La puntata di Report andata in onda su Rai 3 lo scorso 27 aprile ha riacceso i riflettori sulla sanità veneta nella gestione della pandemia in corso.
Il quadro che emerge dalla puntata di Report è quello di un pericolosissimo gioco necro-politico andato in onda per mesi alle spalle della cittadinanza tutta. I casi di Veneto e Sicilia, pure diversi nel metodo, presentano una preoccupante costante nel metodo: la salvaguardia dell’indotto economico a fronte di un’emergenza sanitaria inaudita. Lo testimonia chiaramente la curva dei decessi in Veneto durante la seconda ondata: +2000 rispetto alla media italiana. Sono le cifre di un enorme fallimento, sono la plastica dimostrazione dell’insufficienza delle misure messe in atto per arginare i contagi. Il gioco del semaforo, il toto-zona che periodicamente andava in onda, si è rivelato un’arena su cui dare battaglia politica a colpi di dati non trasmessi, di dati spalmati, di dati falsati. Il tutto non per garantire la salute della popolazione, ma per evitare al governo la scomodità di stanziare sostegni.
Guardando l’inchiesta di Report è possibile guardarsi indietro e riconoscere che qualcosa si poteva fare. Che migliaia di morti potevano essere evitate, e che ci sono dei responsabili, nomi e cognomi, corpi e menti che a tavolino hanno scelto se e come farci vivere o morire negli ultimi mesi.
Prima di addentrarci in alcuni commenti, è necessario fare una premessa politica. Sono diversi mesi infatti che i movimenti sociali indicano chiaramente le responsabilità dirette della Giunta Zaia nell’enorme numero di morti. Responsabilità che vengono da lontano e che non riguardano solamente le scelte sbagliate fatte da febbraio 2020 in avanti. È palese a tutti che quel grande bluff chiamato “modello Veneto”, che ha permesso a Luca Zaia di rivincere le elezioni regionali con una “maggioranza bulgara”, già a ottobre manifestava apertamente i suoi tarli, con i dati di morti e contagi che scalavano rapidamente le tristi classifiche nazionali.
Ma è necessario guardarsi indietro per comprendere il perché di questi tarli. Guardare ad esempio ad Azienda Zero – cuore nevralgico della governance sanitaria regionale e sanzionata dai centri sociali del nord-est lo scorso 13 novembre – e al suo chiarissimo mandato economico, quello di gestire la quota del Fondo sanitario che ogni anno la Regione non distribuisce alle aziende locali, ma tiene da parte per risanare il bilancio. Modalità che toglie di fatto ai servizi sanitari di prossimità la possibilità di svolgere al meglio attività di prevenzione. Una gestione, tra l’altro, sottratta completamente a qualsiasi forma di controllo democratico: Azienda Zero è totalmente in mano al suo “direttore generale”, il quale nomina tutti gli altri organi aziendali ed a sua volta è nominato direttamente dal Presidente della Regione.
Insomma è la longa mano di Zaia, che l’ha creata e plasmata a immagine e somiglianza di un’idea prettamente neo-liberale di efficienza e di “eccellenza”, guarda caso basata su pochi poli ospedalieri la cui capienza è definita a partire dalle necessità di malattie croniche e di esigenze di una popolazione anziana. Da quando Azienda Zero esiste, la sanità pubblica in Veneto ha perso un quinto dei 17.879 posti che erano disponibili nel 2002, a tutto vantaggio di quelli nelle cliniche private (+16,2%).
In generale il progetto di Zaia sulla sanità è da molti anni quello di destrutturare l’integrazione territoriale dei servizi sanitari e di dare vita ad un sistema in cui si trovano da una parte aziende sanitarie locali e dall’altra ospedali-azienda che non comunicano tra loro, spostando la priorità dalla salute di un territorio al bilancio di un’azienda. Ricordiamo che nell’ultimo piano sociosanitario regionale per il quadriennio 2019-2023 si prevede addirittura di far gestire i pazienti anziani cronici complessi a équipes del privato convenzionato.
Fatta questa premessa, ci approcciamo a quanto emerso nella video-inchiesta di Report, curata da Danilo Procaccianti, con uno sguardo meno stupito. Sono tre i macro-temi affrontati dall’inchiesta: l’esistenza di studio sull’inefficacia dei tamponi-rapidi, il “caso-limite” dell’ospedale di Montebelluna e il fallimento dei tracciamenti.
La prima parte del servizio, che ha avuto come testimone principale il microbiologo Andrea Crisanti, ideatore del cosiddetto modello Vo’ e successivamente scaricato da Zaia per divergenze mai chiarite pubblicamente. Crisanti ha apertamente parlato di uno studio, commissionato proprio dalla Regione, che dimostrava come in 3 casi su 10 i test rapidi non intercettassero i positivi. L’esempio riportato riguardava 3 ipotetici operatori di Rsa falsi negativi che con facilità avrebbero potuto infettare decini di anziani ospitati in una casa di riposo, pur sottoponendosi a tamponi rapidi ogni quattro giorni.
A detta di Crisanti, questo ha favorito l’emergere di vasti focolai, con il conseguente incremento esponenziale di ricoveri e morti che si è avuto tra la fine dell’autunno e l’inizio dell’inverno. Il direttore sanitario regionale Luciano Flor si è difeso goffamente dicendo che lo studio non sarebbe mai stato ufficiale, ma per molte voci si è trattato di una vera e propria occultazione mirata. Secondo quanto emerso dalla video-inchiesta, sarebbe stata proprio questa la ragione dell’allontanamento di Crisanti e delle sue prese di distanza dalle scelte operate dalla Regione.
Per le dichiarazioni rilasciate su questo tema Andrea Crisanti è indagato per diffamazione e il fascicolo è stato aperto all’inizio di marzo dalla Procura di Padova su segnalazione del direttore generale di Azienda Zero, Roberto Toniolo. Guarda caso, la notizia viene divulgata meno di 48 ore dopo la trasmissione di Report. Una vera e propria vendetta da parte di Azienda Zero e del gruppo dirigente regionale, evidentemente infastidito del “danno d’immagine” procurato dalle varie esternazioni di Crisanti, tant’è vero che il fascicolo presentato da Toniolo in Procura contiene ben 15 pagine in cui sono allegate le fotocopie di decine di articoli di stampa e agenzie in cui Crisanti denunciava le misure inadeguate adottate per contrastare il diffondersi della pandemia da ottobre a febbraio.
Uno dei grafici mostrati nella puntata di Report, in cui emerge chiaramente il picco di mortalità in Veneto durante la seconda ondata
La seconda parte ha riguardato un focus sulla provincia di Treviso, e in particolare sul “caso” dell’ospedale Covid San Valentino di Montebelluna, diventato lo scorso inverno il secondo nosocomio della regione, dietro solo all’Azienda Ospedaliera di Padova, per numero di degenti contagiati e ospitati nei reparti non critici. L’ospedale è stato anche oggetto di un’ispezione ministeriale avvenuta lo scorso 17 dicembre, in seguito alla decina di denunce relative a una situazione estremamente drammatica: obitorio sovraccarico, personale ampiamente sotto organico e costretto a turni massacranti, una sessantina di operatori sanitari contagiati, lettere interne inviate dai reparti di Pneumologia, Medicina Generale e Rianimazione alla direzione dell’Usl 2 rimaste senza risposta.
La principale voce narrante di questo secondo asse tematico è la consigliera regionale del Pd Laura Puppato, già sindaca di Montebelluna, che lo scorso 14 dicembre – in piena emergenza – aveva organizzato un incontro di protesta davanti all’ospedale e avanzato la richiesta al sindaco Elzo Severin di un consiglio comunale straordinario che discutesse della gravità della situazione; richiesta mai accolta.
All’ex senatrice si è unito un coro di alcuni medici che ha denunciato anche “ritorsioni serie per chi ha osato esporsi mediaticamente”, come dice una voce ignota al telefono con Procaccianti. Una delle cose più sospette è che al momento dell’indagine del 17 dicembre, il San Valentino è apparso stranamente ordinato, con un improvviso arrivo di personale e un calo netto dei ricoveri. Allo stesso tempo è apparso molto sospetto il fatto che ci sia stata un’oggettiva impossibilità per gli ispettori di ottenere chiarimenti per l’indisponibilità dei “referenti regionali”. Stranezze che attualmente sono all’esame della magistratura.
Terzo e ultimo focus trattato da Procaccianti è stato quello sul tracciamento di positivi e sintomatici e sulle anomalie nella gestione dei dati, che hanno direttamente inciso sull’Rt della Regione e – di conseguenza – sulla fascia di colore attribuitale. Ricordiamo bene lo stupore per il fatto che il Veneto fosse rimasto stabilmente in zona gialla fino alle chiusure natalizie, nonostante le terapie intensive intasate da settimane. Lo stesso governatore aveva parlato, in più di una conferenza stampa, di una percentuale di asintomatici pari al 95%, dato apparso poco veritiero fin da subito.
Nella video-inchiesta alcuni operatori sanitari hanno raccontato che nelle schede da seguire durante il tracciamento, avrebbero trovata precompilata la voce “non sintomatico”. Dichiarazioni che avvalorano la tesi di una falsificazione dei dati pensata e voluta proprio dai vertici regionali.
Veneto: una dipendente dell’ufficio prevenzione racconta in esclusiva che nel mese di novembre che spesso digitando i nominativi dei positivi compariva la voce “asintomatico”, voce che avrebbe dovuto essere inserita dall’operatore stesso e non comparire di default pic.twitter.com/mSh1ZvFL8C
— Report (@reportrai3) April 26, 2021
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Lo stesso conduttore di Report Sigfrido Ranucci trae le sue conclusioni nel finale di puntata, parlando di una “sfida a braccio di ferro tra chi ha l’esigenza di difendere l’imprenditoria e le imprese e chi vuole tutelare i più fragili”. Ed è chiaro da che parte siano state le scelte di Luca Zaia e dell’intera governance regionale, che per proteggere il profitto – di pochi – sono sconfinate nella necropolitica. Scelte che non ci stupiscono, fatte da una classe dirigente che ha da sempre anteposto “i schei” alla salute nella gestione del territorio: basti pensare alla negligenza (o connivenza) mostrata con il “caso Miteni”, che ha inquinato di Pfas gran parte delle falde acquifere della regione, alle scelte fatte sull’incenerimento dei rifiuti, alle grandi opere infrastrutturali, ultima delle quali la Superstrada Pedemontana Veneta S.p.A, che vedrà aprire i battenti a maggio nel tratto Montebelluna-Bassano.
Un’ultima considerazione va fatta sull’informazione e sul giornalismo. Dall’inizio della pandemia il governatore Zaia ha utilizzato la stampa locale come agenzie di stampa personali: nessuna voce critica, nessuna inchiesta giornalistica degna di chiamarsi con tale nome, quantomeno fino alla puntata di Report di martedì scorso. In questo citiamo testualmente un post su facebook scritto dal giornalista del Corriere del Veneto Davide D’Attino: «forse non serviva aspettare il bravo collega siciliano Danilo Procaccianti per “scoprire” e raccontare certe vicende. Bastava, infatti, che anche noi giornalisti “locali” (sottoscritto compreso) trovassimo un po’ di coraggio per fare semplicemente il nostro lavoro. Ma invece, senza battere ciglio, abbiamo tollerato che si desse sprezzantemente dello “zanzarologo” (il riferimento è alle dichiarazioni fatte alcuni mesi fa dal virologo Giorgio Palù, presidente di Aifa e molto vicino a Zaia, ndr) a chi, negli ultimi quattordici mesi, non ne ha sbagliata una».
Per cambiare l’inerzia degli eventi bisogna sapersi schierare, parteggiare senza troppi tatticismi. Un coraggio che è completamente mancato al giornalismo locale, ma non solo. Anche il Rettore dell’Università di Padova Rosario Rizzuto è mancato questo coraggio, o forse si è trattata di una scelta ben ponderata; fatto sta che ha continuato a fare il Ponzio Pilato tra Crisanti e Zaia, cercando di ricucire l’irricucibile e senza assolvere a quella che dovrebbe essere la prerogativa di un’Università: mettere la ricerca al servizio del bene comune e non di equilibrismi di bottega.