Da una settimana diverse città e piccoli centri iraniani sono attraversati da cortei e proteste scatenate dalla morte di Masha Amini, ventiduenne originaria del Kurdistan iraniano, arrestata dalla polizia morale e deceduta dopo alcuni giorni di custodia. Sembra essere l’ennesimo caso di violenza da parte di un apparato di sicurezza sempre più repressivo, soprattutto nei confronti delle donne. Paola Rivetti, docente di politica e studi internazionali ed esperta della regione, fornisce un’utile analisi per comprendere cosa sta succedendo nel paese.
Da una settimana l’Iran è attraversato da proteste e scontri con le forze dell’ordine che hanno già causato cinque vittime tra le e i manifestanti. Ci puoi descrivere cosa c’è all’origine di questa espressione di dissenso?
La scintilla delle proteste è stato l’arresto e la morte di Masha Amini, una ragazza di 22 anni originaria del Kurdistan iraniano che era in viaggio a Teheran con la famiglia. Masha è stata fermata dalla polizia morale nelle strade della capitale a causa del modo scorretto in cui portava il velo, è stata strattonata e costretta con la forza a salire su un van e, dopo alcuni giorni di custodia, è morta in ospedale il 16 settembre. Secondo il resoconto delle autorità, Masha sarebbe deceduta in seguito ad un attacco di cuore. Le autorità hanno anche diffuso un video in cui si vede da lontano una donna che collassa a causa di un malore, ma le immagini sono talmente editate che è difficile credere alla ricostruzione ufficiale. In ogni caso, molte persone non lo fanno. Credono invece che durante i giorni di custodia la ragazza sia stata torturata fino alla morte ed è per questo che sono scese in piazza.
Hai parlato di polizia morale. Cos’è esattamente?
In persiano si chiama Gasht-e Ershad ed è un corpo istituito 17 anni fa con il compito di vigilare sulla moralità dei comportamenti e del vestiario della popolazione. Le sue unità pattugliano strade e spazi pubblici della Repubblica Islamica per controllare che il comportamento e l’apparenza delle persone – compreso addirittura il taglio dei capelli – rispettino gli standard stabiliti dalla legge. Questi vengono presentati come di derivazione religiosa e mirano a prevenire e punire quei comportamenti ritenuti disturbanti dell’ordine pubblico.
La morte di Masha Amini è un episodio di violenza isolato da parte della Gasht-e Ershad?
No, è da diversi mesi che il livello di violenza, soprattutto contro le donne, è aumentato. Quando ero in Iran l’estate scorsa hanno destato molto scalpore altri due casi. Il primo è finito con una sparatoria contro il marito di una donna a cui era stato contestato l’uso scorretto del velo. Gli agenti della Gasht-e Ershad gli hanno sparato alle gambe, rendendolo disabile. Il secondo è quello di Sepideh Rashnu, arrestata in seguito ad un alterco con un’unità della polizia morale che le aveva chiesto di sistemarsi il hijab. Qualche giorno dopo, la donna è apparsa in televisione in un famoso programma della tv di stato in cui alle persone arrestate viene chiesto di pentirsi pubblicamente delle proprie azioni. Quando le telecamere hanno inquadrato Sepideh Rashnu, era visibile dai lividi che fosse stata sottoposta a qualche forma di tortura o comunque di maltrattamento. Il caso di Masha Amini non è quindi un caso isolato ma si inscrive in una storia più lunga di violenza poliziesca che ha un fortissimo elemento di genere.
Nel caso di Masha, che era curda, c’è poi anche una dimensione etnica che bisogna considerare nell’analisi. Primo, possiamo ipotizzare che la violenza contro di lei si spieghi in parte anche col fatto che appartenesse ad una minoranza che è stata storicamente oppressa e marginalizzata dallo stato iraniano. Secondo, le proteste che sono scoppiate durante i funerali di Masha hanno avuto origine nel Kurdistan iraniano per poi diffondersi nel resto del paese. In questo caso, all’elemento centrale della domanda delle donne di libertà personale e di autodeterminazione del proprio corpo si aggiunge questo elemento etnico che va a significare le proteste, anche se è ancora difficile capirne la portata.
Prima di approfondire questo aspetto, puoi spiegare perché negli ultimi mesi ci sia stata questa intensificazione della violenza della polizia morale?
Sono molte le cause dell’intensificarsi non solo della brutalità di questo corpo, ma della natura autoritaria dello stato iraniano nel suo complesso. Come in ogni altro paese, anche in Iran ci sono periodi in cui le istituzioni sono più tolleranti verso le espressioni di dissenso ed altri in cui lo sono meno. E adesso ci troviamo in una fase storica in cui le forze del sistema politico in diversi paesi tendono decisamente al populismo di destra. L’abbiamo visto negli Stati Uniti di Trump, nel Brasile di Bolsonaro e anche in Iran. Oltre a questa dimensione globale, bisogna considerare anche quella regionale. L’Iran è direttamente coinvolto in diversi conflitti, come quelli in Siria, Yemen ed Etiopia, il che riduce la propensione dello stato a tollerare il dissenso interno. Su questo trend generale di securitizzazione dello spazio pubblico e di soppressione del dissenso, si vanno poi ad innestare delle situazioni di politica interna. In particolare, c’è una generale frustrazione della popolazione, da tempo alle prese con una crisi economica causata dalle sanzioni internazionali e dalla corruzione endemica delle istituzioni. Questa frustrazione è alimentata anche dal grande scollamento con la classe politica, che non presta più ascolto alle istanze delle persone. Tutto questo porta ad una crescente radicalizzazione della popolazione, che si manifesta soprattutto nella vita quotidiana. Quando sono stata a Teheran questa estate, ad esempio, mi ha colpita l’altissimo numero di ragazze che non portano il velo. La securitizzazione dello spazio pubblico e il crescente autoritarismo vanno quindi visti sia come parte di un trend mondiale e riflesso di una situazione regionale, ma anche come una reazione di paura dello stato rispetto ad una popolazione sempre più frustrata e pronta a contravvenire perfino nel quotidiano alle regole fondanti della repubblica islamica.
Come abbiamo visto negli ultimi giorni, la radicalizzazione ha superato la paura della repressione. Cosa ci puoi dire su queste proteste? Sono in linea con i cicli di proteste del passato?
Premetto che è difficile capire le dimensioni effettive e le caratteristiche di queste manifestazioni. Nel commentarle mi rifaccio a quanto trasmesso dai media, dai social network e dai miei contatti in Iran. Detto ciò, posso dire che si inseriscono in una storia di proteste che hanno come elemento centrale richieste anti-patriarcali. Presentano però delle grandi differenze rispetto al passato e in particolare al periodo riformista degli anni Novanta e Duemila che si è concluso con le manifestazioni del 2009 e 2010. I legami delle proteste di oggi con quelle di quel periodo sono deboli soprattutto a causa della repressione dello stato. Uno dei più grandi problemi dell’attivismo in Iran è infatti quello della trasmissione della conoscenza di generazione in generazione. Un’eredità che viene compromessa dai continui arresti e dal grande numero di persone che decide di lasciare il paese. Inoltre, credo che negli ultimi dieci anni ci sia stato un cambiamento di analisi politica: prima si pensava che fosse possibile riformare lo stato mentre oggi per molti è difficile crederlo.
Chi sta scendendo nelle strade e che cosa chiede?
A livello di composizione di classe, sembra che, rispetto alle ultime manifestazioni del 2019, ci sia una maggiore componente di classe media, con una buona partecipazione delle associazioni studentesche. Le proteste di oggi, da quello che possiamo vedere al momento, sembrano più orientate alla richiesta di maggiore libertà individuale, soprattutto per le donne, e questo le differenza ad esempio dal periodo riformista. Ho parlato con un’amica che partecipò alle proteste del 2009 e che mi ha detto che quando allora le manifestanti lanciavano slogan contro il carattere patriarcale dello stato iraniano veniva accusate di essere divisive o troppo radicali e di voler provocare la reazione delle autorità. Quello che vediamo oggi è una realtà completamente diversa: le ragazze sono centrali, bruciano il velo e si tagliano i capelli nelle piazze, e sono applaudite non contestate.
Queste istanze di libertà individuale vengono articolate in un discorso più generale che mette al centro la critica del regime e la necessità di cambiamento radicale delle istituzioni?
È difficile dirlo perché al momento l’unico elemento che ci permette di interpretare queste manifestazioni sono gli slogan delle persone, che sono radicali. Da un classico “Morte al dittatore” al noto “Donna, Vita, Libertà”, ripreso dalla rivoluzione della Federazione Democratica della Siria del Nord. Al di là di questo, è difficile capire le richieste delle e dei manifestanti perché le proteste non hanno espresso una leadership. Non c’è un comitato che si sia occupato del coordinamento e della formulazione delle richieste. E ciò è in linea con un trend più generale dell’attivismo che si vede anche in Europa: l’importanza dei social media in quanto mezzi per chiamare all’azione cambia il modo in cui le persone stanno in piazza. Sembra più importante manifestare e testimoniare la propria posizione politica per le strade piuttosto che fare il lavoro più faticoso di elaborazione di un’analisi politica che diventi egemonica all’interno di quello che poi si costituisce come movimento di protesta. Un tempo il momento di piazza era la fine di un processo lunghissimo di elaborazione e di interazioni, discussioni e compromessi tra i vari gruppi che così costruivano il percorso che sfociava infine nella mobilitazione. L’elaborazione di un’analisi sembra invece iniziare oggi a partire dalla protesta oppure addirittura manca, soprattutto in un contesto come quello iraniano in cui creare delle infrastrutture politiche di attivismo è reso molto difficile dalla violenza dello stato.
Qual è la geografia di queste proteste?
Sembra che le proteste si siano diffuse in diverse regioni del paese e il dato importante è che siano interessate anche le aree periferiche e i piccoli centri. Questo si inserisce in una traiettoria che si è vista già negli ultimi anni e che è in rottura con i precedenti cicli di protesta che erano perlopiù Teheran-centrici. La larga diffusione delle attuali proteste è molto importante perché ha il potenziale di creare il senso comune di un paese attraversato da un movimento di protesta che si esprime contro uno dei capisaldi della Repubblica Islamica, ovvero l’obbligo di velo per le donne. Si formerà quindi una percezione diffusa che un elemento così importante dello status quo è criticato da un movimento significativo. È per questo che la diffusione delle proteste è più importante della loro grandezza in termini di partecipanti.
Chiudiamo ritornando all’elemento etnico delle proteste. Perché è importante farlo entrare nell’analisi?
Prima di tutto per prevedere la possibile reazione delle autorità. L’approccio ostile e securitario dello stato verso le minoranze è dovuto anche a ragioni storiche. I servizi segreti britannici, sia prima che dopo la rivoluzione del 1979, hanno giocato con la stabilità del paese usando come meccanismo privilegiato di ingerenza le minoranze, supportandole ed armandole. Per cui il controllo delle diverse componenti etniche della popolazione è per la Repubblica Islamica una questione di sicurezza nazionale. Visto il protagonismo nelle proteste della regione curda, è possibile che lo stato avrà nelle prossime settimane una reazione più violenta di quella che ha avuto finora.
In secondo luogo, per capire le istanze delle piazze. In Iran lo stato promuove pratiche e un discorso di supremazia persiana che alimentano un razzismo sistemico contro tutte le minoranze etniche e linguistiche. Nel caso specifico dei curdi, la loro oppressione e marginalizzazione da parte dello stato è particolarmente evidente perché c’è una storia di militanza importante nelle regioni curde, dove l’avversione alla Repubblica Islamica è maggiore e fu molto forte negli anni Ottanta. Per fare un esempio, ho conosciuto molte persone iraniane di etnia curda che hanno fatto domanda di asilo in Turchia e che sono rimaste sorprese dalla libertà di poter parlare curdo e quindi di sentirsi tali in un paese come quello governato da Erdoğan. Conoscendo la storia dei rapporti tra lo stato turco e i curdi, si capisce quanto dura debba essere l’oppressione nel confinante Iran. Bisognerà capire, quindi, se l’elemento etnico giocherà un ruolo importante nelle proteste.
C’è poi da considerare il fatto che in zone periferiche dell’Iran che non sono a maggioranza curda, come l’Azerbaijan iraniano, sono stati scanditi diversi slogan a favore del popolo curdo. Questa dinamica potrebbe diventare importante, ma è presto per dirlo.
Questi episodi di solidarietà verso il popolo curdo, ma anche il fatto che le proteste, benché nate nel Kurdistan iraniano, si siano poi diffuse nel resto del paese sono elementi da considerare come fattori di messa in discussione di quel razzismo sistemico di cui parlavi prima?
Non sarei così ottimista. Fino ad oggi, un dibattito pubblico su questo tema, a parte i tentativi di pochi intellettuali, non è mai stato aperto. Inoltre, a dare significato alle proteste è stata soprattutto la forte critica al patriarcato sistemico, che ha permesso che le proteste si diffondessero oltre la regione curda. I messaggi di solidarietà e la ripresa degli slogan della rivoluzione in Rojava sono rilevanti, ma la mia lettura è che non sono così importanti da significare che c’è una intenzionalità di superare le divisioni etniche e di smantellare il razzismo sistemico che privilegia i persiani. È vero che è un dato significativo, soprattutto se si pensa che storicamente i movimenti di protesta dopo la rivoluzione del 1979 sono stati, come dicevo prima, concentrati su Teheran, ma è presto per capirne la portata.