Lo scorso 11 marzo Xi Jinpring è stato eletto per la terza volta Presidente della Repubblica Popolare cinese. È la prima volta dopo Mao Tse-Tung, che un presidente supera i due mandati. La rielezione di Xi, per quanto non abbia destato nessuna sorpresa, rafforza la leadership di un presidente che sta guidando la Cina in una fase cruciale per il suo futuro e per quello del mondo intero. Per questa ragione ci sono numerose sfide e questioni da affrontare, nel breve e nel lungo periodo. Ne abbiamo discusso con Simone Pieranni, fondatore fondato di China Files, agenzia editoriale con sede a Pechino, che abbiamo incontrato al Book Pride di Milano
Terzo mandato per XI Jinping. Quali sono le sfide nel breve, medio e lungo periodo che avrà di fronte?
Era un terzo mandato abbastanza telefonato, nel senso che si sapeva. Tant’è che la nomina è stata all’unanimità, non c’è stato neanche un voto contrario e neppure un astenuto. Un tempo si diceva voto bulgaro, adesso possiamo dire voto alla cinese. Posto che la carica di presidente della Repubblica Popolare conta molto meno di un capo delle forze armate, di segretario del partito, questa rielezione è propedeutica proprio alle sfide che la Cina deve affrontare nell’immediato e che probabilmente dureranno a lungo.
Prime tra queste, lo scontro tecnologico e in generale la guerra commerciale con gli Stati Uniti. Tant’è che negli ultimi anni abbiamo assistito a tutta una serie di riforme a livello istituzionale che hanno dato sempre più spazio al partito rispetto allo Stato. Sappiamo che in Cina lo Stato riceve sempre ordini dal partito, ma aveva avuto, soprattutto dopo il maoismo, un certo spazio di autonomia. Questo già ci dimostra quali sono le sfide, nel senso che Xi Jinping si è messo sostanzialmente sopra un apparato che da ora in avanti sarà più veloce nel dare tutta una serie di risposte, in particolare in campo internazionale.
Tornando alle sfide e allo scontro con gli Stati Uniti, queste vanno lette in quelle che i cinesi chiamano “tempeste internazionali”. Ora c’è la guerra in Ucraina, ma sappiamo che le aree di crisi, purtroppo sono tante nel mondo. E proprio nei giorni passati è arrivata la notizia di un accordo tra Arabia Saudita e Iran, gestito proprio da Pechino. Questo ci dà l’idea veramente di quanto il mondo stia cambiando e del fatto che la Cina vuole essere protagonista nel nuovo “ordine mondiale” che emergerà dopo la fine della guerra in Ucraina o comunque dopo un cessate il fuoco. E ci fa capire anche perché probabilmente il partito comunista ha fatto la scelta di avere una leadership così lunga: perché sa di poter contare nel lungo periodo su una classe dirigente che si è forgiata nel periodo in cui queste crisi si sono formate.
Approfondiamo la questione del protagonismo nello scacchiere internazionale. Nelle settimane scorse ha tenuto molto banco il cosiddetto piano dei dodici punti rispetto al conflitto tra Russia e Ucraina. Secondo te segnare in qualche modo un punto di svolta nella guerra e negli equilibri geopolitici.
Nella guerra non credo. Penso che i media occidentali abbiamo fatto un errore a ritenere che la Cina abbiano presentato un piano di pace: questo i cinesi non l’hanno mai detto. Il mondo occidentale si aspettava una road map, ma in qualche modo la Cina ha fatto capire, ben prima che uscisse il documento, che non sarebbe stato qualcosa del genere.
Si tratta invece di un documento programmatico su come la Cina si immagina che in futuro vada gestito l’ordine internazionale, senza più che ci sia una potenza – gli Stati Uniti – che decide un po’ tutto e fa da poliziotto della situazione. Il documento non era per l’Ucraina, perché la Cina vede questa come una guerra europea e non vuole averci troppo a che fare. Prima di tutto, ovviamente, vuole assicurarsi che la Russia non venga devastata da questa guerra, che non ci sia un regime change o che non ci sia il rischio che in Russia si crei improvvisamente un assetto politico filo americano, filo occidentale, anti cinese.
In più la Cina non vuole avere un protagonismo in questa guerra perché non può perdere la faccia all’interno di fantomatici negoziati che in questo momento non hanno alcuna ragione di essere. Come ben sappiamo, la Cina non può rischiare di porsi come mediatore e poi non arrivare a nessun risultato. Però quel documento va letto insieme ad altre cose che sono uscite, cioè il progetto di sicurezza globale e il discorso di XI Jinping sulla modernizzazione, nel quale sostiene che la modernizzazione in stile cinese è un modello per tutti i Paesi in via di sviluppo. La Cina sta parlando a quello che noi chiamiamo global soft, cioè il Sud globale. Sta dicendo a questi Paesi: “noi vogliamo garantire un ordine internazionale in cui non ci siano Paesi come gli Stati Uniti che ingeriscono all’interno dei vostri affari; per noi potete fare quello che volete dentro i vostri Paesi, purché sia garantita l’integrità territoriale.
In tutto questo, come si colloca la questione Taiwan?
Ovviamente la Cina ritiene che Taiwan sia sua, cioè che sia territorio cinese e quindi si muove di conseguenza. Io dico sempre che sono convinto che se nessuno parlasse di Taiwan non esisterebbe il problema di Taiwan. Quand’è che nasce la crisi di Taiwan? Quando c’è una visita di un esponente di grande rilievo degli Stati Uniti, quando il presidente taiwanese o qualche esponente politico taiwanese va negli Stati Uniti, cioè quando gli Stati Uniti decidono di utilizzare Taiwan per fare pressione sulla Cina.
E attenzione, non sto dicendo “gli Stati Uniti cattivi, la Cina buoni”. Stiamo parlano di due grandi potenze che si muovono in maniera cinica, entrambe che fanno i propri interessi. Ma tornando a quello che dicevamo prima, non è un caso che quando è uscita la cosiddetta “proposta di pace” della Cina, gli Stati Uniti hanno immediatamente detto la Cina sta per vendere le armi alla Russia. È chiaro che sono pressioni che vengono esercitate da entrambi i lati per mettere in difficoltà l’altra parte.
La politica americana nei confronti Taiwan è definita dagli stessi Stati Uniti ambiguità strategica. Da un lato tengono sotto pressione la Cina dicendo “attenzione, perché se voi arrivate noi arriviamo”, ma tengono sotto pressione anche i taiwanesi dicendo “non azzardatevi a dichiararvi indipendenti perché in quel caso noi non vi aiutiamo”. E quindi è una situazione che in teoria potrebbe rimanere così per sempre e andrebbe benissimo a tutti, soprattutto ai taiwanesi e ai cinesi, che comunque hanno dei rapporti economici, hanno il cosiddetto “business della diplomazia”. E questo status quo chi lo mette in discussione? Di fatto gli Stati Uniti.
Nell’autunno del 2022 la Cina è stata scossa da un’ondata di proteste che a questi livelli non si vedeva dal 1989. Proteste nate contro le misure restrittive legate alla pandemia, ma che poi hanno riguardato altre questioni di carattere sociale e politico. Come inquadri questa situazione?
La cosa più giusta da dire è che c’è stato un periodo in cui ci sono tante proteste diverse. Secondo me quelle più rilevanti sono state quelle dei lavoratori della Foxconn, che hanno protestato perché non gli venivano pagati gli stipendi che gli erano promessi e perché la gestione della pandemia, anche all’interno delle fabbriche, era molto deleteria nei confronti dei diritti dei lavoratori. E queste sono proteste che segnalano come il mondo del lavoro, come al solito in Cina, sia molto più vivo di quello che noi pensiamo.
In secondo luogo c’è stata la protesta nelle grandi città, per lo più da parte di giovani e della middle class. Questo cosa ci dice? Uno che la parte di popolazione che è stata più colpita dai lookdown durissimi della Cina, è stata quella classe media che è cosmopolita, che è abituata a viaggiare che deve spostarsi per lavoro e che si è ritrovata all’improvviso in grande difficoltà, insieme ai giovani che sono quelli che non hanno trovato lavoro nella fase pandemica. A loro si aggiungono i lavoratori dei servizi, cioè tutte le attività che venivano chiuse continuamente a causa dei lookdown. Questo ha fatto emergere una critica contro la politica governativa e quindi una critica diretta contro l’operato di XI Jinping.
Come al solito, però, quello che succede in Cina non va mai né sopravvalutato né sottovalutato. Io credo che si sia trattato di un primo segnale da parte dei giovani cinesi che non hanno mai avuto dei momenti di lotta, che non hanno una storia di proteste alle spalle e che hanno messo un primo tassello di quella che potrà essere una storia forse futura di dialettica con l’autorità.
Però cosa è successo subito dopo? Il Partito comunista ha cambiato completamente la politica, ha fatto un’inversione a U non dovuta probabilmente solo alle proteste, ma più per questioni economiche. Però il segnale è stato clamoroso. Xi Jinping al cancelliere Scholz in visita a Pechino ha detto in soldoni “abbiamo avuto delle proteste di giovani, ma li capisco perché hanno fatto davvero una vitaccia in questo periodo». Opportunista? Sicuramente, però è un altro sintomo che ci dovrebbe far capire qualcosa di più della Cina e della capacità, che ci piaccia o meno, del partito comunista di percepire i sentimenti della popolazione, le pulsioni.
La cosa che a me ha colpito molto è il fatto che durante la pandemia sembrava che le autorità avessero perso contatto con la realtà, che hanno ritrovato quando hanno allentato le misure. Quindi alle proteste va dato il giusto risalto – perché sono state veramente clamorose e hanno di fatto abbattuto ogni muro della censura anche sui social cinesi -, ma vanno lette anche nella capacità del partito comunista di stabilire un perimetro all’interno del quale esiste una dialettica con la popolazione.