“La terribilità dell’Africa è la sua solitudine”: gli “Appunti per un’Orestiade africana” di Pasolini

di Paolo Lago

Gli Appunti per un’Orestiade africana (1969) sono l’unico episodio realizzato del film Appunti per un poema sul Terzo Mondo al cui interno avrebbero dovuto sostituire il precedente progetto de Il padre selvaggio. Lo afferma lo stesso Pasolini in una intervista rilasciata a Lino Peroni nel 1968:

Il prossimo film che farò si intitolerà “Appunti per un poema sul Terzo Mondo” e comprenderà quattro o cinque episodi e uno di questi si svolgerà in Africa e sarà “Il padre selvaggio”; però non ne sono certo. Può darsi che anziché fare “Il padre selvaggio” faccia un altro film che mi è venuto in mente, sempre però su questa linea, cioè una “Orestiade” ambientata in Africa. Ricreerei delle analogie, per quanto arbitrarie e poetiche, e in parte irrazionali, tra il mondo arcaico greco, in cui appare Atena che dà, attraverso Oreste, le prime istituzioni democratiche, e l’Africa moderna. Quindi Oreste sarebbe un giovane negro, mettiamo Cassius Clay (pensavo a lui come protagonista), che ripete la tragedia di Oreste. Comunque sia, che si tratti di un film su “Il padre selvaggio” o sull’”Orestiade”, in ogni caso non sarà fatto come un vero e proprio film, ma come un «film da farsi» (P.P. Pasolini, “Per il cinema”, a cura di W. Siti e F. Zabagli, vol. II, Mondadori, Milano, 200, p. 2935-2936).

Gli Appunti per un’Orestiade africana, secondo la definizione dell’autore e come si può evincere dal titolo, si presentano come un «film da farsi», come degli «appunti». Il gusto per il non finito e per la forma-progetto si ritrova sovente nell’ultimo Pasolini: basti ricordare gli Appunti per un film sull’India, o la forma volutamente frammentaria e incompiuta de La divina Mimesis e di Petrolio.

Il titolo «appunti» (che avrebbe connotato anche il film di cui l’«Orestiade africana» avrebbe fatto parte) bene si riflette nella forma stessa dell’opera. Quest’ultima si presenta infatti come una sorta di diario scritto durante un sopralluogo in diversi paesi africani. Fin dall’incipit è molto forte la dimensione personale dell’autore, come in un diario di viaggio: Pasolini si presenta allo spettatore mentre si specchia «con la macchina da presa nella vetrina del negozio di una città africana»1. Tutto il film è del resto costruito come un viaggio attraverso diversi paesi africani e il suo nucleo centrale è determinato dalla dinamica dell’incontro. Il regista e la troupe incontrano svariate persone, animali, luoghi, paesaggi: ognuno di questi incontri è focalizzato dalla voce narrante di Pasolini come un possibile risvolto narrativo per la sua progettata Orestiade africana. In ognuno di essi si cela la possibilità di iniziare o continuare la narrazione. Nel film i diversi incontri si presentano come una grande fucina di storie che aspettano soltanto il tocco finale dell’autore per librarsi in una futura, potenziale pellicola cinematografica. Pasolini, infatti, per mezzo del progetto dell’Orestiade africana, compie quella che, secondo l’analisi di Roman Jakobson, si presenta come una «traduzione intersemiotica», la quale «consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di segni non linguistici»2.

Gli Appunti per un’Orestiade africana presentano dunque il progetto cinematografico della trasposizione della trilogia di Eschilo nell’Africa contemporanea. Del resto, elementi che rimandavano all’Africa erano già presenti nella messa in scena dell’Orestiade (la traduzione pasoliniana dell’Orestea di Eschilo del 1960) realizzata da Gassman e Lucignani: la scenografia realizzata da Theo Otto proponeva diverse colonne totemistiche alle quali erano appesi trofei di caccia, teschi umani e grandi maschere di bronzo dorato. Anche il film, come la traduzione, possiede una chiara impronta politica e sociale3: in esso infatti è inserito un dibattito tenuto da Pasolini con alcuni studenti africani di Roma nel quale l’autore spiega che il suo intento è quello di creare un’analogia tra i processi sociali descritti da Eschilo e il passaggio dell’Africa dalla cultura arcaica e tribale alla modernizzazione post-colonialista. Per questo, secondo Pasolini, è necessario retrodatare il film all’inizio degli anni Sessanta, quando il processo di modernizzazione si faceva sentire assai meno nei paesi africani. Nella prima parte è maggiormente presente l’impronta documentaristica, che ha il suo culmine nelle crude immagini di repertorio sulla guerra colonialistica del Biafra. Nei primi momenti del film, davanti alla macchina da presa di Pasolini scorrono i volti di possibili interpreti dei personaggi della trilogia, introdotti dalla voce del regista, appunto, con la formula potenziale «questo potrebbe essere». Interessante è la potenziale interprete del personaggio di Clitennestra, della quale non vediamo il volto, coperto da un velo, così introdotta: «Dietro questo sinistro velo nero si potrebbe nascondere la faccia di Clitennestra»4. Di fronte alla macchina da presa appare una figura dai risvolti inquietanti, col viso coperto da un velo nero, che si para dinanzi allo spettatore quasi come un’apparizione spettrale. Non è un caso che Pasolini definisca il velo che copre il viso di questa donna come «sinistro». Molto probabilmente, con questa possibile interprete, l’autore avrebbe sottolineato il carattere ‘oscuro’ dell’eroina tragica, legato al passato arcaico dominato dal terrore ancestrale delle Erinni, carattere che era stato evidenziato anche nella traduzione dell’Orestiade.

Per rappresentare le Erinni il regista sceglie di non utilizzare delle forme umane. Come afferma Pasolini con la sua voice over, esse potrebbero essere rappresentate con degli alberi o con l’immagine di una leonessa ferita:

Restano altri personaggi da ricercare: le Furie. Ma le Furie sono irrappresentabili sotto l’aspetto umano e quindi deciderei di rappresentarle sotto un aspetto non umano. Questi alberi, per esempio, perduti nel silenzio della foresta, mostruosi, in qualche modo, e terribili. La terribilità dell’Africa è la sua solitudine, le forme mostruose che vi può assumere la natura, i silenzi profondi e paurosi. L’irrazionalità è animale. Le Furie sono le dee del momento animale dell’uomo5.

Di centrale importanza, nel film, è la figura di Oreste, che viene rappresentato come un giovane alto che cammina verso la città, centro della ragione e del tempio di Apollo. Quest’ultimo, non a caso, è rappresentato dall’università di Dar es Salaam in Tanzania «che, vista da lontano, subito mostra inconfondibili segni di assomigliare alle tipiche università anglosassoni, neocapitalistiche»6. La macchina da presa inquadra il suo volto ieratico, caratterizzato dallo sguardo rivolto in avanti, unicamente concentrato – sembra – a seguire le istruzioni di Apollo. Il personaggio di Oreste, perciò, appare caratterizzato da una spinta irrefrenabile verso la verità che si esprime tramite un linguaggio connotato dal logos e dalla razionalità. A commentare il suo viaggio, Pasolini inserisce alcuni versi delle Eumenidi in cui Apollo lo incita a fuggire «anche oltre il mare, anche nelle città / circondate dall’acqua» (Ivi, p. 1189.)).

Negli Appunti per un’Orestiade africana, infatti, Pasolini inserisce dei brani dell’Orestiade, recitandoli egli stesso con una intonazione teatrale. Come ha osservato Antonio Costa, «la lettura che Pasolini fa, negli Appunti, di passi della sua traduzione dell’Orestiade, inseriti quasi senza soluzione di continuità nella trama del commento colloquiale e descrittivo alle immagini, possono dare un’idea di ciò che egli intendesse nel Manifesto per un nuovo teatro, per interprete che si fa “veicolo del testo stesso”»7. E, continua Costa, «c’è, quindi, nell’idea di teatro di Pasolini un’esigenza di recupero dell’oralità che costituisce il punto di contatto con l’esperienza cinematografica»8.

Risulta interessante il fatto che, tramite l’inserimento dei brani dell’Orestiade, Pasolini, oltre a recitare la sua traduzione, la mette in scena. Il traduttore, in veste di regista, mette in scena con una impronta personale gli stessi brani tragici che anni prima, sempre per mezzo di una impronta personale, aveva tradotto. La messa in scena, all’interno del film, non è più quella di Gassman e Lucignani, ma quella di Pasolini. Il poeta traduttore, divenuto regista, può così finalmente creare, per mezzo delle immagini e dei commenti, una sua Orestiade. Ad esempio, il brano recitato da Clitennestra, all’inizio dell’Agamennone, in cui la regina descrive i segnali di fuoco che annunciano la presa di Troia è commentato da alcune immagini che rappresentano fuochi e incendi in diversi territori africani. Alcuni brani dell’Orestiade vengono addirittura cantati in traduzione inglese, su musica di Gato Barbieri, in una session di free jazz da Yvonne Murray e Archie Savage, accompagnati dallo stesso Barbieri e dal suo gruppo. Sono le profezie di Cassandra nell’Agamennone ad essere messe in musica: in questo modo, all’interno della sala di registrazione di Roma, dove ora l’azione si è spostata, Pasolini conferisce una maggiore sottolineatura in chiave onirica e rituale alle parole della profetessa che già aveva tradotto con una impronta alogica e onirica.

Gli Appunti per un’Orestiade africana, perciò, rappresentano una conferma dell’impronta stilistica che Pasolini aveva conferito alla sua traduzione. Quest’ultima viene ‘rivitalizzata’ e messa in scena al cinema per mezzo di una «traduzione intersemiotica». Non è un caso, infatti, che in una poesia di Trasumanar e organizzar, Il Gracco, scritta (come la precedente, La nascita di un nuovo tipo di buffone) durante le riprese del film in Tanzania, Pasolini associ l’Orestiade a Jakobson e ai formalisti russi:

Ma Vitabu vidogo vitatu vinatosha, d’altronde.
Tre piccoli libri bastano (un’Orestiade – Jakobson –
un manoscritto di formalisti russi).
Ché, in Tanzania, ingenuamente al sicuro, dopotutto,
faccio anch’io del trionfalismo, nella mia umiltà9.

In questi versi – in cui, nella citazione di una frase in swahili (che significa «tre piccoli libri bastano»), si può riscontrare il gusto pasoliniano per il pastiche e la mescolanza linguistica – domina la marca dell’ironia. Una giocosa leggerezza sembra inoltre dominare i versi (la poesia che precede Il Gracco si intitola, non a caso, La nascita di un nuovo tipo di buffone), scritti parallelamente alla realizzazione degli Appunti. Nel film, la dimensione della leggerezza emerge soprattutto nelle immagini che mostrano la danza dei Wa-gogo. Si tratta di una allegra danza (che riprende antichi e seriosi gesti rituali) che Pasolini così descrive: «Ora, invece, come vedete, la gente Wa-gogo, negli stessi luoghi dove una volta faceva veramente sul serio queste cose, le ripete; le ripete, ma allegramente, per divertirsi, svuotando questi gesti, questi movimenti del loro antico significato sacro e rifacendoli quasi per pura allegria»10. Il poeta stesso, quasi come i Wa-gogo, trasformando in lieta e leggera la sua poesia, può gettare allegramente il suo manoscritto nel Lago Vittoria (dove sono state girate molte scene della parte iniziale del film) in una bottiglia di Coca Cola: «Getterò (a parole) questo manoscritto / nel Lago Vittoria, diciamo in una bottiglia di Coca Cola. Così sarà straordinariamente utile»11. Una leggerezza e una lietezza che, però, risuonano amaramente tragiche: la poesia, nella società neocapitalistica, si sta progressivamente trasformando in un truce e inquinante oggetto di consumo, come una bottiglia di Coca Cola lanciata in un lago africano. L’Occidente capitalista e consumista, fino a oggi, fino ai più recenti fatti di cronaca, non fa altro che deturpare e abbandonare a sé stessi l’Africa e gli africani.

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