale di una città che, probabilmente, dagli anni Quaranta fino all’inizio del XXI secolo ha costituito una specie di capitale mondiale della cultura moderna; in cui ha mosso i primi passi da gallerista Peggy Guggenheim e straziato le corde delle chitarre elettriche il primo punk dei gruppi che si esibivano al CBGB, situato al 315 della Bowery nel Lower East Side di Manhattan.
Gruppi che, e qui è possibile ricollegarsi al protagonista della biografia di Hermes, tutti dovevano o traevano qualche ispirazione dal gruppo di cui Lou Reed, con la spinta di Andy Warhol e l’aiuto di John Cale e degli altri componenti della band, Maureen Tucker, Sterling Morrison e la cantante e modella di origine tedesca Nico, dalla bellezza algida e statuaria, era stato la mente e il motore principale fin quasi alla fine di quella esperienza: i Velvet Underground.
Per gli standard dell’epoca, i Velvet Underground non furono mai un gruppo di successo: non ebbero mai un singolo in classifica, negli Stati Uniti suonarono sempre in piccoli club, almeno fino alla reunion degli anni Novanta e per un certo periodo i loro dischi andarono persino fuori catalogo. Erano un segreto condiviso da pochi e illuminati seguaci, oppure da altri artisti: interpretare una canzone di Lou Reed indica ancora oggi l’appartenenza a una corporazione di arti oscure all’avanguardia estetica1.
Il percorso musicale di Lou, però, era iniziato prima, come dimostrano anche i nastri recentemente pubblicati o ripubblicati grazie alla New York Public Library for Perfoming Arts, che ha acquisito nel 2017 l’intero lascito artistico del cantautore statunitense che ripercorre il suo tragitto artistico dai primi passi dello stesso nelle band di cui aveva fatto parte ancora ai tempi delle high school fino agli ultimi concerti del 2013; con particolare attenzione rivolta ai materiali della Sister Ray Enterprises, la società che aveva fondato per supervisionare il catalogo di tutto ciò che aveva prodotto sia in tour che in sala di registrazione.
Reed cominciò la sua carriera scrivendo canzoni d’amore, di solitudine e di persone imperfette, argomenti comuni del rock’n’roll rivolto a un pubblico di adolescenti, l’unico concepibile per quel tipo di musica negli anni Cinquanta e primi Sessanta. Ma le sue prime canzoni parlano anche di droga, violenza domestica, psicologia di genere, dipendenza, rapporti BDSM. Tutti argomenti radicali e rivoluzionari nel 1966, l’anno in cui il gruppo registrò il disco di debutto, The Velvet Underground & Nico. Quando oggi canzoni con argomenti analoghi entrano in classifica è difficile immaginare quanto fosse inaudito all’epoca «il manifesto programmatico» di Reed: «prendere il rock’n’roll, il formato pop e farlo diventare un genere per adulti. Con argomenti da adulti, scritto in modo che potesero ascoltarlo persone come me»2.
Le dichiarazioni tra virgolette sono state rilasciate da Lou Reed al giornalista Bill Flanagan per un libro di quest’ultimo tratto da varie conversazioni avute con cantautori rock3. Ma ci ricordano ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, la complessità del lavoro di Reed, quasi fin dagli esordi e l’assoluta mancanza di quell’improbabile innocenza che fu invece troppe volte e talvolta esageratamente sbandierata dalle parti della California e dei musicisti di San Francisco in quegli stessi anni.
Va qui sottolineato che Hubert Selby jr., è stato per Reed sicuramente un autore di riferimento con il suo Ultima fermata a Brooklyn (1964 – prima edizione italiana Feltrinelli 1966), ambientato a New York nel 1952, durante la guerra di Corea. Un romanzo corale in cui, per la prima volta, alle tematiche di lotta sindacale si intrecciano quelle riguardanti sessualità irrisolte e confuse, consumo di droghe pesanti e dipendenze varie, tali da proporre per la prima volta in assoluto un’immagine del proletariato americano e del suo sempre più prossimo sottoproletariato assolutamente realistica, lontana mille miglia dal realismo ottocentesco e del primo Novecento e tale da far apparire i protagonisti delle storie ambientate nelle periferie romane da Pasolini come innocui personaggi di una storiella per bambini (immaturi).
E’ in quest’ansa della letteratura statunitense che si colloca la scrittura di Reed che, come ricorda Hermes, scriveva sicuramente per esorcizzare i suoi demoni, anche se ciò non toglie che la sua scrittura fosse militante.
Di regola, non era un autore esplicitamente politico, ma fin dai primissimi nastri e demo – la cover di Blowin’ in the Wind di Bob Dylan, uno dei musicisti che più lo hanno influenzato e in un certo senso un suo rivale; oppure l’evocazione della battaglia per i diritti civili in Put Your Money on the Table – ha messo in discussione lo status quo. Persino Heroin, se la si ascolta con attenzione, è una canzone politica, quanto mai rilevante in un’epoca di interminabile crisi degli oppioidi. E naturalmente c’è New York, il suo disco più coerente e appagante, in cui attacca l’avidità, l’ipocrisia e la corruzione del sistema politico ed economico americano, e il suo influsso sulla vita dei ricchi e dei poveri per le strade della sua città4.
Lì la Statue of Liberty diventa la Statue of Bigotry, probabilmente anche per effetto dell’influenza che Laurie Anderson, compositrice d’avanguardia e raffinata performer che fu sua complice, compagna e moglie per più di due decenni, esercitò sulla sua vena creativa. Così come, dal punto di vista musicale, aveva fatto invece John Cale negli anni iniziali dei Velvet Underground.
Il secondo, nato nel Galles del sud, in una zona fortemente industrializzata e che non parlò inglese fino a quando non iniziò ad andare a scuola all’età di sette anni, dopo aver imparato a suonare la viola (poi elettrica nei Velvet), finita l’accademia, aveva viaggiato attraverso gli Stati Uniti, grazie ad una borsa di studio, per continuare i suoi studi musicali e arricchire il suo bagaglio di esperienza, grazie all’aiuto e all’influenza di Aaron Copland e, si dice, di Leonard Bernstein.
Una volta arrivato a New York, aveva avuto modo di incontrare vari influenti compositori ed entrò in contatto con la “controcultura” della metropoli. Nel settembre 1963, insieme a John Cage e a molti altri, Cale partecipò a una maratona pianistica lunga diciotto ore che fu la prima rappresentazione integrale dell’opera, di Erik Satie, Vexations. Dopo la performance entrò a far parte dell’ensemble musicale diretto da La Monte Young e in seguito, nel 1965, conobbe Lou Reed.
Così mentre Cale portò nei Velvet e in Reed l’influenza dell’avanguardia musicale europea, legata al movimento Fluxus, e americana, Lou Reed avrebbe portato l’influenza del rock’n’roll, di Dylan, della musica nera (jazz e blues) e della vita delle strade di New York. Il gioco era fatto e niente sarebbe più andato per il verso “giusto”.
In effetti Lewis Allan Reed era l’incarnazione della scena artistica della New York del secondo dopoguerra. Si innamorò del rock’n’roll e del doo wop newyorkese e regisrò il primo singolo alla fin degli anni Cinquanta […] Al college studiò scrittura con il poeta modernista Delmore Schwartz, che divenne il suo mentore artistico e di cui non smise mai di tessere le lodi […] Reed vide il quartetto di Ornette Coleman durante i leggendari concerti al Five Spot café nel 1959 e ne fu profondamente colpito […] e fondò una rivista letteraria che prendeva il nome da Lonely Woman di Coleman, da lui spesso citato come il suo pezzo preferito in assoluto5.
Questo, e molto altro ancora, rivela la biografia di Reed scritta da Will Hermes: dei suoi infernali scatti d’ira, della sua dolcezza, della serenità in attesa della morte mentre si cullava in una vasca d’acqua calda, ma soprattutto di un percorso intellettuale, letterario e musicale che si rivela ben più interessante delle vicende legate agli elettroshock cui fu sottoposto in giovane età oppure alla sua bisessualità e alle dipendenze. Anche se tutto ciò fu sicuramente presente nella su opera complessiva.
Il testo di Hermes rappresenta, forse, per tutti questi motivi il più interessante scritto fino ad ora su un musicista e intellettuale che, anche se spesso ombroso e difficile, ha sparso intorno a sé una luce estremamente originale, contribuendo a illuminare l’universo-mondo che più intensamente ha vissuto e contribuito a ricreare nell’immaginario contemporaneo: The Big Apple, New York.
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W. Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma 2023, p. 10. ↩
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W. Hermes, op. cit., pp. 9-10. ↩
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B. Flanagan, Written in My Soul. Conversations with Rock’s Great Songwriters, Contemporary Books 1987. In Italia pubblicato come B. Flanagan, Scritto nell’anima. 29 interviste ai grandi del rock, Arcana 2001. ↩
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W. Hermes, op. cit., p. 23. ↩
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Ivi, p. 12. ↩