Italia, marzo 2020. Il Paese è sotto shock per la rapida diffusione del Coronavirus e il governo Conte bis mette in atto le prime restrizioni, che in breve si trasformeranno in un vero e proprio lockdown. Mentre italiane e italiani iniziano ad assaporare l’amaro gusto della privazione dei diritti, in molte carceri scoppiano proteste, che talvolta sfociano in vere e proprie rivolte.
Proprio lì, in quei luoghi dove la privazione della libertà è tratto distintivo, nasce la prima “emergenza nell’emergenza”, che costa ben 12 morti, tutti detenuti. Qualcosa di inaspettato per i più, di assolutamente prevedibile per chi da anni denunciava, in varie forme, la vergognosa situazione esistente nelle carceri italiane, per le quali l’Italia ha anche subito una condanna nel 2013 da parte della Corte europea dei diritti umani (stiamo parlando della cosiddetta “sentenza Torregiani”, adottata l’8 gennaio 2013 per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani, rispetto a trattamenti inumani o degradanti subiti da sette persone detenute nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione).
Queste rivolte, al netto di tutto il loro portato di esasperazione e tragicità, hanno avuto il merito di aprire un dibattito nel Paese, anche perché le rivendicazioni dei detenuti e delle detenute sono state molto chiare e riguardavano lo stop alle visite in presenza e le limitazioni di permessi e della libertà vigilata, per contrastare la diffusione del Covid 19 in carcere. In realtà ben presto si capirà che non sono visite e permessi a creare cluster nelle carceri, ma la preesistente carenza di tutele igienico-sanitarie. In questo dibattito, come spesso accade, la parte peggiore la recita la politica, con quel brodo giustizialista che permea l’allora maggioranza “giallo-rossa” grazie al quale non si esita a bollare queste proteste come “atti criminali”.
E forse saranno state proprio quelle posizioni, quel brodo culturale e politico bi-partisan ad aver dato quel senso di impunità a quei 52 dirigenti e agenti carcerari che li ha portati il 6 aprile 2020 a compiere una vera e propria mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, per reprimere una protesta che si mette nella scia di quelle appena descritte. O forse il problema è ancora più radicato, non episodico, ma strutturale e riguarda un vero e proprio protocollo non scritto d’azione punitiva che riguarda l’intero panorama carcerario nazionale.
Ci torneremo più avanti, perché è bene ora concentrarci sul singolo episodio. La notizia dei pestaggi inizia a circolare lunedì 28 giugno, giorno in cui i carabinieri di Caserta iniziano a eseguire gli ordini di misure cautelari. Tra le persone coinvolte ci sono Gaetano Manganelli, ex comandante del carcere, e soprattutto Antonio Fullone, provveditore delle carceri della Campania, non proprio “pesci piccoli”. Il dipartimento amministrativo dell’istituto penitenziario e i sindacati di polizia negano subito gli episodi e rimangono ancorati alle stesse posizioni assunte l’11 giugno 2020, giorno in cui furono emessi i primi avvisi di garanzia che scatenarono non poche polemiche.
Ma questo senso di intoccabilità viene scalfito subito, quando il giornalista del “Domani” Nello Trocchia pubblica un video che proviene direttamente dalle telecamere di sorveglianza del carcere in cui si palesa tutta la galleria degli orrori: detenuti inermi inginocchiati, schiacciati contro il muro, costretti a passare tra due file di agenti e colpiti gratuitamente da manganellate, pugni e calci; addirittura un detenuto in sedia a rotelle percosso più volte. Una vera e propria spedizione punitiva commessa da ben 300 agenti, giunti da altre strutture della Campania proprio per reprimere la rivolta.
Gli agenti protagonisti delle sevizie son passati da un clima “goliardico” quando nelle chat scrivevano compiaciuti per come avevano “ristabilito l’ordine” a messaggi di paura, quando avevano saputo che gli inquirenti avevano acquisito le immagini della videosorveglianza e che, da quei video, sarebbero arrivati a loro.
Concordo con il presidente di Antigone Patrizio Gonnella che sul Manifesto ha parlato dei quattro elementi salienti che connotano questa azione repressiva: la pianificazione della rappresaglia, la certezza dell’impunità, lo spirito di corpo che tende da subito a manomettere e falsificare le prove, e in ultimo il linguaggio che “animalizza” costantemente il detenuto. A questi ne aggiungerei un altro, forse il più preoccupante, che è quello della totale connivenza della politica, che si manifesta in espressioni diverse (dal quasi scontato commento di sostegno alla polizia penitenziaria da parte di Salvini al mutismo del Pd, forse ancora più squallido).
È chiaro che ci troviamo di fronte a un modo d’agire sistemico da parte non solo della polizia penitenziaria, ma dell’intero apparato di sicurezza dello Stato, che si interseca perfettamente con l’accelerazione del processo di disgregazione dello stato di diritto messa in atto dalla crisi sistemica che stiamo vivendo. Allo stesso tempo, questo modo d’agire è il frutto di un incubazione ideologica del securitarismo che dura da molti anni e che adesso è diventata esasperata, quasi morbosa.
«Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri», diceva Voltaire, ma i fatti di Santa Maria Capua Vetere ci dimostrano che quanto accade nell’oscurità delle nostre carceri è lo specchio più evidente di una tensione punitiva da parte del potere costituito che già si sta esprimendo a livelli preoccupanti in altri spazi e luoghi della vita in comune che ricomincia a fiorire, malgrado tutto.