Lunedì 10 luglio si tiene a Sherwood Festival il dibattito sul movimento che negli scorsi mesi ha scosso la Francia di Macron. “La grève illimitée” si intitola e vedrà discutere Judith Revel (Professeur a Nanterre), Francesco Brancaccio (Ricercatore – Université Paris 8), Letizia Molinari (Saccage 2024), Ramon Vilar (Union Syndicale Solidaires) e Sergio Zulian (ADL Cobas) attorno alle prospettive che questo movimento ha aperto per l’intero “vecchio continente). È inevitabile che il terreno di questa discussione si sia spostato dopo le recenti rivolte partite dalle banlieue parigine in seguito all’uccisione del giovane Nahel. Forse è troppo semplicistico pensare a una prosecuzione “naturale” tra le due cose, ma è interessante cogliere gli intrecci allo scopo di analizzare lo stato di avanzamento della lotta di classe nel Paese transalpino, che spesso nella storia ha fatto da apripista a cambiamenti epocali.
A proposito di storia, il titolo di questo articolo si riferisce a un famoso testo di Marx scritto dopo la a ‘bella’ rivoluzione di febbraio e la ‘brutta’ rivoluzione di giugno 1848. Naturalmente, il titolo è puramente evocativo: si può parlare di lotta di classe riferita all’insurrezioni e tumulti che attraversano la Francia in questo periodo in un contesto del tutto diverso dal periodo descritto da Marx? Cosa è la “classe” oggi dopo la scomparsa della “centralità politica” della classe operaia della grande fabbrica fordista? Eppure, l’antagonismo irriducibile tra capitale e lavoro, tra valore d’uso e valore di scambio, rende più che mai necessario riconsiderare la questione di classe nell’attualità di una nuova possibile rivoluzione sociale. In realtà, la classe non è un dato predeterminato, piuttosto il frutto di processi storici, un “divenire classe”, una dinamica sempre aperta di “soggettivizzazione”.
E allora, proprio a partire dagli avvenimenti francesi, bisogna chiedersi come la moltitudine degli sfruttati oggi può divenire classe, come una moltitudine di differenze e singolarità può costruire il “comune”? Solo con l’intersezione delle lotte, la loro convergenza ed è questa la lezione più importante che apprendiamo dalla Francia: questi concetti sono diventati prassi e non evocazione pura. Se diamo uno sguardo “globale” e non limitato alle singole esperienze, ci rendiamo conto che ciò è possibile anche in altri contesti. Una molteplicità di lotte e resistenze contro il capitalismo tendono a convergere ovunque nel mondo, contro i cambiamenti climatici e per la giustizia sociale, il patriarcato e il razzismo, per la difesa del mondo ambiente in cui viviamo, l’acqua, la terra, l’aria. Le parole d’ordine di genere, di razza, di classe risuonano ormai in tutti i movimenti, dal sud globale alle metropoli. Naturalmente, si tratta di processi in divenire, per nulla scontati o predeterminati, ma che contengono enormi potenzialità e ridisegnano i contorni di una nuova classe moltitudinaria, radicalmente anticapitalista.
Questo fatto svela fino in fondo la crisi della “governance” neoliberista e come sempre sono le lotte e i conflitti che tolgono il velo alle mistificazioni della democrazia rappresentativa, dello stato di diritto, di ogni mediazione istituzionale. La tendenza della “governance “ si fa sempre più autoritaria, ovunque nel mondo: un fascismo post-democratico, la cui violenza repressiva non ha eguali nella storia e che sempre più si dirige verso quella necropolitica di cui parlano gli studiosi post-coloniali, il sacrificio di intere popolazioni sull’altare del profitto. Lo stato di polizia e l’emergenza permanente sono diventati gli strumenti principali di governo degli stati, per distruggere ogni forma di dissenso, di opposizione, di conflitto. Una sorta di “dittatura commissaria”, termine usato da Carl Schmitt, teorico nazional-socialista dello stato di eccezione, per reprimere ogni conflittualità di classe e riportare l’ordine sociale.
Senza fare esempi e parallelismi troppo ardui, è evidente che il commissariamento emergenziale sia diventato una vera e propria pratica, una metodologia di comando. Basti solo pensare all’Italia, dove rispetto a eventi catastrofici, si nominano in ogni situazione commissari, per le grandi opere infrastrutturali, dall’alto, scavalcando ogni rapporto con le popolazioni, spazzando via ogni seppur labile parvenza di democrazia partecipativa.
Allo stesso tempo, la crisi dell’ordine liberale apre contraddizioni sempre più evidenti. Pensiamo naturalmente alla Francia di Macron e a ciò che è accaduto nei sobborghi e aree sub-metropolitane del paese di Nahel. La Francia messa a ferro e fuoco, da Parigi a molte altre città, una nuova rivolta delle banlieue durata diversi giorni, una situazione di totale ingovernabilità da parte di uno Stato e di un potere totalmente delegittimato. Ed è proprio nelle banlieue che si concentrano le contraddizioni del post-colonialismo: intere generazioni di migranti dall’ex impero coloniale francese hanno scolpito nel loro inconscio collettivo le sofferenze, lo stato di emarginazione e sudditanza, trasmesso nel tempo alle nuove generazioni, di giovani e giovanissimi, carichi di odio contro il potere e lo Stato.
Anche perché, più che di post-colonialismo, sarebbe bene parlare di neo-colonialismo: stratificazioni gerarchiche, rapporti di inclusione/esclusione, privazione di diritti, precarietà, povertà nello spazio metropolitano. Ma non si tratta solo di questo: le mobilitazioni di massa seguite alla morte del giovane Nahel non si spiegherebbero se le lotte in Francia che ci sono state negli ultimi anni – loi travail, gilets gialli, riforma delle pensioni – non avessero sedimentato un odio comune contro il nemico comune. Forme di spontaneità organizzata, che hanno attraversato in tutti questi anni vari settori della società francese. Si potrebbe obiettare che si tratta di “potere destituente”, incapace di costruire nuove forme del politico. Ma forse in questo si possono ravvisare embrioni di un desiderio costituente, di altre forme di vita fuori dal capitalismo, di nuove istituzioni del “comune” radicalmente democratiche. Dentro, contro e fuori!