La polveriera nel Pacifico

Alfred Mccoy – TomDispatch – 16 ottobre 2024

Mentre il mondo guarda con trepidazione alle guerre regionali in Israele e Ucraina, una crisi globale molto più pericolosa si sta tranquillamente sviluppando all’altro capo dell’Eurasia, lungo una catena di isole che per decenni gli Stati Uniti hanno adottato come prima linea della difesa nazionale. Proprio come l’Operazione Militare Speciale russa in Ucraina ha rivitalizzato (sic! N.d.T.) l’alleanza della NATO, così il comportamento sempre più aggressivo della Cina e il continuo rafforzamento militare degli Stati Uniti nella regione hanno rafforzato la posizione di Washington sul litorale del Pacifico, riportando all’ovile occidentale diversi alleati vacillanti. Tuttavia, questa apparente forza contiene sia un rischio maggiore di conflitto tra grandi potenze, sia possibili pressioni politiche che potrebbero rompere l’alleanza dell’America nell’Asia-Pacifico in tempi relativamente brevi.

Eventi recenti illustrano le crescenti tensioni della nuova guerra fredda nel Pacifico. Da giugno a settembre di quest’anno, ad esempio, le forze armate cinesi e russe hanno condotto manovre congiunte che andavano dalle esercitazioni navali a fuoco nel Mar Cinese Meridionale a pattuglie aeree che volavano lungo il periplo del Giappone e penetravano persino nello spazio aereo americano in Alaska. Per rispondere a quelle che Mosca ha definitocrescenti tensioni geopolitiche nel mondo”, tali azioni sono culminate il mese scorso nell’esercitazione congiunta russo-cinese “Ocean-24”, che ha mobilitato 400 navi, 120 aerei e 90.000 militari in un vasto arco che va dal Mar Baltico attraverso l’Artico fino all’Oceano Pacifico settentrionale. Mentre dava il via a queste monumentali manovre con la Cina, il presidente russo Vladimir Putin accusava gli Stati Uniti di “cercare di mantenere il proprio dominio militare e politico globale ad ogni costo” “aumentando la [propria] presenza militare… nella regione Asia-Pacifico”.

La Cina non è una minaccia futura”, ha risposto a settembre Frank Kendall, il Segretario dell’Aeronautica statunitense. “La Cina è una minaccia oggi”. Negli ultimi 15 anni, la capacità di Pechino di proiettare potenza nel Pacifico occidentale, ha affermato, è salita a livelli allarmanti, con la probabilità di una guerra “in aumento” e, ha previsto, “continuerà a farlo”. Un anonimo alto funzionario del Pentagono ha aggiunto che la Cina “continua ad essere l’unico concorrente degli Stati Uniti con l’intento e… la capacità di rovesciare l’infrastruttura basata sulle regole che ha mantenuto la pace nell’Indo-Pacifico dalla fine della Seconda Guerra Mondiale”.

In effetti, le tensioni regionali nel Pacifico hanno profonde implicazioni globali. Negli ultimi 80 anni, una catena insulare di bastioni militari che va dal Giappone all’Australia è servita come fulcro cruciale per il potere globale americano. Per assicurarsi di poter continuare ad ancorare la propria “difesa” su quella secca strategica, Washington ha recentemente aggiunto nuove alleanze sovrapposte, incoraggiando al contempo una massiccia militarizzazione della regione indo-pacifica. Sebbene sia piena di armamenti e apparentemente forte, questa coalizione occidentale ad hoc potrebbe rivelarsi, come la NATO in Europa, vulnerabile a improvvise battute d’arresto dovute alle crescenti pressioni di parte, sia negli Stati Uniti che tra i suoi alleati.

Costruire un bastione nel Pacifico

Per oltre un secolo, gli Stati Uniti hanno lottato per proteggere la loro vulnerabile frontiera occidentale dalle minacce del Pacifico. Nei primi decenni del XX secolo, Washington ha manovrato contro la crescente presenza giapponese nella regione, producendo tensioni geopolitiche che hanno portato all’attacco di Tokyo al bastione navale americano di Pearl Harbor, che ha dato inizio alla seconda Guerra Mondiale nel Pacifico. Dopo aver combattuto per quattro anni e aver perso quasi 300.000 uomini, gli Stati Uniti sconfissero il Giappone e ottennero il controllo incontrastato dell’intera regione.

Consapevole che l’avvento dei bombardieri a lungo raggio e la possibilità futura di una guerra atomica avevano reso il concetto storico di difesa costiera notevolmente irrilevante, nel dopoguerra Washington estese le sue “difese” nordamericane in profondità nel Pacifico occidentale. A partire dall’esproprio di 100 basi militari giapponesi, gli Stati Uniti costruirono nel Pacifico, a Okinawa, i primi bastioni navali del dopoguerra e, grazie a un accordo del 1947, a Subic Bay nelle Filippine. Quando, nel 1950, con l’inizio del conflitto coreano, la Guerra Gredda coinvolse l’Asia, gli Stati Uniti estesero queste basi per 5.000 miglia lungo l’intero litorale del Pacifico grazie ad accordi di mutua difesa con cinque alleati dell’Asia-Pacifico: Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Filippine e Australia.

Per i successivi 40 anni, fino alla fine della Guerra Fredda, il litorale del Pacifico rimase il fulcro geopolitico del potere globale americano, consentendogli di difendere un continente (il Nord America) e di dominarne un altro (l’Eurasia). Per molti versi, infatti, la posizione geopolitica degli Stati Uniti a cavallo delle estremità assiali dell’Eurasia si sarebbe rivelata la chiave della vittoria finale nella Guerra Fredda.

Dopo la Guerra Fredda

Nel 1991, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda, Washington incassò il suo dividendo della pace, indebolendo la catena di isole un tempo forti. Tra il 1998 e il 2014, la Marina statunitense è passata da 333 a 271 navi. Questa riduzione del 20%, unita al passaggio a schieramenti a lungo termine in Medio Oriente, ha degradato la posizione della Marina nel Pacifico. Nonostante ciò, per i 20 anni successivi alla Guerra Fredda, gli Stati Uniti avevano goduto di quella che il Pentagono chiamavasuperiorità incontrastata o dominante in ogni ambito operativo. In generale potevamo dispiegare le nostre forze quando volevamo, assemblarle dove volevamo, operare come volevamo”.

Dopo gli eventi del settembre 2001, Washington è passata dalle forze strategiche “corazzate” alla fanteria mobile, prontamente impiegata per operazioni antiterrorismo contro guerriglieri poco armati. Dopo un decennio di guerre sbagliate in Afghanistan e in Iraq, Washington è rimasta sbalordita quando una Cina in ascesa ha iniziato a trasformare i suoi guadagni economici in una seria offerta di potere globale. Come mossa iniziale, Pechino ha iniziato a costruire basi nel Mar Cinese Meridionale, dove abbondano i giacimenti di petrolio e gas naturale, e ad espandere la propria marina militare, una sfida inaspettata che il comando americano del Pacifico, un tempo onnipotente, non era assolutamente preparato ad affrontare.

In risposta, nel 2011, davanti al parlamento australiano il presidente Barack Obama proclamò la strategia denominata “pivot to Asia” ed iniziò a ricostruire la posizione militare americana sul litorale del Pacifico. Dopo aver ritirato alcune forze statunitensi dall’Iraq nel 2012 e aver rifiutato di impegnare un numero significativo di truppe per il cambio di regime in Siria, nel 2014 la Casa Bianca di Obama schierò un battaglione di Marines a Darwin, nel nord dell’Australia. In rapida successione, Washington ottenne l’accesso a cinque basi filippine vicino al Mar Cinese Meridionale e a una nuova base navale sudcoreana sull’isola di Jeju, nel Mar Giallo. Secondo il segretario alla Difesa Chuck Hagel, per gestire queste installazioni, il Pentagono aveva pianificato di “schierare in avanti il 60% dei nostri mezzi navali nel Pacifico entro il 2020”. Tuttavia, l’incessante insurrezione in Iraq ha continuato a rallentare il ritmo del pivot strategico verso il Pacifico.

Nonostante queste battute d’arresto, alti funzionari diplomatici e militari, lavorando sotto tre diverse amministrazioni, avviarono uno sforzo a lungo termine per ricostruire lentamente la posizione militare degli Stati Uniti nella regione Asia-Pacifico. Dopo aver proclamatoil ritorno alla competizione tra grandi potenze” nel 2016, il capo delle operazioni navali, l’ammiraglio John Richardson, riferì che la “crescente e rimodernata flotta” cinese stava “riducendo” il tradizionale vantaggio americano nella regione. “La competizione è iniziata”, avvertì l’ammiraglio, aggiungendo: “Dobbiamo scrollarci di dosso ogni residua sensazione di essere a nostro agio o di compiacimento”.

In risposta a queste pressioni, l’amministrazione Trump aggiunse al budget del Pentagono la costruzione di 46 nuove navi, che avrebbero dovuto portare la flotta totale a 326 unità entro il 2023. Tuttavia, mettendo da parte le navi di supporto e parlando della vera e propria “forza da combattimento”, entro il 2024 la Cina aveva la più grande marina del mondo con 234 “navi da guerra”, mentre gli Stati Uniti ne schieravano 219 – con la capacità di combattimento cinese, secondo l’American Naval Intelligence, “sempre più di qualità paragonabile alle navi statunitensi”.

Parallelamente al potenziamento militare, il Dipartimento di Stato si adoperò per rafforzare la posizione degli Stati Uniti sul litorale del Pacifico negoziando tre accordi diplomatici relativamente nuovi con gli alleati dell’Asia-Pacifico: Australia, Gran Bretagna, India e Filippine. Sebbene queste intese abbiano aggiunto una certa profondità e resilienza alla posizione degli Stati Uniti, la verità è che questa rete del Pacifico potrebbe rivelarsi in ultima analisi più suscettibile alla rottura politica di un’alleanza multilaterale formale come la NATO.

La cooperazione militare con le Filippine

Dopo quasi un secolo di stretta alleanza attraverso decenni di dominio coloniale, due guerre mondiali e la Guerra Fredda, le relazioni americane con le Filippine hanno subito una grave battuta d’arresto nel 1991, quando il Senato del Paese si è rifiutato di rinnovare un accordo a lungo termine sulle basi militari, costringendo la Settima Flotta statunitense ad abbandonare l’enorme base navale di Subic Bay.

Dopo soli tre anni, tuttavia, durante un violento tifone la Cina occupò alcuni secche nel Mar Cinese Meridionale rivendicate anche dalle Filippine. Nel giro di un decennio i cinesi iniziarono a trasformarle in una rete di basi militari, insistendo con le loro rivendicazioni sulla maggior parte del resto del Mar Cinese Meridionale. L’unica risposta di Manila era stata quella di arenare una rugginosa nave della Seconda Guerra Mondiale sulla secca di Ayungin, nelle isole Spratly, dove i soldati filippini dovevano pescarsi la propria cena. Con la difesa esterna a pezzi, nell’aprile 2014 le Filippine hanno firmato con Washington un Accordo di Cooperazione per la Difesa Rafforzata, che consente alle forze armate statunitensi di avere strutture quasi permanenti in cinque basi filippine, tra cui due sulle coste del Mar Cinese Meridionale.

Sebbene Manila abbia ottenuto una sentenza unanime dalla Corte Permanente di Arbitrato dell’Aia, secondo cui le rivendicazioni di Pechino sul Mar Cinese Meridionale erano “prive di effetti legali”, la Cina ha respinto la decisione e ha continuato a costruire le sue basi in quella zona. Quando Rodrigo Duterte è diventato presidente nel 2016, ha attuato una nuova politica che prevedeva una “separazione” dall’America e un’inclinazione strategica verso la Cina, che lo ha ricompensato con promesse di massicci aiuti allo sviluppo. Nel 2018, tuttavia, l’esercito cinese utilizzava missili antiaerei, lanciamissili mobili e radar militari su cinque “isole” artificiali nell’arcipelago delle Spratly, costruite con la sabbia aspirata dalle sue draghe.

Una volta che Duterte ha lasciato l’incarico, mentre la Guardia Costiera cinese molestava i pescatori filippini e bombardava le navi della marina filippina con cannoni ad acqua nel loro stesso territorio, Manila ha ricominciato a chiedere aiuto a Washington. Ben presto, le navi della Marina statunitense hanno condotto pattugliamenti per la “libertà di navigazione” nelle acque filippine e le due nazioni hanno condotto le loro più grandi manovre militari di sempre. Nell’edizione dell’aprile 2024 di tale esercitazione, gli Stati Uniti hanno schierato il loro lanciamissili mobile Typhon a medio raggio, in grado di colpire le coste cinesi, scatenando una dura protesta da parte di Pechino, secondo cui tali armamenti “intensificano il confronto geopolitico”.

Manila ha affiancato al nuovo impegno verso l’alleanza con gli Stati Uniti un programma di riarmo senza precedenti. Solo la scorsa primavera ha firmato un accordo da 400 milioni di dollari con Tokyo per l’acquisto di cinque nuovi cutter della Guardia Costiera, ha iniziato a ricevere dall’India missili da crociera Brahmos  con un contratto da 375 milioni di dollari e ha proseguito un accordo da un miliardo di dollari con la Hyundai Heavy Industries della Corea del Sud che porterà alla costruzione di 10 nuove navi militari. Dopo che il governo ha annunciato un piano di ammodernamento militare da 35 miliardi di dollari, Manila ha negoziato con i fornitori coreani per dotarsi di 40 moderni caccia a reazione – una cifra ben lontana da quella di un decennio prima, quando non aveva jet operativi.

A dimostrazione della portata della reintegrazione del Paese nell’alleanza occidentale, proprio il mese scorso Manila ha ospitato manovre congiunte per la libertà di navigazione nel Mar Cinese Meridionale con le navi delle altre quattro nazioni alleate: Australia, Giappone, Nuova Zelanda, e Stati Uniti.

Il dialogo quadrilaterale sulla sicurezza

Mentre l’accordo sulla difesa delle Filippine rinnovava le relazioni degli Stati Uniti con un vecchio alleato del Pacifico, il Dialogo Quadrilaterale sulla Sicurezza che coinvolge Australia, India, Giappone e Stati Uniti, lanciato per la prima volta nel 2007, ha ora esteso la potenza militare americana nelle acque dell’Oceano Indiano. Al vertice ASEAN del 2017 a Manila, quattro leader nazionali conservatori guidati dal giapponese Shinzo Abe, dall’indiano Narendra Modi e da Donald Trump decisero di rilanciare l’intesa del “Quadrilatero” (dopo una pausa decennale, quando i governi laburisti australiani si erano avvicinati alla Cina).

Proprio il mese scorso, il presidente Biden ha ospitato un “Quad Summit” in cui i quattro leader hanno concordato di espandere le operazioni aeree congiunte. In un momento di tensione, Biden ha detto senza mezzi termini che: “La Cina continua a comportarsi in modo aggressivo, mettendoci alla prova in tutta la regione. Questo vale per il Mar Cinese Meridionale, il Mar Cinese Orientale, l’Asia Meridionale e lo Stretto di Taiwan”. Il Ministero degli Esteri cinese ha risposto: “Gli Stati Uniti mentono spudoratamente” e devono “liberarsi dell’ossessione di perpetuare la propria supremazia e di contenere la Cina”.

Dal 2020, tuttavia, il Quad ha trasformato l’esercitazione navale annuale di Malabar (India) in un’elaborata esercitazione a quattro in cui gruppi di portaerei manovrano in acque che vanno dal Mar Arabico al Mar Cinese Orientale. Per contrastare “la crescente assertività della Cina nella regione indo-pacifica”, l’India ha annunciato che l’ultima esercitazione di ottobre sarà caratterizzata da manovre a fuoco nella Golfo del Bengala, guidate dalla sua portaerei ammiraglia e da una serie di caccia MiG-29K con capacità ognitempo. Chiaramente, come ha detto il Primo Ministro Narendra Modi, il Quad è “qui per restare”.

Alleanza AUKUS

Mentre l’amministrazione Trump ha rilanciato il Quad, la Casa Bianca di Biden ha promosso un complementare e controverso patto di difesa AUKUS tra Australia, Gran Bretagna e Stati Uniti (parte di quella che Michael Klare ha definito la “anglosassonizzazione” della politica estera e militare americana). Dopo mesi di trattative segrete, i loro leader hanno annunciato l’accordo nel settembre 2021 come un modo per soddisfare “l’ambizione condivisa di sostenere l’Australia nell’acquisizione di sottomarini a propulsione nucleare per la Royal Australian Navy”.

Un tale obiettivo ha scatenato un coro di proteste diplomatiche. Arrabbiata per l’improvvisa perdita di un contratto da 90 miliardi di dollari per la fornitura di 12 sottomarini francesi all’Australia, la Francia ha definito la decisione “una pugnalata alle spalle” e ha immediatamente richiamato i propri ambasciatori sia da Canberra che da Washington. Con altrettanta rapidità, il Ministero degli Esteri cinese ha condannato la nuova alleanza perché “danneggia gravemente la pace regionale… e intensifica la corsa agli armamenti”. Il quotidiano ufficiale Global Times di Pechino ha commentato che l’Australia si è “trasformata in un avversario della Cina”.

Per raggiungere una straordinaria prosperità, grazie soprattutto alle sue esportazioni di minerale di ferro e di altri prodotti verso la Cina, l’Australia è uscita dall’intesa Quad per quasi un decennio. Ora, grazie a questa singola decisione in materia di difesa, l’Australia si è alleata saldamente con gli Stati Uniti e otterrà l’accesso ai progetti di sottomarini britannici e alla propulsione nucleare statunitense top-secret, entrando a far parte dell’élite di sole sei potenze che dispongono di una tecnologia così complessa.

Non solo l’Australia spenderà la monumentale cifra di 360 miliardi di dollari per costruire otto sottomarini nucleari nei suoi cantieri di Adelaide nell’arco di un decennio, ma ospiterà anche quattro sottomarini nucleari americani della classe Virginia in una base navale nell’Australia occidentale e acquisterà dagli Stati Uniti ben cinque di questi sottomarini “stealth” all’inizio del 2030. Nell’ambito dell’alleanza tripartita con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, Canberra dovrà inoltre sostenere costi aggiuntivi per lo sviluppo congiunto di droni sottomarini, missili ipersonici e sensori quantistici. Grazie a questo accordo di armamento “stealth”, Washington sembra aver conquistato un importante alleato geopolitico e militare in un eventuale futuro conflitto con la Cina.

Stallo lungo il litorale del Pacifico

Come l’operazione militare russa in Ucraina ha rafforzato l’alleanza NATO, così la sfida della Cina nel Mar Cinese Meridionale, ricco di combustibili fossili, e altrove ha aiutato gli Stati Uniti a ricostruire i propri bastioni insulari lungo il litorale del Pacifico. Grazie a un seducente corteggiamento da parte di tre amministrazioni successive, Washington ha riconquistato due vecchi alleati, l’Australia e le Filippine, rendendoli di nuovo ancore per una catena di isole che rimane il fulcro geopolitico del potere globale americano nel Pacifico.

Tuttavia, con una capacità di costruzione navale oltre 200 volte superiore a quella degli Stati Uniti, il vantaggio della Cina in termini di navi da guerra continuerà quasi certamente a crescere. Per compensare questo futuro deficit, i quattro alleati attivi dell’America lungo il litorale del Pacifico giocheranno probabilmente un ruolo fondamentale (la marina del Giappone conta più di 50 navi da guerra e quella della Corea del Sud altre 30).

Nonostante questa rinnovata forza in quella che sta diventando una nuova guerra fredda, le alleanze dell’America nell’Asia-Pacifico devono affrontare sfide immediate e un futuro difficile. Pechino sta già esercitando una pressione incessante sulla sovranità di Taiwan, violando lo spazio aereo dell’isola e attraversando la linea mediana dello Stretto di Taiwan centinaia di volte al mese. Se Pechino trasformerà queste violazioni in un embargo paralizzante nei confronti di Taiwan, la Marina statunitense si troverà di fronte a una scelta difficile: perdere una o due portaerei in un confronto con la Cina o tirarsi indietro. In ogni caso, la perdita di Taiwan interromperebbe la catena di isole dell’America nel litorale del Pacifico, spingendola a una “seconda catena di isole” nel medio Pacifico.

Per quanto riguarda questo futuro difficile, il mantenimento di tali alleanze richiede un tipo di volontà politica nazionale che non è affatto garantita in un’epoca di nazionalismo populista. Nelle Filippine, il nazionalismo antiamericano personificato da Duterte conserva il suo fascino e potrebbe essere adottato da qualche futuro leader. Più immediatamente in Australia, l’attuale governo del Partito Laburista ha già dovuto affrontare un forte dissenso da parte dei suoi membri che hanno definito l’intesa con l’AUKUS come una pericolosa trasgressione della sovranità del Paese. Negli Stati Uniti, il populismo repubblicano, sia quello di Donald Trump che quello di un futuro leader come J.D. Vance, potrebbe ridurre la cooperazione con questi alleati dell’Asia-Pacifico, rinunciare a un costoso conflitto su Taiwan o trattare direttamente con la Cina in un modo che comprometterebbe la rete di alleanze faticosamente conquistate.

E questa, ovviamente, potrebbe essere la buona notizia (per così dire), data la possibilità che la crescente aggressività cinese nella regione e la spinta americana a rafforzare un’alleanza militare che sta minacciosamente circondando quel Paese possano minacciare di rendere ancora più calda l’ultima guerra fredda, trasformando il Pacifico in una vera e propria polveriera e portando alla possibilità di una guerra che, nel mondo attuale, sarebbe quasi inimmaginabilmente pericolosa e distruttiva.

Alfred_MccoyAlfred W. McCoy, collaboratore abituale di TomDispatch, è professore di storia all’Università del Wisconsin-Madison. È autore di “In the Shadows of the American Century: The Rise and Decline of U.S. Global Power”. Il suo ultimo libro è “To Govern the Globe: World Orders and Catastrophic Change”.

Link: https://tomdispatch.com/powder-keg-in-the-pacific/

Scelto e tradotto (IMC) da CptHook per ComeDonChisciotte

Le dichiarazioni e le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’Autore e non (necessariamente) quelle della Redazione.

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