L’Asia Centrale di fronte ai rifugiati afghani

La recente e veloce presa del potere in Afghanistan da parte dei talebani ha necessariamente posto gli Stati centroasiatici di fronte alla preoccupazione per l’imminente flusso di persone in arrivo nei propri territori. A considerazioni di carattere logistico e sanitario, si aggiungono i timori per gli effetti sulla stabilità politica interna e dell’intera regione del rischio di infiltrazione di estremisti islamici, storicamente l’Islam Movement of Uzbekistan (IMU) e l’Hizb ut-Tahrir, ai quali si somma ora la minaccia di daesh.

Mentre l’attenzione è rivolta alla drammatica situazione all’aeroporto di Kabul, le repubbliche dell’Asia Centrale si trovano a gestire la crisi dei rifugiati afghani stretti tra opposti interessi. Da un lato Mosca che, temendo infiltrazioni terroristiche, lamenta i tentativi statunitensi di convincere alcune repubbliche centroasiatiche a ospitare, almeno temporaneamente, collaboratori afgani in attesa di un ricollocamento.[1] Dall’altro la Cina, che ha già intavolato trattative e colloqui amichevoli con il governo talebano, interessata alla stabilità della regione per sfruttare il potenziale di quello stretto confine di 50 km tra Afghanistan e Cina, il corridoio del Wakhan – lo stesso percorso usato da Marco Polo per giungere il Catai – per il proseguimento della Belt and Road Initiative, la Nuova via della Seta.[2]

La demarcazione colonialista dei confini lungo la cosiddetta Linea Durant a sud e lungo il fiume Amu Darya a nord, imposta nel 1893 dall’Impero britannico e dalla Russia durante il Grande Gioco, ha diviso tra vari Stati le popolazioni della regione che nei decenni turbolenti vissuti dall’Afghanistan hanno cercato rifugio nei paesi di riferimento per il proprio gruppo etnico: il Pakistan ospita 1.4 milioni di afghani nei campi profughi, in prevalenza pashtun; l’Iran invece ospita ufficialmente 780.000 rifugiati afghani – ma si parla di circa 2.6 milioni di persone senza documenti o col solo passaporto – molti dei quali di etnia hazara, minoranza sciita che parla dari, una lingua molto simile al farsi.[3]

Il Turkmenistan ha già prontamente tenuto dei cordiali incontri con i talebani a Mazar-i-Sharif ed Herat, terza città dell’Afghanistan che dista solo 115 km dal confine turkmeno: l’interesse è quello di far proseguire la costruzione del gasdotto TAPI, mentre il Ministro degli Esteri turkmeno ha assicurato che al checkpoint di Serhetabat-Torghundi le merci stanno transitando regolarmente secondo gli accordi presi.[4] Non altrettanto è per le persone, impossibilitate a varcare il confine non sono per il controllo dei talebani ma anche per la mancata volontà di accoglierli del Turkmenistan, che già ha specificato che non lascerà entrare nessun afgano, neppure quelli di etnia turkmena.[5]

Il Tagikistan, che condivide con l’Afghanistan 1400 km di confine, aveva annunciato a luglio la volontà di accogliere 100.000 afghani, ma se questa promessa sia stata mantenuta dopo la caduta di Kabul non è conosciuto[6]. Quello che è certo è 100.000 soldati tagiki sono di stanza al confine e sono stati richiamati 130.000 riservisti.[7] Centinaia di soldati del governo afghano di Ghani che a luglio avevano varcato il confine tagiko in fuga dall’avanzata talebana sono stati, sembra, rimpatriati, mentre il governo di Dushanbe ha chiesto aiuto alla Collective Security Treaty Organisation (CSTO) per gestire il flusso di migranti e per una eventuale ripartizione tra i paesi membri.[8]

Il presidente tagiko Emomali Rahmon ha sottolineato la necessità di un governo inclusivo in Afghanistan, che comprenda anche la minoranza tagika[9], secondo gruppo etnico del paese dopo i pashtun, che conta per il 27% della popolazione, ma che è la maggioranza nelle regioni settentrionali, sede dell’Alleanza del Nord e roccaforte della resistenza anti talebana, come nella valle del Panshir.[10]

Dall’Uzbekistan arrivano notizie contraddittorie: ad inizio luglio un’ottantina di tende erano state preparate nella città meridionale di confine di Termez per ospitare i possibili profughi in fuga dall’avanzata talebana;[11] ad agosto circa 150 afghani, non è chiaro se si trattasse di militari o civili, sarebbero stati rimpatriati di accordo con i talebani;[12] altrove si parla un migliaio e poi di altri 600 afghani accolti dall’Uzbekistan, tra cui, pare, il signore della guerra di etnia uzbeka Rashid Dostum con i suoi militari;[13] infine l’Associated Press riporta le parole del Ministro degli Esteri che annuncia che qualsiasi tentativo di varcare il confine verrà soppresso.[14] Grande è la confusione sotto il cielo uzbeko.

Se le politiche adottate in Asia Centrale in questo frangente con i profughi afghani non brillano certo per coscienza umanitaria, in Europa dopo vent’anni di errori in Afghanistan si stanno alzando le barricate, non solo quelle fisiche come il muro costruito in Grecia per bloccare i migranti, alla luce delle parole di Janez Jansa, presidente di turno del Consiglio dell’Unione Europea, definito “un piccolo Orban”, che ha dichiarato: “L’Ue non aprirà corridoi per i migranti afghani, non permetteremo che si ripeta l’errore strategico del 2015”.[15]

Ancora una volta l’Europa paladina dei diritti difende i propri privilegi.


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