Lo hanno scritto già in tante persone: se c’è una generazione che è stata in toto peggiorata, plasmata, derubata da Silvio Berlusconi è quella di chi è nato a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Quella generazione, la mia, che ha vissuto la propria infanzia e pre-adolescenza con la tv commerciale da lui inventata, che ha iniziato ad avere coscienza politica con la sua “discesa in campo”, che – volente o nolente – è stata impattata dal movimento no-global sviluppatosi nel periodo di suo “massimo splendore” politico. La generazione che ha iniziato ad avere rimpianti a partire dall’inizio del suo declino, che avviene il 12 novembre 2011 quando di dimette da Presidente del Consiglio lasciando il Paese mangiato da spread e debito pubblico e carico di tensioni sociali.
Quindi, la parabola politica e imprenditoriale del Cavaliere Nero – oCaimano o Mister B che dir si voglia – coincide perfettamente con quella di chi ha scoperto il mondo con le stragi di mafia e il crollo di un sistema politico, ha conosciuto per la prima volta il lavoro precario, ha vissuto l’incubo della crisi finanziaria con la consapevolezza di essere economicamente – e forse anche psicologicamente – più fragile della generazione che l’aveva preceduta.
È una storia sociale, questa, prima che politica. Dolorosa, triste, a tratti meschina. Una storia in cui il concetto di “ingiustizia di classe” si palesa in modo talmente palese da essere pienamente integrato nella normalità delle cose. Lui, uno degli uomini più ricchi e potenti del Pianeta che rimane con alterne vicende per 30 anni ai vertici delle istituzioni e che addirittura costruisce un’immagine di sé come “perseguitato”. E dall’altra parte noi, precipitati in un impoverimento di massa ormai senza fine e, sempre più spesso, incapaci di reagire, mobilitarci, arrabbiarci.
Lettura semplificata? Certo che sì. Ma il punto della questione è proprio questo: Silvio Berlusconi ha svolto scientemente il ruolo di degradare talmente tanto la caratura del far politica da rendere le sue stesse categorie il terreno della semplificazione, della riduzione quasi farsesca della complessità del reale.
L’eterno scontro tra poteri istituzionali che per anni ha fatto percepire a un certo “popolo della sinistra” che addirittura fosse la magistratura (sic!) l’ultimo baluardo della democrazia. La nonchalance con cui ha scimmiottato la tradizione liberale facendola diventare il terreno fertile nel quale è germogliata la destra che oggi governa mezza Europa. Il populismo ante litteram da cui hanno attinto prima Grillo e Renzi, poi Salvini e Meloni, ma a cui anche Trump, Bolsonaro e lo stesso Macron devono tanto: cos’è la quintessenza del berlusconismo se non il primo tentativo di identificazione di massa con l’Io ideale incarnato dal Capo nella crisi dell’ordine simbolico democratico? Ma soprattutto – capolavoro dei capolavori – l’invenzione stessa dell’antiberlusconismo, terreno su cui per 20 anni si è immolata la sinistra di questo Paese, finendo per diventare il fantasma di sé stessa.
Ma gli individui, anche quelli più potenti e spregiudicati come Silvio Berlusconi, non sono mai il frutto del destino e di combinazioni solamente casuali. Spesso in molti hanno voluto leggere il suo ingresso in politica nel 1994 inaugurato dalla famigerata frase «l’Italia è il Paese che amo», che apre il primo dei tanti comizi mediatici che hanno trasformato la comunicazione politica, come uno scherzo riuscito bene (o male, dipende dai punti di vista). Quelli che credono di essere più arguti si sono adagiati sul fatto che quell’iniziativa fosse l’ultimo ed estremo tentativo da parte di fantomatici poteri forti di mettere un argine a una possibile e storica vittoria delle sinistre.
A mio avviso niente di tutto questo. Per certi versi ha ragione Antonio Polito, che sul Corriere ha scritto di Berlusconi come di una “necessità storica”. Ed effettivamente Berlusconi è il prodotto di un Paese che viene catapultato nell’era post-fordista, post-moderna, post-ideologica, post-democratica, insomma in un post-qualcosa che senza dubbio ci ha triturati fino all’ultimo pezzettino di ossa. Ma le trasformazioni storiche non sono mai processi neutri: rispondono a logiche di ristrutturazione capitalista, a nuovi modelli di comando, generano contradizioni e conflitti che sono tutt’ora aperti.
Per tutto questo sinceramente mi interessa poco discutere oggi se Berlusconi abbia vinto o perso, sia entrato nell’Olimpo o nell’inferno. E mi interessano poco anche le santificazioni dei suoi vecchi nemici politici, perché in fondo lo avevano già santificato quando lo hanno identificato come unico bersaglio della lotta politica. Non mi interessano le sue ceneri, ma mi interessa ricomporre quelle di un’intera generazione – la mia, ripeto – polverizzata da trent’anni di ingiustizie e sofferenze sociali. Perché a volte sotto la cenere c’è ancora fuoco e perché lo dobbiamo a chi – nonostante tutto – non ha mai alzato la bandiera bianca.
Immagine di copertina: Andrea Ubierna da Flickr.