La risposta anomala al lutto privato, la risposta pubblica in un’ottica femminista abolizionista

C’è dell’anomalia nella risposta creatasi a seguito dell’omicidio di Giulia Cecchettin: è anche grazie ad Elena, la sorella di Giulia, che ha trasformato il suo lutto, il suo dolore, in una questione politica da affrontare. 

In questa questione politica, come dato positivo, risulta esserci una grande assente tra i leitmotiv che – in queste occasioni – viene sempre spolverata e rinnovata a nuovo. Nelle dichiarazioni di Elena, nel movimento, durante le fiaccolate ed i cortei che si sono organizzati in questi giorni, non si fa alcun accenno alla ‘sempreverde’ risposta penale

Sarebbe umano richiamarla, specie da parte dei familiari colpiti dalla perdita. La giustizia retributiva, d’altronde, è nata basandosi su qualcosa di molto più materiale e sanguigno: il sentimento della vendetta privata che – con l’intermediazione dell’autorità statuale – diventa sistema di vendetta ‘pubblico’. 

Ed invece le piazze di questa settimana ci dicono tutt’altro. Siamo ben oltre ogni concetto modernista sulla funzione della pena, finanche lontani dalla concezione costituzionale della pena «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». 

Eppure la risposta del Governo torna indietro di secoli e punta al consenso delle masse sguinzagliando la vecchia teoria della prevenzione laddove la pena assume nient’altro che un fondamento utilitaristico – intimidativo giacché mirerebbe a distogliere i consociati dal compiere atti criminosi. 

Ricorderete lo scorso 27 maggio 2023 l’omicidio efferato di Giulia Tramontano, la giovane di 29 anni al settimo mese di gravidanza, a quel evento seguì una accelerazione su un DDL (il n.923 e connessi) denominato Disposizioni per il contrasto alla violenza sulle donne e contro la violenza domestica approvato in tempi record dal CdM il 7 giugno.

Al suo interno venivano previste norme “più rigorose[1]”, ma quel DDL fu licenziato dal Ministro Nordio con una dichiarazione contraddittoria ma sorprendente per la sua provenienza: «Per quanto le pene siano elevate non costituiscono mai una deterrenza assoluta contro i reati di genere; siamo intervenuti con una legge complessa e articolata, ma è solo con un’operazione culturale che si possono ridurre, se non eliminare, reati così odiosi». 

Dopo cinque mesi da quell’evento, il DDL nato a seguito dell’omicidio di Giulia Tramontano, dopo una rapida ed imposta accelerazione delle votazioni al Senato – è diventato legge qualche giorno dopo l’omicidio, triste coincidenza, di un’altra Giulia. (Qui il Dossier Senato). 

L’approvazione rapida non è stato un caso, ma un’ennesima farsa – questa volta sostenuta compattamente dalle forze politiche parlamentari – portata avanti da una governance che agisce ai fini di silenziare proteste e raggruppare il consenso sociale solo quando eventi di tale stregua assumono un enorme rilevanza mediatica (vd. Decreto Caivano, ormai legge anche quello). 

Una risposta che, per quanto minimamente diversa rispetto agli impianti normativi ordinari della destra di governo (ci sono norme sull’educazione nelle scuole e formazione delle forze dell’ordine) risulta essere ancora inadeguata specie nel momento in cui il Governo Meloni approva leggi repressive da un lato, parla di educazione dall’altro, ma materialmente taglia del 70% i fondi per la prevenzione della violenza sulle donne rispetto al 2022. 

L’anno politico 2023 ha – davvero – messo a dura prova il governo Meloni ma la ricetta stantia per superare il terribile periodo composto da violenze sessuali di gruppo, stupri di minorenni, femminicidi (oltre al compagno della Premier che fa molestie sessuali in televisione), è come al solito ricca di ingredienti incentrati su potenziamento di misure di punizione, basti pensare come fuori dalla violenza di genere si è creato un ennesimo Pacchetto Sicurezza che – tra le altre cose indicibili – propone un regime più articolato per l’esecuzione della pena per le donne condannate quando sono in stato di gravidanza o sono madri di figli fino a tre anni (e cos’è questa se non violenza di genere di Stato?). 

Riprendendo il tema principale, il movimento femminista, gli studenti e le studentesse, la società civile che si sta mobilitando hic et nunc, è però innovativamente ben oltre questa impostazione, anzi nemmeno la sfiora. 

Nonostante queste impostazioni ‘primitive’ statuali, è ormai chiaro a tutti e tutte che la criminalizzazione per mettere fine alla violenza non ha funzionato e che le stesse prigioni non funzionano. All’aumento esponenziale del numero di uomini in prigione non è seguita – cosa nota – una diminuzione dei tassi di femminicidio, violenza sessuale e domestica. All’aumento delle pene carcerarie non segue una funzione deterrente e preventiva. Le strade non sono più protette, le donne non sono più sicure, le persone non binary, trans non sono uccise di meno. 

Ma di fatto, schiaffeggiando le azioni di governo, il movimento di oggi sta riprendendo la capacità di organizzarsi collettivamente per fermare la violenza riprendendosi il potere che era stato trasferito, negli anni, allo Stato, tramite l’affidamento sul sistema penale. Da un approccio individualistico, alienante e deprivante all’eliminazione della violenza (prepararsi all’autodifesa, chiamare la polizia, denunciare) si sta ritornando alla necessità di mettere a punto nuovi modi per far fronte, collettivamente, alla violenza all’interno della comunità. 

Siamo dinanzi ad una germinale istanza di abolizionismo femminista [italiano ndr.] che – di fatto – si allontana dalle istanze del femminismo più mainstream discostandosi da quella falsa rassicurazione del carcere come protezione e restituzione di qualcosa.

Si apre un processo radicale e costituente, non finito ma forse nemmeno iniziato ma la rabbia crescente ed inaudita di queste settimane fa ben sperare nella creazione di crepe rivoluzionarie. Servono forza e coraggio, proprio come quelli di Elena. 


[1] Si è previsto il rafforzamento della misura di prevenzione dell’ammonimento del questore, estendendo l’applicazione anche ai reati cd. spia, e anche l’applicazione delle misure di prevenzione della sorveglianza speciale e dell’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora, previste dal Codice antimafia, agli indiziati di reati legati alla violenza contro le donne e alla violenza domestica. Tra le ulteriori disposizioni si segnala anche la previsione dell’arresto in flagranza “differita” per chi venisse individuato, in modo inequivocabile e sulla base di documentazione video-fotografica quale autore di una condotta di violazione dei provvedimenti di allontanamento e del divieto di avvicinamento, maltrattamenti in famiglia, atti persecutori.

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