Stiamo entrando nella quarta settimana delle mobilitazioni scatenatesi in Tunisia in corrispondenza del decimo anniversario della rivoluzione. Questo ciclo di lotte, iniziato nel 2008 con la rivolta del bacino minerario di Gafsa, ha nei giovani precari i propri protagonisti e nelle aspirazioni alla giustizia sociale la base delle proprie rivendicazioni. La gestione inegualitaria della pandemia a livello globale ha contribuito a precipitare una nuova ondata di protesta, che si è espressa in manifestazioni, scioperi, blocchi stradali e scontri con la polizia. Proponiamo questa traduzione dell’analisi di Hèla Yousfi, originalmente pubblicata da The Conversation. Traduzione di Francesco Cargnelutti e Marco Miotto. Credit foto: الجيل الخطأ
Il 14 gennaio 2021, dieci anni dopo la caduta di Ben Ali, la storia insiste, si ostina e si ripete senza sosta in Tunisia: un pastore della regione di Siliana, nel nord ovest della Tunisia, è stato aggredito da un poliziotto perché il suo gregge di pecore è entrato nelle sedi del governatorato. In un video condiviso sui social network, si vede un poliziotto spingere il giovane dicendo: “È come se tu insultassi il ministero dell’interno lasciando le tue pecore davanti a questa istituzione.”
La reazione dei giovani di Siliana e di altri quartieri popolari non si è fatta attendere, ricordando che gli eventi storici come l’immolazione di Mohammed Bouazizi il 17 dicembre 2010 non sono sequenze della storia, ma si estendono temporalmente nel prima e nel dopo, rivelando il proprio significato solo progressivamente. Da una decina di giorni, in quasi tutta la Tunisia vengono organizzate proteste notturne da parte di giovani con rivendicazioni radicali, che attribuiscono la responsabilità della crisi economica e politica a tutta la classe politica e in particolare alla prima forza in seno al parlamento, il partito Ennahda.
Le proteste sono state represse con violenza da parte della polizia. Svariati appelli sono stati lanciati sui social network dagli attivisti della società civile per fare della data del 26 gennaio 2021, l’anniversario della rivolta del 26 gennaio 1978 – il primo scontro sanguinario tra i movimenti sociali e il regime autoritario in Tunisia –, una giornata di collera e manifestazioni.
Il passato ancorato nelle memorie?
Se i richiami al passato sono fra le strategie più ordinarie nelle interpretazioni del presente, quello che anima questi richiami non è solamente una questione di memoria o di mobilitazione, ma è piuttosto l’incertezza nel capire se il passato è veramente passato, terminato e concluso, o se perdura, manovrando le azioni di individui e gruppi, sebbene probabilmente sotto forme differenti.
Certo, le cause di questa nuova ondata di proteste sono oggetto di svariate analisi pertinenti: il fratturarsi dello stato, l’incompetenza dei governanti, la corruzione, l’aggravarsi della crisi sociale ed economica, la crisi dovuta alla pandemia, ecc.
Ma la domanda che mi pongo in questo articolo è quella di sapere se questi movimenti sono completamente nuovi. In quale misura sono motivati dagli eventi storici? I movimenti sociali delle generazioni precedenti, che i giovani tra i 15 e i 25 anni forse non hanno mai vissuto, ispirano ancora in un modo o nell’altro la loro azione? La storia e la memoria possono essere, come ha così chiaramente formulato Walter Benjamin, un “misterioso incontro tra le generazioni passate e la nostra”?
Come comprendere quanto è accaduto in dieci anni? È solo uno slogan, “Il popolo vuole la caduta del regime”, che non si è mai concretizzato? Oppure è un punto di rottura nella storia, nella cultura politica del paese, con una portata cruciale per illuminare tutto ciò che è successo in questo decennio e gran parte di quanto continua a riprodursi oggi in Tunisia?
Gennaio, il mese dell’orizzonte delle possibilità
Gennaio in Tunisia è il mese delle “crepe della storia” che struttura l’orizzonte delle possibilità. Se i movimenti sociali del gennaio 1978 costituiscono la prima breccia aperta nel sistema autoritario in Tunisia, i primi faccia a faccia sanguinosi fra i movimenti sociali e il partito-stato, la sollevazione del 17 dicembre 2010 e la fuga di Ben Ali il 14 gennaio 2011 sono gli avvenimenti che hanno marcato lo scorso decennio.
C’è un prima e un dopo 14 gennaio 2011. Come dicono i messicani, è una separazione delle acque. Eppure, c’è un consenso unanime sul fatto che le cause che hanno provocato questa sollevazione non hanno trovato delle soluzioni e che le modalità di governo politico ed economico in Tunisia sono restate le stesse malgrado l’implementazione della democrazia istituzionale. Ma allora che cosa significa questa rottura o separazione delle acque?
Lotte multidimensionali e rottura profonda
Questa rottura costituisce un cambiamento profondo nell’immaginario politico. Lungi dall’essere un mero avvenimento, essa è costituita dall’insieme delle crepe aperte dal processo rivoluzionario, incarnate dalle lotte quotidiane per la dignità, che è riuscito bene o male a mantenere aperto l’orizzonte delle possibilità politiche. Queste lotte assumono forme differenti.
Esse possono prendere di mira direttamente lo stato imponendogli di fare delle concessioni, come le mobilitazioni sindacali regolari o i nuovi movimenti dei cittadini, come “Noi non perdoniamo” (manech msamhin) contro il disegno di legge sulla “riconciliazione economica e finanziaria” con le élite dell’antico regime, o ancora la mobilitazione contro gli accordi di libero scambio completi e approfonditi (ALECA) con l’Unione Europea.
Queste lotte prendono corpo anche attraverso la creazione di nuovi spazi politici autonomi che permettono di porre in essere risorse di mutuo soccorso sociale per gestire la crisi pandemica di fronte agli errori dello stato, oppure di favorire l’appropriazione di territori e spazi da lungo tempo confiscati dal potere centrale. A titolo illustrativo, l’esperienza del recupero della terra da parte dei contadini di Jemna o ancora la mobilitazione dei militanti di Kamour hanno entrambe mirato alle strutture industriali e politiche dello stato nella regione, ponendo in maniera radicale la questione della redistribuzione delle ricchezze. Gli spazi a lungo marginalizzati diventano quindi luoghi di contestazione e creazione al contempo.
La rottura si incarna dunque nei modi di fare, nell’immaginario politico nuovo creato dai cittadini in lotta, a partire dal quale emergono nuove relazioni sociali che possono essere, come negli esempi citati precedentemente, basate su una concezione e una pratica di potere che si contraddistinguono per la propria autonomia rispetto al potere istituzionale classico.
In questa concezione della rottura, la parola potere cambia significato, non è più qualcosa da prendere ma qualcosa che si crea ogni giorno attraverso la lotta e la resistenza.
Giovani alla ricerca di giustizia
I giovani tra i 15 e i 25 anni dei quartieri popolari che occupano oggi lo spazio politico e mediatico per dire “No” al regimo economico e politico tunisino che distrugge le loro speranze e maltratta i loro corpi sono nutriti da questo immaginario politico di rottura dove i cittadini sono i protagonisti, i soggetti del loro destino.
Quando dicono “No” a una politica che li aggredisce e a uno stato che li mantiene nella miseria sociale e che mette in pericolo le loro vite, la loro consapevolezza politica è prima di tutto fisica. Ogni “No” che oppongono al potere è una nuova crepa che, aggiungendosi alle precedenti, alimenta la fiamma della dignità e di quella rottura che è stata costruita nella lunga durata, diventando apertura e creazione di un potere di tipo nuovo.
È la potenza insospettabile dei fragili che permette loro di esistere nonostante i tentativi dei governanti di negare le loro soggettività e il loro posto nella produzione del comune – tentando di escluderli minuziosamente e metodicamente dalla storia. Il potere dei giovani dei quartieri popolari è di un altro tipo, non è basato sulle risorse o le qualifiche ma è radicato nelle relazioni sociali locali e in un destino comune ai margini, un’interdipendenza non concentrata al vertice ma potenzialmente distribuita ovunque, in tutti i territori fisici, politici e simbolici che prima erano emarginati e/o confiscati.
La rottura non è solamente con lo stato ma con altre forme d’autorità che dettano ai giovani cosa dovrebbero fare e come dovrebbero farlo. Questa rottura non è solamente con i governi che si sono susseguiti ma anche con i partiti politici, i media dominanti e i presunti esperti politici.
Repressione e logiche autoritarie
Dieci anni dopo la caduta di Ben Ali, la risposta quanto meno paradossale della “giovane democrazia” tunisina acclamata dal mondo intero a questa protesta politica dei più giovani e dei più fragili della società tunisina è quella di usare una repressione poliziesca destinata a far passare ai giovani e a tutti quanti la voglia non solo di resistere ma anche di vivere, facendo però finta che gli individui siano liberi e che le loro rivendicazioni siano legittime.
Quando il governo tunisino e le élite economiche e mediatiche che lo sostengono tentano di descrivere questa strategia d’autodifesa dei giovani come delle forme di teppismo, d’illegalità, di violazione della proprietà privata, ecc. o quando un dirigente del partito più importante del paese, Ennahda, chiama alla formazione di milizie per proteggere la nazione, la logica securitaria ha un solo obiettivo: distruggere i soggetti politici in lotta. L’obiettivo è fare paura, segnare i corpi di coloro che si oppongono.
Ora, queste élite al potere hanno sottovalutato l’immunità collettiva creata in svariati decenni di lotta contro i corpi di un regime repressivo. Dimenticano che il 14 gennaio 2011, per questi figli della rivoluzione, è la data della conversione dell’esperienza della paura in una prima esperienza del politico, che rende impossibile la sottomissione e vitale l’autodifesa nel momento in cui la vita viene resa così invivibile da essere ridotta a sopravvivenza.
Così, in questo contesto politico, economico e pandemico dove tutto contribuisce a impedire ai dominati, ai più fragili, di agire, i giovani dei quartieri popolari tunisini fanno fronte comune facendosi corpo comune, creando un “Noi” politico. Questi giovani ricordano che l’emarginazione non è una fatalità, sostengono collettivamente la loro forza e, soprattutto, dimostrano brillantemente che la dignità non può essere offerta da un semplice gioco elettorale – non può che essere conquistata – e offrono così ancora una volta una nuova opportunità di rianimazione vitale del corpo politico.
Questi giovani – che hanno idee e sogni per sé stessi e per il mondo – ci spiegano con i loro corpi, che affrontano con coraggio la violenza della repressione poliziesca, che le rivoluzioni e i movimenti sociali non possono misurarsi con i criteri del successo o del fallimento. Non si tratta solamente di vincere una lotta ma di un processo rivoluzionario che, prendendo come punto di partenza la dignità dei rivoltosi, poco importa come, quando e dove si svolge, trasforma per sempre il modo in cui questi giovani, gli attori principali dell’avvenire della Tunisia, percepiscono sé stessi, affrontano le relazioni con gli altri e costruiscono la società nella quale aspirano a vivere.