di Sandro Moiso
Chiara Sasso, A Testa Alta. Emilio Scalzo, Prefazione di Livio Pepino, Postfazione di Nicoletta Dosio, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2020, pp. 134, 10,00 euro
Diventammo sovversivi perché eravamo delinquenti potenziali. Fummo rivoluzionari perché non avremmo potuto essere altro. Inutile raccontarsela o raccontarla diversamente.
(L’estate del 1964 – S. M.)
La valle di Susa e i suoi resistenti della lotta No Tav sono stati percossi, intimiditi, perseguitati, imprigionati, molestati, minacciati, uccisi, denigrati, insultati, processati, multati, pestati a sangue, controllati, incriminati, allontanati, reclusi nelle proprie abitazioni, repressi (ma mai depressi), vivendo ormai da almeno trent’anni in una sorta di lockdown permanente e di bolla spazio-temporale militarizzata che invece di piegarli non ha fatto altro che rafforzarne sempre più la vitalità, l’energia e le convinzioni.
Per comprendere come questo sia stato possibile, sia a livello individuale che collettivo, si rende assolutamente necessaria la lettura del testo appena pubblicato di Chiara Sasso, dedicato alla ricostruzione della vita e delle “avventure” di Emilio Scalzo, forse più noto come Emilio “il pescivendolo”, uno dei militanti più conosciuti e colpiti da provvedimenti disciplinari del movimento di resistenza valsusino.
Vorrei qui soffermarmi per una breve riflessione proprio su quest’ultima definizione poiché, anche se il movimento popolare della Valsusa ha preso le mosse e continua a battersi principalmente per impedire la realizzazione dell’orrenda e devastante operazione meglio nota come nuova linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione, nel corso degli anni gli obiettivi delle sue lotte e della sua critica sono andati ben oltre i limiti spaziali della Valle e gli aspetti economico-mafiosi della grande opera da realizzarsi in loco.
Trent’anni di lotte e riflessioni hanno infatti “materialisticamente” costretto gli abitanti della Valle e coloro che fin dall’inizio li hanno appoggiati a spingere lo sguardo ben oltre quello che avrebbe potuto essere soltanto, come in altri casi, il giardino di casa. La coabitazione tra specie e Natura, tra Uomo e Ambiente e la correlazione tra salute ambientale e salute sociale (ancora così tanto rimossa dal dibattito politico pubblico anche in occasione dell’attuale pandemia) sono diventati da subito argomenti importanti a sostegno delle ragioni della lotta. Così come lo stretto legame tra capitale, mafie politiche ed economiche e grandi opere ha contribuito a dimostrare l’ultima, vera essenza di una società che si rivela sempre meno perfettibile e che è sempre più necessario combatter e respingere in ogni suo aspetto, sia politico-economico che di riproduzione della vita.
Emilio, con i suoi 65 anni e i 26 provvedimenti giudiziari che lo riguardano, costituisce un bel campione (in altri ambienti si direbbe case study) per comprendere la forza e l’evoluzione di questo movimento, esemplare ed eroico. Si badi bene non c’è alcun intento retorico nell’uso di questi ultimi due aggettivi, al contrario assolutamente necessari per descrivere le vite, le lotte delle e dei militanti No Tav e la loro esperienza umana e politica.
Ce lo raccontano in questi giorni le vicende delle detenute resistenti nel carcere delle Vallette, ce lo dimostrano i giovani asserragliati da mesi e con ogni clima presso i Mulini della Val Clarea, ce lo dicono i giovani occupanti del presidio di San Didero, dove la grande opera inutile cercherà di allungare i propri tentacoli nelle prossime settimane o mesi. Prima con gli espropri e poi con il tentativo di realizzare un autentico fortino dedito a controllare il centro della Valle.
Ma torniamo a Emilio e alla sua vita, iniziata il 5 maggio (come per una reminiscenza manzoniana di grandi personaggi) 1955 a San Cataldo in Sicilia. Famiglia di umili condizioni, ma orgogliosa di carattere, che affronterà come moltissime altre la necessità di spostarsi al Nord per motivi economici e l’impossibilità di garantire ai figli un percorso completo di educazione scolastica.
Emilio inizierà infatti a lavorare molto presto, proprio per essere di sostegno, e, anche se per i fratelli che intraprenderanno la “strada dell’aceto” ovvero della delinquenza e della violenza questo potrebbe non essere del tutto vero, a raccogliere per strada un altro tipo di educazione alla vita che comunque mai nessuna scuola, statale o meno, avrebbe potuto altrettanto garantirgli.
Una vita in cui, comunque, il coraggio e la forza fisica contano come il saper leggere e scrivere, soltanto utilizzando un diverso tipo di quaderni e di grammatiche. Quaderni in cui le righe sono costituite dalle prevaricazioni subite dai più deboli, dal punto di vista socio-economico, del genere e dell’etnia di appartenenza, e le grammatiche dalle logiche, strettamente individualiste oppure rette da un più alto senso etico e morale, messe in atto per esprimere ciò che si vuole. D’altra parte, senza scadere in una sorta di darwinismo sociale, è chiaro che un mondo che si regge sugli odi, le differenziazioni di classe, genere, nazione e razza e sulla violenza più o meno legale degli apparati di controllo e giurisdizione statali non può che far sorgere spontaneamente dal basso una reazione uguale e contraria che, però, non essendo indirizzata ad un unico scopo (la valorizzazione del capitale in ogni suo aspetto per la higher class nel suo insieme) può dar vita a percorsi non solo diversi, ma anche divisivi e contrari.
Emilio giunge in Piemonte nel 1968. Ha tredici anni è ha già accumulato l’esperienza di vita in una Sicilia dove
Lo Stato non aveva nessuna forza, non esisteva. Quattro carabinieri che stavano rintanati in caserma, a volte uscivano a cavallo per battere la campagna. Ma un giorno il marresciallo non tornò più e non trovarono neppure più il suo cavallo. Chi lo sostituì pensò bene di farsi gli affari suoi e di occuparsi delle carte. La mia famiglia non era mafiosa, non apparteneva a nessuna cosca, per niente, ma viveva in un contesto dove tutto era molto promiscuo1.
Sarà per questo che confessa di non tornare volentieri nella regione d’origine, nonostante i drammi, la fatica, le delusioni che spesso lo circonderanno lungo il suo percorso.
Percorso che, va qui però detto, è sempre affrontato con slancio ed entusiasmo vitale, che fanno sì che più che di disavventure il racconto ci in bocca lasci il sapore di un’unica, lunga avventura.
Narrarla tutta sarebbe qui inutile, poiché si vuole lasciare al lettore il piacere di scoprire il gusto della militanza e della sua scoperta, a patto che lo stesso, come Emilio, sappia sempre da che parte stare e quale parte scegliere, al di là dell’interesse personale o famigliare.
Come ricorda Nicoletta Dosio nella sua postfazione
Emilio ci racconta la sua vita con semplicità e sincerità, anche quando essere sinceri costa sacrificio.
«I miei fratelli mi prendevano in giro: noi siamo lupi, tu sei un sanbernardo». Una metafora perfetta per definire Emilio: forte e generoso, pronto ad intervenire in difesa dei più deboli, senza arretrare mai2.
Chiara Sasso ha raccolto la testimonianza di Emilio durante gli arresti domiciliari di quest’ultimo e ha avuto il merito di lasciar spesso scorrere il discorso attraverso le parole del protagonista di una vita sempre rivolta al prossimo: che si trattasse di ingiustizie sul luogo di lavoro, della lotta NoTav o del sostegno attivo ai migranti in cui si è sempre distinto.
Ciò che vien da suggerire alla brava autrice, in un contesto valligiano, in particolar modo legato a Bussoleno, in cui numerose e numerosi militanti si trovano attualmente in carcere o agli arresti domiciliari (non si offendano se qui, per ragioni di spazio, non li cito tutti per nome e cognome), è quello di non lasciare che questa biografia di Emilio costituisca un unicum, ma piuttosto far sì che diventi il primo volume di una serie dedicata ad un’autentica storia orale dei protagonisti, conosciuti e meno, delle vicende degli ultimi trent’anni, andando a ricostruire nel dettaglio un’autentica storia dal basso che la storiografia accademica sembra da tempo aver dimenticato o rimosso. Troppo esplosiva, troppo “calda”, troppo pericolosa da maneggiare nei polverosi manuali di Storia, anche quando sono magari nati con i migliori intenti.
Avanti NO Tav!