di Marco Noris, Attac Bergamo
In questo anno bisestile, che ha imprigionato l’umanità in una pandemia che non si ricordava da oltre un secolo, venerdì 17 aprile, tra le altre innumerevoli notizie, se ne trovano due. La prima viene da quel territorio che vanta il triste primato mondiale di contagi e di deceduti per il Covid-19 in relazione ai suoi abitanti: la provincia di Bergamo. È la storia di un imprenditore che ha deciso, a sue spese, di acquistare nei primi giorni di aprile test sierologici per i propri dipendenti per capire quanti di loro risultino positivi al Covid-19. Il risultato è del 18%. Va persino bene: le stime per la bergamasca indicano una percentuale generale di contagio attorno al 25-27% dell’intera popolazione. In quell’Azienda molti di loro, ormai, non sono più contagiosi e solo 3 dipendenti sono stati momentaneamente allontanati. I test sono stati eseguiti ad aprile dopo che a marzo era già avvenuta una vera e propria strage; l’impresa, che si occupa della produzione di componenti in gomma e plastica, non ha mai fermato la produzione. A quanto si sa, comunque, nessun altro imprenditore orobico ha proceduto a questi test né sembra abbia intenzione di farlo, anche se la produzione delle aziende non si è mai fermata. D’altro canto, chi dovrebbe occuparsi di queste cose, la Regione Lombardia, pensa di terminare il lockdown e riaprire tutto a partire dal 4 maggio.
L’altra notizia ci arriva dal Parlamento europeo nel quale, con poche eccezioni, i parlamentari hanno votato contro un documento organico proposto dal gruppo della Sinistra Unitaria Europea/Sinistra Verde Nordica (GUE/NGL). Il documento proponeva l’intervento diretto della BCE nella crisi, un po’ come previsto negli USA con la Federal Reserve o nel Regno Unito con la Banca d’Inghilterra; proponeva poi l’utilizzo di Bond condivisi e una tassazione riservata alle multinazionali nella misura del 25%. Un documento molto lontano da qualsiasi prospettiva rivoluzionaria, erano semplici proposte di buon senso per fronteggiare la crisi. È stata approvata, invece, la risoluzione della maggioranza di grande coalizione guidata da Ursula Von der Leyen che, nella sostanza, prevede solo l’utilizzo della trappola debitoria del MES.
Apparentemente queste due notizie hanno come denominatore comune solo la pandemia in atto: la prima delinea un’azione su scala continentale, la seconda un intervento di livello meno che locale, anzi riguarda una sola e specifica azienda. Ma forse c’è dell’altro.
In queste settimane è tornata a riecheggiare da molte parti, quella frase che aveva caratterizzato le proteste cilene degli ultimi mesi dello scorso anno: “Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”. In molti si rendono conto che le cose devono in qualche modo cambiare, che esistono forti correlazioni tra la pandemia attuale e i suoi disastrosi effetti con il sistema economico e sociale nel quale abbiamo vissuto finora. Il futuro con tutta le sue incognite fa paura e, perché ciò che stiamo subendo non si verifichi più, dobbiamo cercare di pensarlo e progettarlo. La “normalità” di prima è stata in questo senso nefasta. Ma quando parliamo di “normalità” che cosa intendiamo?
La definizione di “normalità” richiama i concetti di consuetudine da un lato e di uno stato di generalità dall’altro; la cosiddetta globalizzazione ha certificato lo stato di generalità ma sulla questione della consuetudine occorre invece fare alcune considerazioni.
La consuetudine richiama l’idea di un tempo quasi immobile, una storia che si muove in direzioni più circolari che progressive, uno status quo determinato magari anche da squilibri, ma sempre momentanei, e di cicli che riportano in una qualche misura in una condizione di equilibrio e di ordine garantito.
È questa la normalità che intendiamo? Probabilmente no.
Nel corso degli ultimi decenni il capitalismo neoliberista ha segnato la nostra storia non certamente in senso progressivo: il peggioramento delle condizioni di lavoro, dalla sua precarizzazione alla sfera retributiva, la polarizzazione tanto economica quanto sociale nei diritti con il conseguente arretramento se non addirittura la messa in discussione della democrazia moderna e della sua plurisecolare cultura, il proliferare di una moltitudine di conflitti, il deterioramento, ormai al limite dell’irreversibilità, delle condizioni ambientali planetarie, sono fatti difficilmente contestabili.
Quello che è accaduto negli ultimi decenni non ha fatto altro che peggiorare quella che noi generalmente pensiamo come “normalità”. È importante capire questa cosa: è stato in fondo introiettato il concetto della fine della storia nell’illusione di vivere in un tempo ormai pacificato e in uno status quo determinato e definito. Nella realtà abbiamo invece subìto un processo di peggioramento delle nostre condizioni, e lo stesso concetto della fine della storia ci ha portato a considerare ciò come normale. Il mondo della fine della storia è quello stesso mondo thatcheriano per il quale non ci sono alternative. Alla luce di quanto accaduto ci è stato semplicemente chiesto di adattarci al processo regressivo, per trovare nella nuova condizione che via via peggiorava quell’equilibrio e quella nuova normalità che ci venivano a mancare.
Quanto accaduto, quindi, non è semplicemente frutto di una “normalità”, ma di un processo di normalizzazione continua. In questo senso, quello che dobbiamo rifiutare non è semplicemente lo status quo precedente e pensare di sostituirlo con una altro, bensì si tratta di interrompere un processo per realizzarne un altro, non è una questione statica ma di dinamica sociale e storica.
Tutto questo, apparentemente, potrebbe sembrare puramente teorico ma non lo è: quello che ci viene continuamente richiesto è la capacità di adattamento ad un divenire che muta, nel peggio, le condizioni di normalità, con l’imperativo del sapersi adattare. L’azienda orobica che non ha mai smesso di produrre accetta come normalità la produzione in tempi di pandemia, e le istituzioni regionali che decidono di riaprire normalizzano la convivenza con un virus mortale. L’Unione Europea che intende affrontare la situazione con le vecchie ricette dell’indebitamento e la conseguente inevitabile austerità ritiene normale applicare e ripetere provvedimenti già pagati sulla pelle di interi Stati, e che presenteranno un conto ancora più salato nel mondo del post-cornavirus: ciò determina un processo di progressivo impoverimento che determinerà la futura normalità.
Se dobbiamo combattere qualcosa non è semplicemente la normalità ma la normalizzazione, l’innalzamento dell’asticella del sentire comune della normalità, che ci richiede un continuo sforzo di adattamento ad una cultura e un mondo che oggi appaiono agonizzanti. Capire questa cosa non è di poco conto neppure nella pratica, e combattere contro un processo è ben diverso dal combattere contro uno stato di cose: perché non basta modificare o trovare soluzione al “qui ed ora”, bensì spezzare le traiettorie e invertire la rotta del processo stesso.
In questa situazione, quindi, non basta cercare soluzioni che aggiustino il tiro, opporsi per ottenere un futuro semplicemente più a misura dei viventi, tutto questo può anche servire a livello tattico, ma dobbiamo essere consci che questo semplicemente potrà rallentare i tempi del disastro ma non molto di più. Quello di cui noi abbiamo bisogno oggi è di rappresentare e progettare un mondo davvero altro perché in grado di innescare processi storici nella direzione opposta a quella attuale. Abbiamo bisogno di immaginare un processo di inevitabile rottura sia col passato sia con questo presente. Se partiamo però da questo presupposto dobbiamo capire anche che gli attuali rapporti di forza, oggi, sono quello che sono. Capire come fare per cambiarli per poter agire un conflitto inevitabile con il sistema dovrebbe essere in questo momento al centro dei nostri pensieri. Guardiamoci, quindi, negli occhi e pensiamoci: come scriveva Bertolt Brecht nel finale de L’Anima buona del Sezuan: “Presto, pensate come sia attuabile! Una fine migliore ci vuole, è indispensabile!”