La rivoluzione come una bella avventura / 2: Caraibi e Americhe 1789 -1800

di Sandro Moiso

Julius S. Scott, La rivoluzione corre sulle ali del vento, con una prefazione di Marcus Rediker, elèuthera editrice, Milano 2024, pp. 368, 22 euro

Toussaint, il più infelice degli uomini!
[…] Se anche sei caduto, per non rialzarti mai più,
vivi e trova consolazione.
Ti sei lasciato indietro
poteri che opereranno in tuo favore; aria, terra e cieli;
nessun alito del vento comune
ti dimenticherà; hai grandi alleati;
I tuoi amici sono l’esultanza, l’agonia,
l’amore e la mente invincibile dell’uomo.
(William Wordsworth, A Toussaint L’Overture, 1802)

I miei volumi corrono trionfanti… (Emilio Salgari)

Ad alcuni potrà sembrare blasfemo l’accostamento tra l’Ode a Toussaint L’Overture del poeta romantico inglese e l’affermazione di Salgari sullo straordinario successo dei suoi romanzi, ma ancora una volta ciò che ricollega due situazioni così apparentemente lontane tra di loro è lo spirito di avventura che non solo animò, per motivi diversi, sia le aspirazioni rivoluzionarie scatenate nell’area caraibica e più fino alle piantagioni degli appena nati Stati Uniti d’America che il successo dei romanzi di Emilio Salgari a cavallo tra XIX e XX secolo, ma anche tutti coloro, e furono davvero tantissimi, che in un caso e nell’altro fornirono gambe, teste, vigore, fiato, desiderio di libertà e capacità di sognare mondi altri sia alla rivoluzione haitiana della fine del XVIII secolo che alle avventure portate sulle pagine dallo scrittore veneto di origine, ma torinese d’adozione.

Avventure, queste ultime, spesso ambientate, soprattutto per il ciclo dei corsari e dei pirati, in quegli stessi mari in cui si svolgono gli avvenimenti narrati con maestria e grande capacità di indagine da Julius Scott nel testo appna pubblicato dalle edizioni eléuthera. Testo che nel titolo originale, The Common Wind. Afro-American Currents in the Age of Haitian Revolution, fa riferimento a quel “vento comune” evocato nella poesia di Wordsworth.

In un caso e nell’altro comunque furono spesso lettori poco colti e ribelli analfabeti a far sì che i sogni di libertà e rivolgimento e rivoluzione sociale potessero prendere corpo, sia sulle pagine di libri di cui avevano decretato il successo spingendo gli editori a pubblicarne altri, e in misura sempre maggiore, sia nella materialità del rifiuto dello sfruttamento e dello schiavismo.

Così mentre, alla fine dell’Ottocento, una borghesia addormentata su immeritati allori si compiaceva della decadenza e della sensualità da salotto contenute nelle opere di Gabriele D’annunzio, fingendo scandalo per pruderie, i lettori dei romanzi di Salgari (studenti, artigiani, umili lavoratori e lavoratrici) si esaltavano per i sogni di vendetta e rivolta contenuti nei suoi libri di cui, all’epoca e proprio per la violenza contenute in alcune scene e l’audacia erotica di altre (poi espurgate nelle edizioni per ragazzi), si discuteva la “dubbia” moralità. Decretandone un successo inaspettato sia in Italia che all’estero nei decenni a venire1.

La similitudine che è ancora possibile tracciare, infine, tra le vicende salgariane e il testo di Julius Scott è data dal fatto che la ricerca dell’autore afro-americano è preceduta da una prefazione d i Marcus Rediker, una delle maggiori autorità della ricerca storiografica riguardanti la storia dei pirati e dei corsari del XVIII secolo e delle vicenda legate ai percorsi di liberazione e lotta degli schiavi africani deportati in America2. Ed è proprio Rediker a sottolineare come nell’evocare evocare la forza del common wind, il «vento comune», nel sonetto dedicato a Toussaint Louverture, il grande leader della Rivoluzione haitiana destinato a morire, di polmonite, nella prigione napoleonica di Fort de Joux, nella Francia orientale:

Julius S. Scott ci mostra la potenza umana collettiva che sta dietro le parole di Wordsworth. Concentrando la sua attenzione sull’«alito del vento comune», indaga infatti su quanti inalarono insieme a quell’alito anche la storia di Toussaint e della rivoluzione, per poi rimetterla in circolo nel sussurro di racconti sovversivi dilagati con rapidità e forza in tutta l’area atlantica. E se riesce a dare sostanza alla splendida astrazione di Wordsworth è proprio perché ci mostra le «menti invitte» all’opera: una popolazione eterogenea – composta da marinai, schiavi fuggiaschi, uomini liberi di colore, maroons, disertori, venditrici ambulanti, detenuti evasi e contrabbandieri – in continuo movimento che proprio per questo diventava il vettore attraverso il quale circolavano le notizie e le esperienze nate dentro e intorno la Rivoluzione haitiana, [offrendoci] uno straordinario spaccato di storia sociale e intellettuale di una rivoluzione dal basso 3.

Ed è la stessa storia del testo di Scott ad essere alquanto particolare proprio per le vicende delle sue s/fortune editoriali, poiché per Julius S. Scott (1955-2021), che ha insegnato Afroamerican and African Studies presso la University of Michigan occupandosi prevalentemente di storia dei Caraibi e dell’Atlantico, The Common Wind: Afro-American Currents in Age of the Haitian Revolution aveva costituito la tesi di dottorato. Ricerca che lo rese subito celebre nel circuito accademico, tanto da essere considerata per la lingua inglese “la tesi di laurea in scienze umane e sociali più letta, ricercata e discussa del XX secolo”. Eppure il suo autore rimase a lungo del tutto ignoto al grande pubblico, visto che per trent’anni nessuna casa editrice lo prese in considerazione e soltanto nel 2018 è stato mandato in stampa dall’editore britannico Verso, ottenendo finalmente il successo che meritava e, tutt’ora, merita. Ma anche se per decenni, ai convegni, gli storici hanno bisbigliato in toni ammirati e cospiratori dell’opera di Scott, non per questo può esser definita come un classico “underground”, come sostiene ancora Rediker nella sua prefazione.

E non perché il suo status come classico sia in discussione, ma perché la metafora terrestre è fuori bersaglio: qui si racconta ciò che accadde non nel sottosuolo ma sottocoperta, in mare e sui moli, a bordo di navi e canoe, e nelle turbolente città portuali dell’era in cui scoppiò la Rivoluzione haitiana. Nondimeno, il libro e le sue fortune trovano un parallelismo con il mondo dei marinai e degli altri lavoratori itineranti che ne costituiscono il tema centrale: entrambi hanno avuto un’esistenza sfuggente – difficili da localizzare e noti principalmente attraverso il passaparola.
[…] Sin dal suo primo concepimento come tesi di dottorato nel 1986, questo libro, grazie alle innumerevoli citazioni da parte degli studiosi in una gran varietà di campi, ha da sempre occupato un posto atipico nel mondo della ricerca […] studiando la diffusione via mare delle idee e delle informazioni relative alla Rivoluzione haitiana, focalizzandosi sugli anni Novanta del Settecento, decennio in cui le fiamme della rivolta bruciavano in tutto l’Atlantico, da Port-auPrince a Belfast, da Parigi a Londra. […] Scott affronta un tema che perseguitò a lungo i proprietari di schiavi in tutto l’Atlantico – quello che uno di loro nel 1791 chiamò «la modalità ignota con cui circolano le informazioni di intelligence tra i negri». Intelligence è proprio il termine esatto, perché le conoscenze che viaggiavano sulle «ali del vento» avevano una ricaduta strategica in quanto collegavano le informazioni sull’abolizionismo britannico, sul riformismo spagnolo e sui moti rivoluzionari francesi con quelle sulle lotte locali dell’intera area caraibica. Le genti itineranti usavano le maglie del commercio e la propria mobilità personale per formare reti di comunicazione sovversive di cui le classi dominanti del periodo erano acutamente consapevoli, anche se gli storici successivi ne sono rimasti a lungo ignari. Fino a Scott. Di fatto, Scott ha dato vita a un nuovo modo di osservare uno dei momenti cardine del periodo storico che Eric Hobsbawm ha notoriamente chiamato «l’Età della rivoluzione». Riesce infatti a spostare il nostro sguardo su questa epoca deflagrante offrendoci due prospettive inedite: dal basso e dal mare. Portando in primo piano gli uomini e le donne che collegavano via mare Parigi, Siviglia e Londra a Port-au-Prince, Santiago de Cuba e Kingston, gli stessi che a livello locale, su piccole imbarcazioni, mettevano in comunicazione reciproca porti, piantagioni, isole e colonie, Scott crea una nuova e altamente suggestiva geografia transnazionale della lotta. […] Le forze – e gli artefici – della rivoluzione si stagliano con un nitore senza precedenti. Il libro è popolato da figure a lungo dimenticate che invece al loro tempo erano diventati i protagonisti di racconti a loro dedicati. Come il fuggiasco di Cap Français che si era dato il nome di «Sans-Peur» (Senza-Paura) – davvero un nome con un messaggio, sia per i suoi sodali nemici della schiavitù, sia per chiunque si fosse messo in mente di braccarlo. O le africane anonime che ai mercati di Saint-Domingue [l’attuale Haiti] si salutavano con l’appellativo di «marinaio», esprimendo così una forma di solidarietà che risaliva ai bucanieri del Seicento. O ancora personaggi come Joe Anderson, il marinaio giamaicano che era fuggito dal suo padrone con un gigantesco collare di ferro ancora addosso e che nondimeno si sottrasse alla cattura per ben quattordici anni, o come l’anziano e solenne Old Blue, che si era meritato «una reputazione lunga e distintiva quanto la sua barba ingrigita». La ricchezza narrativa di questo libro è semplicemente straordinaria4.

Come riassume ancora Rediker nella sua prefazione:

Un elemento chiave dell’opera di Scott è la città portuale, dove genti itineranti provenienti da ogni parte del mondo si incontravano per lavorare. […] Scott dimostra come nei porti il modo di produzione capitalistico non avesse generato solo enormi ricchezze attraverso i commerci, ma anche movimenti di opposizione dal basso. Come Lord Balcarres, governatore della Giamaica, osservava sconsolato nel 1800, le classi inferiori di Kingston erano composte da «turbolenti di ogni nazione». Pervase da «una generale aspirazione al livellamento», quelle classi erano un vero e proprio innesco alla rivolta – pronte a dare alle fiamme la città e ridurla in cenere. E Scott descrive per l’appunto come e perché il fronte del porto si fosse tramutato in un «calderone insurrezionale» , dopo l’irrompere di «cicli di agitazione» transnazionali in molte città portuali negli anni Trenta, Sessanta e Novanta del Settecento. Per esplodere, nell’ultimo decennio del secolo, in una rivoluzione di portata atlantica5.

«Superando con un balzo le barriere linguistiche, geografiche e imperiali, la tempesta creata dai rivoluzionari neri di Saint-Domingue e trasmessa da genti itineranti ad altre società schiaviste si sarebbe rivelata un punto di svolta fondamentale nella storia delle Americhe» (Julius Scott, op. cit., p. 21). Una tempesta che avrebbe visto confrontarsi i sauvages con i savants, gli illetterati con i colti, i barbari con i “civilizzati”, seguendo linee di demarcazione di classe che, ancor più di quella del “colore”, da allora avrebbero definito i due grandi campi dell’avventura più grande: quella della lotta di classe e della rivoluzione.

Nel 1779, Joe Anderson, «un robusto marinaio negro» nato a Bermuda, riuscì a sfuggire al suo padrone salendo da clandestino su una nave ormeggiata a Port Antonio, sulla costa nord, e questo malgrado l’intralcio di «un collare di ferro rivettato e circa cinue o sei anelli della catena». Non solo, ma riuscì a eludere le ostinate ricerche del padrone per quattordici anni, sempre trovando lavoro e rifugio «a bordo di navi». Intorno al 1793, sebbene ancora latitante Anderson «era ben noto a Kingston»6.

Così la gente che frequentava i luoghi della classe lavoratrice, nella parte della città prospiciente al porto, continuava a narrarne le gesta ormai leggendarie. Ma queòòa di Anderson è soltanto una delle straordinarie vicende narrate dallo storico afro-americano, tutte basate su esaustive ricerche d’archivio condotte in Spagna, Gran Bretagna, Giamaica e Stati Uniti, e su fonti primarie pubblicate a e su Cuba, Saint-Domingue e altre aree dei Caraibi. Tutte che raccontano una sbalorditiva nuova vicenda da aggiungere ai fieri annali della «storia dal basso».

Operando un rovesciamento totale e radicale delle narrazioni e ricostruzioni storiche ancora vigenti, Julius Scott riporta alla luce l’antica arte della narrazione orale e popolare, che anticipò di gran lunga la diffusione delle gazzette di stampo illuministico, dimostrando che più che il verbo scritto degli intellettuali furono le parole vive di un proletariato ancora in via di formazione, ma già enormemente combattivo, a diffondere gli ideali rivoluzionari di quelle che furono poi definite “rivoluzioni atlantiche”. Dando vita, oltre tutto, a reti di comunicazione ampiamente diffuse e incontrollabili, ben più affidabili ed efficaci di quelle odierne rappresentate dai social in cui i movimenti antagonisti ripongono ancora troppa fiducia.

Ci parla, dunque, l’autore di un proletariato attivo anche intellettualmente che non corrisponde, però, al presunto proletariato intellettuale di cui si va cianciando da decenni, sempre attento, quest’ultimo, più al posizionamento all’interno di una accademia intesa come “industria del sapere” che non alla diffusione delle pratiche rivoluzionarie, come ben ha dimostrato in un suo recente testo, Red Africa, Kevin Ochieng Okoth descrivendo le illusioni e il pessimismo “controrivoluzionario” contenuti nel mito a-classista della blackness diffusosi nelle università anglo-americane di oggi7.

Ispirandosi ad un ricco corpus di studi radicali, come The World Turned Upside Down: Radical Ideas in the English Revolution (1972) di Christopher Hill, rinnovò e ampliò l’idea dei «senza padrone» – impiegata in origine per indicare gli uomini e le donne del Seicento ad alta mobilità e perlopiù espropriati8 – per creare però qualcosa di completamente nuovo: il «caraibico senza padrone», ovvero quegli uomini e quelle donne indipendenti che vivevano e si muovevano all’interno degli spazi altamente «padronali» del sistema delle piantagioni. Mentre dal libro di C. L. R. James, Mariners, Renegades, and Castaways: Herman Melville and the World We Live In (1953), prese invece l’umanità variegata e fluttuante che teneva collegato il mondo del primo evo moderno e che in seguito rivisse nei romanzi marinari di Melville9. Si avvalse inoltre dell’opera di Georges Lefebvre, storico della Rivoluzione francese che negli anni Trenta, oltre a coniare l’espressione «storia dal basso», dimostrò nel suo testo La Grande peur de 1789 (1932) in che modo le dicerie, le voci, possono determinare grandi sommovimenti sociali e politici10, proprio per sostenere motivatamente come negli anni successivi, le voci di emancipazione diffuse da gruppi di senza padrone fossero diventati una forza concreta in tutti i Caraibi e in tutto l’Atlantico.

Fu operando in questo modo che la Rivoluzione haitiana – e forse anche Wordsworth ne sarebbe stato felice – non sarebbe morta. Unendosi ai popoli invitti, oggetto e soggetto del suo studia, Julius S. Scott ci racconta una nuova storia, una storia di esultanza e di agonia, di amore e di rivoluzione. E di avventura epocale.


  1. Nel 1905 Salgari scrisse ad Americo Greco: «I miei romanzi si pubblicano in lingua francese, brasiliana, czeca, tedesca, olandese, spagnola ecc.» e, come afferma Felice Pozzo nel suo saggio L’opera globe trotter di Emilio Salgari: «Sappiamo dai giornali del tempo, che nel 1949 Salgari ha conquistato il primato di autore italiano più tradotto nel mondo annoverando traduzioni in 35 paesi; il primato è risultato pressoché inalterato nel 1956 con 34 paesi […] Nel 1987 si accertò che Salgari era ancora lo scrittore italiano più conosciuto all’estero, così da precedere molti premi Nobel della letteratura, mentre nel 1994 fu pubblicata la notizia secondo cui era tradotto in undici lingue con una vendita di oltre nove milioni di copie.» ( F. Pozzo, op. cit. in E. Pollone, S. Re Fiorentin, P. Vagliani (a cura di), Atti del I Convegno internazionale sulla fortuna di Salgari all’estero – Torino 11 novembre 2003, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2005, p. 13.)  

  2. Si vedano in proposito le opera dello stesso, che è storico, scrittore e attivista per la pace e la giustizia sociale, oltre che professore di Storia atlantica all’Università di Pittsburgh: M. Rediker, Canaglie di tutto il mondo. L’epoca d’oro della pirateria, elèuthera editrice, Milano 2005 (nuova edizione 2020); Sulle tracce dei pirati. La storia affascinante della vita sui mari del ’700, Piemme, 1996; La ribellione dell’Amistad. Un’odissea atlantica di schiavitù e libertà, Feltrinelli Editore, Milano 2013; Il Piantagrane: Storia Di Benjamin Lay, elèuthera 2019 (qui) e I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia libertaria, insieme a P. Linebaugh, Feltrinelli Editore, Milano 2018.  

  3. M. Rediker, Il vento comune, prefazione a Julius S. Scott, La rivoluzione corre sulle ali del vento, elèuthera editrice, Milano 2024, p. 8.  

  4. M. Rediker, op. cit., pp.8-11.  

  5. Ivi, pp. 11-12.  

  6. J. Scott, op. cit., p.123.  

  7. Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, Meltemi Editore, Milano 2024, di prossima recensione su Carmillaonline.  

  8. C. Hill, Il mondo alla rovescia. Idee e movimenti rivoluzionari nell’Inghilterra del Seicento, Einaudi Editore, Torino 1981.  

  9. C. L. R. James, Marinai, rinnegati e reietti. La storia di Herman Melville e il mondo in cui viviamo, Ombre corte, Verona 2003.  

  10. G. Lefebvre, La grande paura del 1789, Einaudi Editore, Torino 1974.  

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