La “Scuola del macchinismo” di Davide Viero (Mimesis, Milano, 2020, euro 14) è un libro necessario per diversi ordini di motivi: da una parte perché rilancia modalità di riflessione interne alla professione docente sempre più lontane dalla percezione della categoria; e in ogni caso indispensabili per restituire consapevolezza sul senso di un agire, quello didattico, mortificato dall’imposizione di approcci tecnocratici e mortificanti, di cui è responsabile proprio il “macchinismo” del titolo, una deriva, al limite dell’impostura intellettuale, della recente ricerca pedagogica, egemone ormai in buona parte delle facoltà di scienze della formazione.
Lo studio di Viero induce allora a ripensare profondamente il senso stesso della disciplina pedagogica, umiliata da un’impostazione deterministica e positivistica, che spaccia il proprio approccio dogmatico ai problemi della conoscenza come fosse una procedura scientifica in qualche modo verificata, e quindi non evitabile. L’importante studio di Gert Biesta, tradotto in Italia all’inizio del 2022 (Riscoprire l’insegnamento), ha avuto, tra gli altri, anche il merito di mostrare le potenzialità di un pensiero pedagogico coincidente in modo profondo con la riflessione filosofica, nella migliore tradizione della cultura occidentale.
Nel caso di Biesta, il riferimento principale era al pensiero di Levinas, nella sua apertura alla dimensione dell’alterità come spazio del novum, senza il quale non ha senso l’esperienza stessa della trasmissione del sapere; ridotta invece, nella versione pedagogistica, a una dimensione narcisistica, a puro rispecchiamento del proprio sé, alla valorizzazione delle proprie doti di partenza, alla conferma ossessiva del proprio ambiente d’esistenza, fortemente competitivo, inteso come l’unico possibile e anche desiderabile.
Lo studio di Viero va ancora più in profondità in questa direzione; è un libro concreto, che parla di scuola, a partire dall’esperienza professionale quotidiana dell’Autore (senza cadere però in uno sterile riferimento personalistico, come è accaduto in altri casi); ma che, nello stesso tempo, fonda l’acuta analisi che viene proposta su profondi riferimenti di carattere filosofico e letterario. Per ribadire come, senza una visione del mondo declinata secondo i criteri dell’interpretazione e della trasformazione, che si opponga alla legittimazione dell’esistente, non può scaturire una teoria dell’educazione efficace, capace di acquistare valore nella dimensione pluralistica del confronto culturale.
Alla pedagogia, in effetti, non si può attribuire alcuna rilevanza in assenza di un profondo legame con la disciplina filosofica; e l’anti filosoficità (ma direi anche anti scientificità) del pedagogismo egemone dei nostri tempi è sintomo della dimensione servile (alla logica neoliberale) nonché antiutopica (rendere impossibile una critica dell’esistente) a cui è prona ormai anche buona parte dell’intellighenzia universitaria. Una pura logica tecnocratica finalizzata a un disvalore: un’utilità pratica di cui non si indagano le ragioni né le ricadute sul piano etico e della concreta vita degli individui; né i processi di alienazione che essa in qualche modo produce.
I riferimenti di Viero sono numerosi e plurali; i due principali sono però quelli, rispettivamente, a Luigi Pirandello e a Ernst Bloch. Già nel commentare su questo portale lo studio di Biestia, avevamo suggerito la possibilità di ampliare il riferimento filosofico da Lévinas a Bloch, dalla dimensione dell’alterità a quella, coincidente ma più ampia, dell’utopia. Il macchinismo, scrive Viero, «diventa problematico una volta che viene persa la trascendenza, e con essa la dialettica mezzi-fini subisce una riconfigurazione, con il mezzo che diventa fine, prospettando quella che Anders chiama “inversione prometeica”.» Il macchinismo, poi, «si traveste assumendo, nella scuola, la forma dei metodi, delle tecniche e delle procedure, nuove macchine molto più silenziose ma non meno alienanti». Pirandello diventa, da questo punto di vista, un interprete irrinunciabile di tale antropologia negativa, «che sfocia in esiti individualisti e nichilisti».
I testi maggiormente citati sono il saggio L’umorismo e la critica alla cinematografia contenuta nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore. La riduzione dell’umanità a pura protesi di una razionalità esclusivamente meccanica («Che cosa siete voi? Una mano che gira una manovella») che toglie all’uomo la dimensione di superfluità, gli azzera l’energia vitale costringendolo entro orizzonti di senso prestabiliti; ovvero, come viene scritto ne Il fu Mattia Pascal, il «triste privilegio: quello di sentirci vivere» viene riempito «con una realtà fuori di noi.»
Non è difficile proiettare quanto qui espresso nella degenerazione che la scuola pubblica italiana ha conosciuto in questi decenni a seguito della radicale azione riformatrice: una soggettività, quella dello studente, che deve essere piegata alla logica deterministica imposta dalla ragione neoliberale, che non prevede l’esercizio di un’intelligenza capace di immaginare l’alterità (Levinas, Biesta) o il novum (Bloch), ma destinata ad aderire incondizionatamente all’esistenza. Decisivo è, in questo senso, il noto, nonché sciagurato, costrutto di competenza («[…] può essere vista come il tentativo […] di separare l’intenzione dell’azione dalla stessa azione, portando l’attenzione solo sul risultato concreto e tangibile di quest’ultima, trascurando ogni teleologia e chiudendo il senso del fare nel tautologico e pedissequo “si fa perché si deve fare”.»
In altre parole, solo determinate procedure, che il docente non ha la preparazione per determinare da sé, possono raggiungere i risultati attesi, coincidenti non con determinati livelli di emancipazione culturale, ma con capacità pratico-attive spendibili in contesti lavorativi. Non solo, Viero mette in evidenza anche la malafede ideologica di quest’impostazione pedagogistica, che pretende addirittura di valorizzare il pensiero critico, mentre invece è responsabile di una condizione d’ignoranza sempre più diffusa: «una scuola che fornisce finanche strumenti adattivi spacciati per spirito d’iniziativa come l’”inventarsi” un lavoro attraverso uno spirito imprenditoriale (animale) che maschera di iniziativa soggettiva l’adattamento alle condizioni date, in spregio all’art.1 della Costituzione, che sottende il lavoro come forma di espressione di sé.» Un quadro desolante, claustrofobico, proprio perché rinchiuso in un recinto dominato dall’alienazione, dall’uniformità e dall’adesione conformistica a un modello di società fondato sulla gerarchia, la selezione, l’esclusione. Nel capitolo intitolato “alienazione”, tutto ciò viene ampiamente descritto.
É a questo punto che il testo propone la positività di un’aspirazione messianica, di uno sguardo alla trascendenza, all’immaginazione di un ordine diverso che solo può cercare di mettere in discussione la “gabbia d’acciaio” che l’ordine neoliberale vorrebbe imporre. Questo spiega il riferimento, in particolare nella parte conclusiva dello studio, al pensiero di Ernst Bloch, declinato nelle sue potenzialità pedagogiche. Giova ricordare che Bloch teorizza un “trascendere senza trascendenza” e, nella sua aspirazione escatologica, rimane fedelmente ancorato a una prospettiva materialistico-dialettica, scevra però da quell’impostazione positivistica che aveva ridotto tale tradizione di pensiero a un banale schema metafisico.
L’autentica attività pedagogica, quella coerente con i valori costituzionali e destinata a favorire la formazione di una soggettività autonoma dal punto di vista della capacità critica, proprio impedendo che il sapere trasmesso si fossilizzi nell’ambito ristretto dell’esperienza soggettiva dell’alunno, per aprirsi invece all’alterità, coincide in effetti con ciò che Bloch scrive ne Il Principio-speranza: «far agire un tipo di sapere che non è più riferito in maniera essenziale a ciò che è già divenuto, ma alla tendenza di ciò che sorge; in tal modo esso per la prima volta offre il futuro alla presa teorico-pratica», laddove si evince come non si tratti affatto di un sapere astratto, ma di una valorizzazione della tensione teoria-prassi, indispensabile per immaginare processi di trasformazione.
Laddove invece nella scuola riformata l’ossessione sulla pratica, sulla laborialità, in assenza di assunti teorici, spinge esclusivamente ad attività etero-dirette, a “comodi pre-pensati”, a un operatività indotta dove il soggetto cessa di essere protagonista. Nella prospettiva volta alla trascendenza, scrive Viero, «l’educativo cambia statuto epistemologico e da scienza passa al campo, aperto, dell’arte.» Un’azione di resistenza contro «la ratifica del mondano e all’azione educativa come opera di adattamento».
Un testo che riprende una considerazione pedagogica decisiva, relativa alla critica del gusto, piuttosto trascurata: la regressione del bagaglio di conoscenza delle nuove generazioni è strettamente collegata alla diminuita attitudine ad accostarsi all’esperienza estetica (in termini di concentrazione, durata temporale, profondità ermeneutica), responsabile dell’incapacità di saper trascendere i propri orizzonte d’esistenza. Come scrive Pirandello -citato da Viero- nel saggio Arte e scienza: «perché il fatto estetico avvenga, bisogna che si abbia non l’espressione, la forma astratta, meccanica, oggettiva dell’intuizione, ma la soggettivazione di essa; […] bisogna, in altri termini, che l’intuizione non sia l’espressione formata oggettivamente, ma la forma concreta, libera e soggettiva di una impressione». Il saggio si chiude dunque con questa celebrazione del ruolo didatticamente prioritario, in quanto decisivo per un potenziamento della capacità gnoseologiche, dell’arte, alternando in modo suggestivo citazioni pirandelliane e blochiane.
Un testo, quindi, che rappresenta una boccata d’aria fresca a confronto con la prosa deprimente e intellettualmente oppressiva del pedagogismo corrente, e importante nel suo ribadire come un discorso educativo non possa prescindere da una fondazione autenticamente filosofica; nonché il valore della dimensione estetica come esperienza conoscitiva emancipatrice. Una riflessione che dovrebbe essere fatta propria dalla categoria docente, per acquisire una capacità di resistenza culturale che vada oltre l’opposizione ai singoli provvedimenti, spesso interpretati in modo decontestualizzato. Per poter adeguatamente reagire, ribadendo la propria statura intellettuale, a mortificanti corsi di formazione cui saranno obbligatoriamente sottoposti nei prossimi anni; corsi privi di qualsiasi impostazione dialettica, e finalizzati a imporre procedure standardizzate d’insegnamento e, per ciò stesso, inclini a una relazione umana di tipo autoritario.