L’alba del nuovo anno di ventisette anni fa ci sorprese con una notizia incredibile. Ancora frastornati dai festeggiamenti, ci svegliammo con le immagini provenienti da San Cristóbal de las Casas, nello stato più povero del Messico, il Chiapas, dove piccoli uomini di mais che non conoscevamo, che non esistevano, si erano sollevati in armi contro i potenti della terra, con pochi fucili, qualche bastone e machete e con molte parole. Dissero di essere indigeni zapatisti, orgogliosi discendenti delle popolazioni maya e fieri prosecutori dell’opera rivoluzionaria di Emiliano Zapata. Al grido di “democracia, justicia, libertad”, dopo dieci lunghi anni di preparazione nella clandestinità, uscivano allo scoperto, coi volti coperti da passamontagna per farsi vedere, dichiarando guerra all’oblio e allo sfruttamento a cui erano stati costretti e incatenati dalla conquista spagnola in avanti.
La storia di quei giorni epici e degli anni successivi, ormai la conosciamo bene grazie ai libri, ai saggi, agli articoli che ne hanno raccontato le gesta, ma soprattutto grazie ai comunicati che lo stesso movimento zapatista ha reso pubblici, prima a firma del fu Subcomandante Marcos e, in tempi più recenti, a firma dei Subcomandanti Moisés e Galeano, ma sempre comunque espressione della volontà comunitaria. Di questa incredibile storia di rabbia degna da un po’ di tempo non se ne parla più con lo stupore e l’ammirazione che invece meriterebbe. Negli ultimi anni c’è stato chi ha detto che gli zapatisti non esistono più, qualcun altro che si sono venduti, altri ancora che nei loro territori stanno peggio di 27 anni fa, altri infine che questo movimento è stato solo un’illusione.
Noi che da più di cinque lustri camminiamo domandando assieme a loro, sappiamo bene che non è così. Conosciamo bene l’incredibile capacità di questi piccoli uomini di mais di resistere a repressione e guerra a bassa intensità – che mai hanno abbandonato quelle terre – e di rispondere colpo su colpo ai potenti del malgoverno, siano essi “capataz” violenti e criminali o siano essi “capataz” più moderati ma non per questo meno pericolosi. Conosciamo bene la capacità di tradurre in fatti concreti quanto proclamato nei loro comunicati. Conosciamo bene tutto questo perché quelle terre assediate ma libere dove gli zapatisti hanno costruito autonomia, giustizia e dignità, le abbiamo calpestate infangandoci gli stivali, condividendo pozol e café de olla, huevos e sopitas, sogni e utopie. Con umiltà ci siamo messi in ascolto, abbiamo imparato a camminare domandando, osservato e accompagnato la crescita di un movimento guerrigliero capace di sorprendere tutti, capace di disinteressarsi al Palazzo d’Inverno e di costruire realmente altro potere: quello delle comunità per le comunità che insieme si auto sostengono e costruiscono il proprio futuro senza servi né padroni.
Qualche anno fa, durante un festival internazionale l’allora tenente colonnello Moisés e il fu Subcomandante Marcos spiegarono che «la concezione iniziale dell’EZLN era quella tradizionale dei movimenti di liberazione dell’America Latina: un piccolo gruppo di illuminati che si alza in armi contro il governo. Successe però che questo progetto fu sconfitto quando ci confrontammo con le comunità e ci rendemmo conto non solo che non ci capivano ma che la loro proposta era migliore. Non stavamo insegnando a nessuno a resistere. Ci stavamo convertendo in alunni di questa scuola di resistenza di chi lo faceva da cinque secoli. Da un movimento che pianificava di servirsi delle masse, dei proletari, dei contadini, degli studenti, per arrivare al potere e dirigerlo, ci stavamo convertendo, gradualmente, in un esercito che doveva servire le comunità».
Oggi, grazie a questa visione, il movimento zapatista è più forte e organizzato che mai. L’esercito, già molti anni fa, ha saputo mettersi da parte e servire le comunità garantendone esclusivamente la sicurezza, mentre le generazioni successive ai primi “insurgentes” hanno preso in mano la gestione dei territori ribelli e autonomi e sono coloro che concretamente amministrano le comunità stesse, dalla salute all’educazione, dalla giustizia al lavoro comunitario, dimostrando che questo movimento ha un futuro lungo e prospero davanti a sé e che non sarà il nuovo accerchiamento militare promosso dal presidente progressista López Obrador, a porre fine a questa esperienza radicata e radicale.
Giovani, giovanissimi, molti dei quali nati dopo il 1° gennaio 1994, tutti cresciuti en rebeldìa, oggi sono dunque “promotori di salute”, “promotori di educazione” o membri delle Juntas del Buen Gobierno. Sono loro, in maggioranza mujeres rebeldes, che la prossima primavera attraverseranno il “grande charco” per arrivare fin qui, nel vecchio continente, per “incontrare ciò che ci rende uguali” ai tanti e alle tante che in questa geografia lottano contro il sistema capitalista. Perché, come annunciato nel comunicato di lancio di questa avventura, “Una montagna in alto mare”, «bisogna riprendere le strade, sì, ma per lottare. Perché, come abbiamo detto prima, la vita, la lotta per la vita, non è una questione individuale, ma collettiva. Ora si vede che non è neppure una questione di nazionalità, è mondiale».
Senza dubbio per realizzare questa nuova impresa sarà necessario superare molti ostacoli, burocratici, economici e logistici, ma la scommessa zapatista, è qualcosa di più del “vediamo se riusciamo ad arrivare in Europa”. È una scommessa che parla di rete di relazioni, di intrecciare resistenze e ribellioni anticapitaliste, antirazziste e antipatriarcali. È una scommessa che parla al cuore di chi non si rassegna a veder precipitare il nostro mondo verso l’abisso, a chi crede, come dicono gli zapatisti, che vivere significhi lottare. È una scommessa che ha già trovato pronti moltissimi collettivi, organizzazioni e singoli italiani ed europei che in queste ultime settimane si sono attivati e incontrati virtualmente per accogliere la delegazione zapatista. Una scommessa che spetta anche a noi tutte e tutti far diventare realtà facendo diventare l’arrivo degli zapatisti il motore di nuove resistenze, di nuove ribellioni e di nuovi mondi.
L’alba di un nuovo anno sta arrivando. Un anno che sarà migliore di quello precedente solo se lo affronteremo vivendo, vale a dire lottando. Ora è tempo di celebrare un nuovo anniversario del “levantamiento” con l’emozione con cui si guarda sempre ai ricordi del passato, ma con lo sguardo e i cuori rivolti al futuro, a quel futuro che vogliamo fortissimamente costruire insieme la prossima estate. La scommessa è lanciata. Chi accetta la sfida?