di Giovanni Iozzoli
Luigi Romano, La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane, Monitor Edizioni, Napoli 2021, pp. 77, € 8,00
“Entro le 15,30 in tuta operativa tutti in Istituto. Si deve chiudere il reparto Nilo per sempre, ù tiemp re buon azioni e’ fernut. W la Polizia Penitenziaria”.
“Ok. Domate il bestiame”.
“La mattanza della Settimana Santa”.
Se le immagini del massacro di Santa Maria Capua Vetere hanno giustamente provocato un impatto forte sull’opinione pubblica – anche perchè inedite, nella loro sconvolgente evidenza –, la messaggistica interna tra le guardie risulta altrettanto potente ed esplicita. Pochi bit che raccontano un mondo nascosto, normalmente sottratto allo sguardo della “pubblica opinione” e improvvisamente rivelato nella sua vergognosa nudità. A parlare, in quei messaggi, non sono aguzzini professionali: solo i normali “padri di famiglia” in divisa, che sentono come legittimo e connaturato al loro ruolo, l’esercizio della violenza organizzata e impunita.
La mattina del 6 aprile 2020, con il paese in lockdown e 13 morti freschi per le rivolte di marzo in diversi istituti italiani, un commando di centinaia di agenti irrompe nel reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere, con il pretesto ufficiale di una operazione di perquisizione generale delle celle, mettendo in atto una mattanza che passerà alla storia, contro decine di detenuti inermi. L’autore, con pochi tocchi, senza retorica, lasciando parlare i resoconti giudiziari e le testimonianze raccolte nel corso del suo lavoro di avvocato, rovescia sul lettore tutta la forza del racconto di questa rappresaglia: denti, costole e teste rotte, una umiliazione reiterata sui corpi per spezzare gli spiriti. E’ un’operazione a freddo, costruita a “bocce ferme”, ragionata e pianificata: all’Istituto Francesco Uccella nei giorni precedenti non c’era stata alcuna “rivolta”, solo qualche elemento di insubordinazione, assolutamente pacifico e rientrato in 24 ore, da parte di detenuti terrorizzati dalle notizie dei primi contagi in carcere; una protesta civile che rivendicava un diritto, evidentemente ritenuto un lusso inadeguato per dei detenuti: tamponi e mascherine per tutti, ricoveri in ospedale per i malati.
E’ qui che nasce la decisione di reagire con spropositata fermezza: non il tentativo di prevenire il fantasma della rivolta, ma la volontà di piegare i detenuti, mortificarne la volontà, ricondurli al loro ruolo di sotto-uomini, indegni di occuparsi persino della propria vita, della propria salute, indegni del diritto alla presa di parola collettiva – colpa, quest’ultima, ritenuta addirittura più pericolosa delle vere e proprie rivolte. Il massacro è “ferino” – come giustamente lo descrive l’autore. Ad una macchina collettiva evidentemente ben oliata – personale ordinario e squadre speciali costituite ad hoc dal Provveditore regionale -, si unisce la frustrazione e il sadismo di singole guardie che, nelle immagini trasmesse a reti unificate, eccedono persino al loro mandato: segno che la divisa, il filo spinato e il potere di vita e di morte su un detenuto, possono trascinare chiunque nella logica del lager, qualora le circostanze lo richiedano.
“Lo spettacolo della punizione, il dispositivo pornografico intorno al supplizio, si attivarono più di un anno dopo, con la pubblicazione delle immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza dell’Istituto. Quei video ribaltavano l’ordine della percezione: dalla totale indifferenza a una curiosità quasi morbosa. Quando gli urti dei manganelli cominciarono a rimbalzare da un canale all’altro, da un sito all’altro, il paese sembrò accorgersi per la prima volta dei problemi del mondo penitenziario e del livello di violenza che aveva investito gli istituti di pena durante la prima fase dell’emergenza sanitaria.” (pag.8)
La visita di Draghi e della ministra Cartabia, il 14 luglio, presso l’Istituto Francesco Uccella, evocò l’idea di un tardivo e pomposo esorcismo. Si volle dare all’opinione pubblica l’idea di trovarsi davanti ad una tale eccezionalità, da giustificare la mobilitazione straordinaria dell’esecutivo. Si volle comunicare sgomento, presa di distanza, rammarico e il solenne impegno all’umanizzazione del pianeta carcere. Il messaggio per le platee televisive era chiaro: negli istituti di pena italiani non erano mai accadute cose del genere e mai più sarebbero accadute. Naturalmente, la storia dei circuiti carcerari italiani racconta la versione esattamente opposta: il sistema si fonda sulla violenza quotidiana, continua, sistemica, mirante alla sottomissione del detenuto; o sulla rappresaglia – militare o burocratica – come naturale esercizio di potere. Santa Maria Capua Vetere non è una sfortunata eccezione – un corto circuito di “abusi e soprusi”, come ipocritamente lascia intendere Draghi (ben sapendo che la violenza è arrivata da una parte sola): Santa Maria Capua Vetere è eccezione solo nel senso che alcuni meccanismi di autotutela e copertura dell’istituzione, in quel contesto, non hanno funzionato.
Come è stato possibile, che il carcere, luogo chiuso e separato per eccellenza, si mostrasse esposto in tutta la sua scandalosa essenza? Alcune anomalie lo hanno permesso. Forte della sua internità all’inchiesta, l’autore le enumera tutte: un magistrato di sorveglianza che fa il suo lavoro, mettendosi contro l’amministrazione, le divise e le consolidate omertà interistituzionali; il coraggio di detenuti minacciati di morte eppure indisponibili al silenzio; la mancanza di discrezione e metodo nella gestione del massacro – evidente segno di impunità –; fino alla fatale dimenticanza che lascia attivate le telecamere interne. Insomma, l’anomalia del massacro della Settimana Santa va ricercata nel normale funzionamento dei meccanismi di tutela dei detenuti – magistrati e videosorveglianza – che, ordinariamente, non tutelano un bel niente. Quindi è la “normalità”, ad essere anomala, straordinaria, in grado di produrre il terremotogiudiziario e mass mediatico che ha sconvolto il Francesco Uccella. Bastonare i detenuti come deterrenza, creare situazioni di finta tensione per esercitare rappresaglia e vittimismo di corpo; spostare la gestione di un carcere sul piano militare, sussumendo in questa dinamica il personale direttivo civile – anche quello amministrativo e medico, purtroppo sempre complice: questa è la normalità italiana.
L’autore rimarca un altro elemento di riflessione importante: è vero, in un certo senso, che tra le mura di un carcere, tutti – anche il personale di custodia – sono in galera, con la pesantezza e i condizionamenti propri dell’istituzione totale per eccellenza; però non bisogna mai dimenticare che detenuti e secondini vivono questa condizione di sofferenza in modalità molto differente. Il carcere si rivela irrimediabilmente come luogo “conteso”, in cui ora dopo ora, metro dopo metro, si misura un rapporto di forza tra due parti. Ad esempio: le celle aperte in sezione sono provvidenziali per non impazzire, ma rappresentano un carico di stress e lavoro in più per le guardie (con qualche paradossale elemento di rivendicazionismo sindacale da parte di queste ultime, che vedono in ogni elemento di umanizzazione della struttura, un surplus di “prestazione lavorativa”). Quindi, l’ideologia un po’ melensa del “siamo tutti sulla stessa barca” viene mostrata in tutta la sua contraddittorietà: un istituto di pena non è mai una comunità di eguali e la rivolta è spesso stata, nella storia italiana, l’unico linguaggio consentito ai prigionieri.
Quello che viene dalle carceri italiane, almeno per chi ha voglia di recepirla, è una lezione che parla all’intera società: il dentro e fuori sono solo illusioni ottiche prodotte da muraglioni e filo spinato. L’Italia ha un problema storico con i suoi corpi armati: non solo con quelli preposti alla custodia in carcere, ma anche con le altre “forze di polizia”. Le sirene golpiste del passato, gli abusi in divisa del presente, sono un gigantesco promemoria per un paese che finge normalità civile e costituzionale, salvo scoprire, periodicamente, che alcune decine di migliaia di uomini armati, appartenenti a corpi diversi, possono in qualsiasi momento sospendere le garanzie costituzionali, in questo o quel contesto sociale, il più delle volte senza subirne le conseguenze. Quando si legge del tentativo orchestrato goffamente a Santa Maria Capua Vetere di inventare a tavolino un piano di rivolta “sventato dal provvidenziale intervento del personale operativo”, non possono non tornare in mente le molotov confezionate alla Diaz e tutto il campionario gaglioffo di alibi e bugie (vedi i referti medici falsi) che spesso le forze di polizie sanno mettere in campo. Il carcere è solo lo specchio deformato del normale ordine sociale.
Un libro prezioso, che si legge in un fiato, scritto da un avvocato e dirigente di Antigone – quindi con il massimo di competenza e internità possibile -, che contribuirà a tenere aperta una ferita che troppi, a quasi due anni dalle rivolte e dalle stragi, vorrebbero frettolosamente chiudere. Non può esserci oblio, su quello che è accaduto nelle galere italiane in quei due drammatici mesi di primavera; non deve esserci normalizzazione, in assenza di Verità e Giustizia. Né è possibile dimenticare la quantità di morte, alienazione, disagio psichico e malattia, che il sistema dell’esecuzione penale in Italia continua a riprodurre, qui e ora, quotidianamente, con costi umani e sociali altissimi. Ecco: i libri come questo, ci ricordano che i morti non sono statistiche e i detenuti non sono numeri di matricola.