La pillola rossa dell’alt-right – 1

di Gioacchino Toni

You take the blue pill, the story ends, you wake up in your bed and believe whatever you want to believe. You take the red pill, you stay in wonderland, and I show you how deep the rabbit hole goes (The Matrix, 1999)

L’assenza di un modello verticistico promessa da internet e l’insofferenza nei confronti dell’establishment e delle ipocrisie di certo politically correct non si sono rivelate, di per sé, prerogativa della sinistra libertaria. Tanti cyberutopisti di sinistra hanno dovuto ricredersi: la forma (reticolare-partecipativa) offerta dal web non si è rivelata garanzia di contenuto (libertario). Nemmeno la logica della “pillola rossa” della “rivelazione” (nientemeno) in alternativa all’anestetica e  tranquillizzante “pillola blu” dispensata dall’establishment si è rivelata metafora esclusiva di una sinistra che, piuttosto, in astinenza da piazze novecentesche, deve saper evitare di farsi trascinare da tale logica in un vortice di lacrimogeni complottismi maleodoranti a rischio di riflessi rossobrunastri.

Sebbene sia ormai passato molto tempo da quando, sugli sgoccioli del vecchio millennio, ha fatto la sua uscita nelle sale, The Matrix (1999) di Lana e Lilly Wachowski si rivela ancora un prodotto culturale influente soltanto che, come afferma Mattia Salvia, «è come se il senso del film originale fosse stato ribaltato»; quella che alla sua uscita poteva essere colta come «l’epica lotta di un individuo per uscire dalla gabbia omologante della società dei consumi risulta inattuale»1.

Se in chiusura di Novecento lo spirito di Matrix sembrava prolungare la critica all’omologazione, al consumismo e allo sfruttamento proposta da They Live (1988) di John Carpenter, oggi il film di Lana e Lilly Wachowski solletica l’immaginario di chi, in balia di un frustrante senso di impotenza, nell’incapacità di decifrare la realtà che lo circonda e privo di una prospettiva futura a cui guardare, è pronto a dare credito a qualsiasi visione altra rispetto a quella a cui si sente costretto, ma da cui, nei fatti, continua a non sottrarsi evitando di mettere davvero in discussione la logica profonda che struttura la realtà che lo opprime. È indubbiamente più semplice prospettare visioni semplicemente, e spesso apparentemente, altre della realtà e individuare carpi espiatori su cui poter scaricare la frustrazione accumulata che non prospettare un mondo altro per cui valga la pena abbandonare la realtà attuale.

«La stessa metafora della pillola blu/pillola rossa», scrive Salvia, «è sopravvissuta solo al prezzo di cambiare completamente di segno»2; la metafora della pillola è entrata far parte dell’immaginario dell’alternative right, la tana del Bianconiglio sembra ormai rinviare direttamente al processo di radicalizzazione che conduce dentro QAnon e Morpheus, anziché presentarsi in impermeabile di pelle e occhiali scuri come la sua epidermide, ha il viso dipinto con colori patriottici e indossa un costume da sciamano.

Possiamo dire che il senso di Matrix ha cambiato di segno allo stesso modo in cui la globalizzazione ha finito per trasformarsi in un processo di ridefinizione dei rapporti d forza globali: la “matrice” indica ancora la realtà nascosta dietro l’alienazione dell’esperienza di vita occidentale, ma adesso quella realtà non è più percepita come spaventosa, bensì denunciata come insufficiente. Uscire dalla matrice non vuol dire più rifiutare di far parte di un mondo che si regge su terribili fondamenta, bensì rifiutare di far parte di un mondo le cui terribili fondamenta vanno così poco a fondo. Oggi Neo non esce dalla simulazione perché vuole la verità: ne esce perché la simulazione non lo soddisfa. Non combatte più per la futura sconfitta delle macchine da parte dl genere umano, ma per ritornare a una passato migliore – reale o simulato, poco importa»3.

Il web ha indubbiamente favorito idee e movimenti marginali, permettendone e incentivandone la crescita, e fino a quando la cultura da essi veicolata è stata – o sembrata – in linea con l’immaginario di sinistra, molti militanti e analisti con tali simpatie politiche hanno guardato all’universo online come a una miracolosa scorciatoia utile a superare l’immobilismo cresciuto insieme al mantra della “fine della storia”.

Il fatto che la reticolarità dell’infosfera potesse esprimere qualsiasi tipo di ideologia, compresa quella che ha poi preso il nome di alternative right, da molti è stato compreso quando questa, un passo alla volta, si è insinuata persino tra le pieghe dell’odiato establishment contribuendo a riplasmarlo.

La battaglia culturale che, negli Stati Uniti, si dispiega in internet da ormai qualche decennio viene a darsi in un contesto in cui, sin dalla metà degli anni Novanta, secondo Jonathan Crary4, vengono neutralizzate le energie ribelli dei giovani – negando loro spazi e tempi di autonomia e autoriconoscimento collettivo, dunque la possibilità di costruirsi una memoria e di avere esperienze reali – trasformati in target su cui costruire conformismo tecnologico e consumistico inducendoli ad abitudini e comportamenti prevedibili e duraturi. Online «vediamo quello che succede come viene visto. E in questo mondo di vita virtuale, anche noi appariamo sugli schermi ancora più di prima. Dobbiamo salire sul nostro piccolo palco virtuale e presentare la nostra immagine, i nostri profili»5.

Impugnane uno smartphone per condividere sulle piattaforme social il proprio desiderio di libertà tradisce l’impossibilità di liberarsi da quei graziosi walled garden digitali di cui si continua, nei fatti, a essere prigionieri nel timore non solo di essere altrimenti esclusi dall’accesso alle informazioni, cosa che equivale di questi tempi alla morte sociale, ma anche dalla possibilità di trasmetterne a propria volta in un contesto però profondamente viziato. Un cortocircuito da cui è indubbiamente difficile difendersi6.

Sin dagli ultimi decenni del Novecento, come sottolinea Éric Sadin, si è andato progressivamente ad affermare il primato sistematico di sé sull’ordine comune in ossequio al progetto politico dell’individualismo liberale richiedente «una ricerca sfrenata della singolarizzazione di sé all’unico scopo di differenziarsi»7. La pretesa di indipendenza e sovranità che serpeggiava in individui delusi e traditi dalle promesse a cui avevano a lungo desiderato credere è stata amplificata dall’avvento di internet le cui lusinghe di partecipazione e autonomia hanno celato, di fatto, l’introduzione di sistemi valutativi e di procedimenti disciplinari sempre più sofisticati sugli individui attraverso la cessione alle grandi corporation del web di dati comportamentali e predittivi.

In molti, la sensazione di essere stati a lungo ingannati, l’aver assistito allo sgretolarsi di quel patto sociale che si voleva votato al solidarismo, l’incrementarsi dello scarto tra edulcorata “narrazione ufficiale” ed amara realtà delle cose, hanno generato l’impressione di trovarsi di fronte a una sorta di “doppia realtà” parallela e incomunicante. Alla narrazione manistream si sono andate a contrapporre narrazioni di soggettività costruite soprattutto su particolarismi che trovano nei social i canali privilegiati in cui incanalare il rancore accumulato spesso accontentandosi di ricorrere a visioni semplicemente altre rispetto a quella ufficiale esponendosi così, non di rado, a complottismi di ogni risma8.

È a tale stato d’animo, a tale malessere esistenziale, oltre che materiale, che sono sembrate venire in soccorso tante salvifiche “pillole rosse” capaci, come per incanto, di smascherare lo storytelling dell’establishment rivelando “tutto ciò che era stato sempre nascosto” a un’opinione pubblica “tradita” in messianica attesa di “verità alternative”. È in tale desiderio di “visioni rivelatrici”, una volta passati di moda gli occhiali di They Live di Carpenter, che ha prosperato l’alternative right costruendo un nuovo regime dell’opinione edificato su asserzioni grossolane o infondate e mirabolanti teorie complottiste capaci di proporsi come risposte altre, rispetto a quelle ufficiali, sufficientemente plausibili a spiegare accadimenti inattesi e spiazzanti.

Nella retorica dell’alt-right, sostiene Luke Munn (Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, in Matteo Bittanti, a cura di, Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, 2023 [su Carmilla]), “scegliere la pillola rossa” indica la volontà di guardare la realtà con “occhi nuovi” prendendo coscienza dell’ingannevolezza della narrazione dominante, sostituendo a essa contronarrazioni complottiste imperniate sul disprezzo nei confronti di tutti coloro che promuovono «opinioni socialmente progressiste e liberali, tra cui il femminismo, i diritti civili, i diritti dei gay e dei soggetti transgender e il multiculturalismo»9.

Agli individui in balia di umiliazioni quotidiane e del senso di impotenza, i social network hanno offerto narrazioni compensatorie  capaci di fornire illusorie magnificazioni (manistream) delle esistenze a esseri umani frustrati e/o la possibilità (alt-right) di scaricare l’ira accumulata prendendosela, spesso protetti dall’anonimato, con qualcuno o qualcosa.

È questa “l’era dell’individuo tiranno”: l’avvento di una condizione di civilizzazionale inedita, che vede l’abolizione progressiva di qualsiasi base comune e la comparsa di una moltitudine di individui sparsi, convinti di rappresentare l’unica fonte normativa di riferimento e di occupare una posizione preponderante che gli spetta di diritto. È come se in una ventina d’anni, l’intreccio tra la presunta orizzontalizzazione delle reti e l’esplosione delle logiche liberali, sostenitrici della “responsabilizzazione” individuale, fosse approdato a un’atomizzazione dei soggetti, incapaci di instaurare legami costruttivi e duraturi e intenzionati a far prevalere rivendicazioni basate principalmente sulle loro biografie e sulle loro condizioni10.

Negli Stati Uniti, tanto la cultura mainstream (e non certo da oggi), quanto quella dell’alt-right si dimostrano imperniate attorno a un analogo individualismo antisociale; solo che nel secondo caso questo assume forme anticonformiste e trasgressive per mascherare come ribellione la sostanziale non messa in discussione di un modello giunto al capolinea sommerso dalle sue tante contraddizioni.

Secondo Pablo Calzeroni, lʼelaborazione simbolica della realtà contemporanea è

progressivamente impoverita favorendo le epidemie di un immaginario antisociale che è al centro del processo di soggettivazione proprio perché ne comporta il continuo fallimento. Le infrastrutture digitali della comunicazione, invece di favorire le relazioni interpersonali, sfruttano e amplificano a dismisura proprio queste dinamiche di desoggettivazione11.

Nel malessere che si agita online è possibile vedere un indicatore dell’eccesso di fiducia riposta nella portata libertaria del web. «Un malessere che ogni giorno si manifesta in modo sconcertante: ludopatie, bullismo on line, misoginia, xenofobia, radicalizzazione religiosa, polarizzazione delle opinioni, violenza». Dietro alla propagandistica lettura patinata del presente, offerta dalla tranquillizzante “pillola blu” manistream, si celano «sfruttamento, disgregazione sociale, precarietà esistenziale, solitudine, perdita di punti di riferimento, frustrazione. In termini più brutali: il vuoto interno ed esterno al soggetto»12.

Se è pur verso che non è possibile addebitare al processo di digitalizzazione la colpa di tutti i mali, è innegabile il ruolo che ha avuto, e ha, nell’esplicitare e amplificare la fragilità e l’isolamento degli individui contemporanei.

La sofferenza che permea la nostra società e si insinua in modo evidente nelle esperienze mediatiche [è] innanzitutto legata a una mutazione antropologica del soggetto, la quale a sua volta è stata determinata, negli ultimi decenni, da una riconfigurazione del sociale a tutto tondo: non solo del nostro rapporto con le macchine, ma anche delle relazioni interpersonali, del mondo del lavoro, dei nostri sistemi di governo. La questione essenziale non è la tecnica in sé ma l’intreccio tra lo sviluppo tecnico e i grandi cambiamenti che hanno caratterizzato il passaggio dalla società industriale avanzata della seconda metà del Novecento all’attuale società dellʼinformatizzazione. Cambiamenti che hanno determinato un progressivo impoverimento della nostra vita relazionale13.

Analizzando l’ascesa dell’alt-right, Luke Munn ha evidenziato come la sua diffusione online si sia fondata su un processo di ricalibrazione del sistema di credenze attuato attraverso una «lenta, ma sistematica colonizzazione del sé, una progressiva infiltrazione che agisce sulla razionalità e sull’emotività»14.

Nell’analizzare le testimonianze di giovani statunitensi che si sono radicalizzati online, Munn individua alcune costanti nelle modalità con cui ciò è avvenuto. In molti racconti emerge, ad esempio, come l’algoritmo del motore di ricerca di Google, dopo aver elaborato le tracce delle ricerche più personali, si sia prodigato nel suggerire nella barra laterale di YouTube link rimandanti a video in cui vengono denigrate le opinioni socialmente progressiste e che invitano ad approfondire le tesi esposte in specifiche piattaforme. «Si comincia con l’umorismo di Steven Crowder, si passa a sostenitori dei diritti dei bianchi più espliciti come Lauren Southern, si procede con figure apertamente suprematiste come Jared Taylor per culminare con il verbo neonazista. Il processo è scalare, incrementale: non prevede stacchi bruschi»15.

L’escalation avviene lentamente, senza salti evidenti, in modo da rendere il tutto “naturale”. Rebecca Lewis16 ha descritto dettagliatamente il funzionamento di questo Alternative Influence Network, vera e propria ragnatela che compare su YouTube attravero narrazioni retoriche, celebrità di internet, studiosi, comici, influencer, opinionisti accomunati da un feroce disprezzo per tutto ciò che ritengono progressista. Gli utenti vengono dunque rimpallati tra una sessantina di influencer politici distribuiti su un’ottantina di diversi canali che man mano alzano il livello di radicalità così da rendere meglio accettabili le proposte politiche via via sempre più estreme.

Nulla è lasciato al caso. In base a una disamina di centinaia di segnali, agli utenti vengono presentati contenuti dal design attraente, che si innestano sui loro interessi, obiettivi e convinzioni dichiarate (attraverso specifiche scelte di consumo) o implicite (dedotte/ipotizzate dall’algoritmo). I motori di raccomandazione non sono entità statiche, che non operano in base a un presunto “io autentico”, stabile e riconoscibile. Sono, piuttosto, fenomeni dinamici, organici e aggiornati in tempo reale. Il profilo di un utente incorpora la sua cronologia di consumo, ma anche le sue esperienze di fruizione più recenti. […] Il consumo culturale non è mai neutrale e il consumo di video non è un processo astratto. La fruizione dei video, specie se ripetuta e prolungata, finisce per modellare la sfera cognitiva del soggetto, generando nuovi desideri, nuovi interessi e nuove concezioni della realtà. In questo senso, YouTube non è solo una piattaforma bensì un percorso, un iter, un condotto, un imbuto […]. Lentamente, progressivamente, il sistema di credenze di un utente viene ricalibrato. Si tratta cioè di un processo mediale metodico accompagnato da un cambiamento psicologico incrementale17.

Pur senza scivolare nel determinismo tecnologico, occorre prendere atto, sostiene Munn, di quanto siano metodiche ed efficaci le strategie messe in atto all’universo dell’alt-right. La logica di funzionamento delle maggiori piattaforme incentivano tale strategia in quanto garantisce importanti guadagni. Pur non essendo collegate tra loro in modo chiaro e intelligibile, le diverse questioni discusse dall’alt-right offrono agli utenti molteplici soglie d’ingresso e opportunità di immedesimazione. La retorica di fondo è ideologicamente coesa. «L’algoritmo suggerisce contenuti familiari, ma al tempo stesso propongono un barlume di novità. Quest’ultima, tuttavia, non può essere estrema, per non destabilizzare il fruitore. Per quanto il percorso non sia identico per ogni utente – può biforcarsi e divergere – in tutti i casi lo spinge sempre più in profondità [verso] un’unica direzione»18.

L’ingresso nell’alt-right, sostiene Munn, è pertanto il punto di arrivo di un graduale processo di radicalizzazione solitamente costruito attraverso una fase di normalizzazione (in cui l’umorismo e l’ironia giocano un ruolo fondamentale nel normalizzare anche le affermazioni più riprovevoli), dunque una di acclimatazione (sfruttando la ripetizione incessante per produrre familiarità, assuefazione e desensibilizzazione), infine una fase di disumanizzazione dell’alterità nemica, da intendersi come «un processo che pian piano logora, annienta e cancella l’altro, fino a trasformarlo in una non-persona, un personaggio di un videogioco, come uno zombie o un demone, da abbattere senza rimorsi»19.

Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream (Luiss, 2018), ha ricostruito puntualmente i conflitti culturali online che negli ultimi decenni – dapprima in contesti di nicchia, poi in ambiti decisamente più allargati di vita pubblica e politica –, hanno contribuito a costruire l’immaginario di una generazione di statunitensi appassionati di videogiochi, di anime giapponesi e dell’irriverenza al politically correct persino di serie come South Park (dal 1997 – in corso) di Matt Stone e Trey Parker, trasformatisi frequentemente in cyber-molestatori produttori di meme dal cinico umorismo nero, spesso contraddistinti da becere battute antifemministe o razziste che, in un’apoteosi di sguaiata trasgressione fine a sé stessa, hanno così trovato modo di sfogare i loro giovanili impulsi ribellistici e antisistemici.

Le battaglie culturali condotte in internet negli ultimi decenni, spesso condotte al riparo dell’anonimato, sostiene Nagle, hanno mostrato l’emergere di un’inedita sensibilità anti-establishment che ha trovato espressione in quella cultura fai-da-te fatta di meme e user-generated content, in una reticolarità partecipativa scardinante i vecchi modelli gerarchici su cui riponevano grandi aspettative tanti cyberutopisti libertari.

Sulle ceneri dei moralisti difensori dell’etichetta e della consapevolezza culturale, ad avere la meglio è però stata la galassia dell’alternative right, abile nel portare avanti il suo immaginario a suon di sberleffi “anti-politici” e “infrangi-tabù” tanto nei confronti dell’establishment che dell’attivismo liberal online focalizzato quasi esclusivamente sul gender-bender.

Se da una parte gli ambienti liberal online e dei campus, sostiene Nagle, hanno generato una tendenza a “problematizzare” ogni cosa, individuando ovunque tracce di misoginia e suprematismo bianco, dall’altra la galassia della destra online ha alzato il livello degli insulti e delle minacce ricorrendo frequentemente a forme di dileggio compiaciutamente volgari. «Un’intera generazione ha vissuto come formativi questi primi, oscuri approcci alla politica, che hanno così avuto un significativo impatto sulla sensibilità di massa e persino sul linguaggio». Numerosi esponenti di primo piano dell’alt-right hanno costruito la loro carriera «denunciando le assurdità delle politiche identitarie online»20 e la tendenza degli ambienti liberal a individuare ovunque forme di misoginia, razzismo, transfobia, discriminazione nei confronti dei disabili, body shaming ecc.

In apertura degli anni Dieci del nuovo millennio, sull’onda di una serie di manifestazioni di piazza, utopisti tecnologici, come i giornalisti Heather Brooke21 e Paul Mason22, si sono cullati nel sogno che i social network potessero garantire forme di “rivoluzione senza leader”. L’entusiasmo è stato di breve durata; presto si sarebbero palesati movimenti apparentemente “senza leader”, diffusi attraverso i social in maniera tutt’altro che spontanea, capaci di dare luogo a risvolti di estrema destra.

Negli Stati Uniti è attorno alla metà degli anni Dieci del nuovo millennio che, con la conquista della Casa Bianca da parte di un outsider incarnante la sempre più diffusa ostilità nei confronti dei media e dei partiti tradizionali, si è palesata la fine del dominio esclusivo dei vecchi media sulla politica ufficiale. Alla conquista del potere da parte di Donald Trump molti si sono tardivamente accorti del ruolo assunto dalla galassia dell’alternative right, nella cui orbita sono comparsi personaggi come Milo Yiannopoulos e spazi online come 4chan, oltre a svariati siti neonazisti, suprematisti, anti-egualitari, segregazionisti e nazionalisti bianchi ove si sono messi in luce individui come Richard Spencer.

Nonostante la varietà delle tematiche discusse all’interno di tale galassia – dal calo demografico al declino della civiltà occidentale, dalla decadenza culturale al processo di islamizzazione ecc. –, l’elemento accomunante è l’ambizione a creare un’alternativa all’establishment conservatore di destra, definito sprezzantemente con il neologismo cuckservative per la «passività cristiana e per aver offerto, metaforicamente, le loro “donne”, cioè la loro nazione e la loro razza agli invasori stranieri non di razza bianca»23. Il successo otteneuto soprattutto sui più giovani da parte della cultura veicolata da tale galassia è dovuto in buona parte al ricorso insistito alle immagini e all’umorismo irriverente e trasgressivo dei meme di 4chan, poi 8chan, e al ricorso a strategie da hacker.

[continua]

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