di plv *
José Saramago era uno spaccamaroni.
E va scritto così, senza esitazioni, con tanto di turpiloquio e vocabolo assente da ogni dizionario. Occorre mettere in disparte, da subito e senza timidezza, quel senso reverenziale che rischia di intimidirci ogni volta che parliamo di qualcuno di importante.
Perché è vero, José Saramago era un grande scrittore, ha regalato alla storia della letteratura testi indimenticabili che forse, direbbe lui, non salveranno il mondo, anche se possono ancora cambiare la vita di qualcuno. Ma se i suoi testi hanno questa forza è perché José Saramago era anche molto altro.
José Saramago era comunista. Ed era un comunista che era capace di vedere e comprendere le nuove lotte, che entrava nei dibattiti e lo faceva senza lesinare critiche. Come nei confronti del regime cubano, che nel 2003 Saramago decide di criticare apertamente, pur mantenendo saldo il suo appoggio alla rivoluzione e alla sua eredità. Oppure verso il Partido Comunista Português, di cui ha fatto parte dal 1969 e con cui i rapporti sono stati a volte turbolenti, specialmente durante la rivoluzione portoghese del ’74-’75. Solo quando era in Messico ci teneva a puntualizzare: «Sono comunista, ma in Messico sono zapatista».
José Saramago era un attivista. Sia nelle vesti di romanziere che nelle sue dichiarazioni pubbliche, Saramago agiva non per descrivere, ma per incalzare la realtà. E se abbiamo dubbi andiamoci a leggere il discorso del 15 marzo 2003 contro la politica guerrafondaia di Bush e Blair; o le sue prese di posizione contro l’ingresso di Portogallo e Spagna nella Comunità Europea; o le esternazioni contro la politica di Israele. Ma anche nei suoi romanzi si possono facilmente individuare prese di posizione contro un preciso ordine delle cose che occorre modificare. Perché secondo Saramago nessun sopruso è eterno, ogni sopraffazione può essere circostanziata e storicizzata, ogni sopraffazione ha un inizio e quindi può avere una fine, può essere affrontata e dunque abbattuta.
Saramago non era un uomo amareggiato dalla vita, né un pessimista, né un nichilista.
José Saramago era un rivoluzionario.
Giochi pericolosi
Il 25 aprile del 1974, José Saramago ha all’attivo un paio di libri di poesie, un romanzo pubblicato e uno nascosto che sarà pubblicato postumo, diversi articoli e due libri di cronache. È già un riferimento dal punto di vista culturale, ma è ben lontano dall’essere uno scrittore affermato.
Non sono in molti a pensarla in questo modo, ma a mio avviso è con gli articoli pubblicati sul Diário de Lisboa tra il ’72 e il ’73 e poi radunati nella raccolta As opiniões que o DL teve (non pubblicata in Italia), che Saramago cambia passo: compresso nelle righe di una colonna di giornale, Saramago veste i panni dell’equilibrista impegnandosi a criticare un regime fascista in piedi da decenni, riuscendo a sfuggire alle strettissime maglie della censura. Per riuscirci ha solo un modo: usare le armi che lo stesso regime inavvertitamente lascia a sua disposizione.
Negli articoli, Saramago analizza in maniera chirurgica il dispositivo di potere di un regime che ha ereditato il linguaggio e lo stile del suo ex-leader, morto nel 1970, José António Salazar. Ma non è un’operazione semplice: il regime portoghese non ha nulla dello stile roboante del fascismo italiano. Le dichiarazioni dei suoi leader sono esplicite quando si tratta di attaccare le rivolte nei territori coloniali, ma estremamente melliflue rispetto al governo del Portogallo, tanto che il filosofo José Gil, analizzando il linguaggio di Salazar, parla di una «retorica dell’invisibilità» in cui lo Stato fascista è narrato come «una persona per bene» e i cittadini sono disposti a scegliere l’anonimato per il bene della Nazione.
Sono i questi meccanismi discorsivi che Saramago aggredisce, sostando sul filo del rasoio, tra l’ironia e l’affronto politico ad un regime pronto a far scattare arresti arbitrari contro chi è in disaccordo. Non sempre gli riesce: in vetrina nella Fundação Saramago di Lisboa sono esposte le stampe degli articoli dell’epoca con le correzioni e i tagli imposti dalla censura portoghese. Inoltre, As opiniões que o DL teve contiene quattro articoli in cui non è indicata la data di pubblicazione. Sono gli articoli di cui la censura ha impedito la stampa.
In uno di questi Saramago centra una delle modalità retoriche tipiche dei membri di un regime marcato dalla retorica dell’invisibilità»: si tratta delleufemismo, il meccanismo utilizzato per alleggerire a livello retorico una realtà di relazioni estremamente autoritarie. A seguito di una dichiarazione in cui César Moreira Baptista, Segretario di Stato dell’Informazione, parla della necessità di una «decompressione dei diritti e delle garanzie individuali», Saramago scrive:
«Ma dove si trova, alla fine, l’eufemismo? L’eufemismo si trova sottolineato (e non da noi) nella parola decompressione (dei diritti e delle garanzie individuali). […] Nonostante tutto questo tergiversare stilistico, si fa una confessione: quella per cui i diritti e le garanzie individuali dei portoghesi sono compressi. Tutti lo sapevamo, ma allo stesso modo sapevamo quanto minuziosamente ci era spiegato che questa compressione non era tale» («O eufemismo como política»).
Saramago è un maestro, ma il gioco è rischioso. Il suo arresto è previsto per il 29 aprile 1974.
L’anno della nascita di José Saramago
Il dramma teatrale La notte (1979) racconta l’asservimento dei direttori di giornali, la mordacchia della censura sull’informazione e soprattutto racconta la loro fine. Il dramma è nella notte che cambia la storia del Portogallo contemporaneo.
All’alba del 25 aprile 1974 il Movimento das Forças Armadas occupa le strade di Lisbona per destituire il governo presieduto da Marcelo Caetano e invita la cittadinanza a chiudersi in casa. La popolazione disobbedisce e invade il Largo do Carmo dove Caetano si è rinchiuso in un mutismo che durerà fino a sera, quando sarà costretto a salire su un aereo e fuggire in Brasile. Ma la rivoluzione non dura un giorno, dura almeno un anno e mezzo e probabilmente anche di più, visto che è nel 1961 che il regime portoghese inizia il suo declino inesorabile, con l’inizio delle rivolte in Angola.
Nei giorni che precedono il 25 de Abril, Saramago sta scrivendo un poema che narra in forma allegorica la storia di un popolo soggiogato da un regime autoritario. Ha iniziato a scriverlo il 16 marzo 1974, a seguito di un golpe fallito contro il regime, ma con il 25 de Abril si interrompe: il contesto è cambiato, non c’è più bisogno di un testo del genere. Saramago partecipa alle piazze e alle discussioni pubbliche e nell’aprile 1975 lo ritroviamo alla direzione del Diário de Notícias, uno dei principali organi in appoggio del processo rivoluzionario. Gli articoli che vanno dal 14 aprile al 25 novembre 1975 sono contenuti nella raccolta Os apontamentos (anche questa inedita in Italia).
Ci si aspetterebbe un cambio di stile e invece Saramago non risparmia le critiche al processo rivoluzionario, a personaggi che stanno ponendo le basi della loro carriera, al suo stesso partito: è un militante a tutti gli effetti, impegnato a indirizzare il paese verso il socialismo, nella consapevolezza di quanto questo possa essere rischioso:
«Il Portogallo sarà socialista, o morirà, perlomeno con dignità. Questo è l’unica strada per la libertà e la liberazione. Tutto il resto è capitalismo, fascista o social-democratico.» («A mão do imperialismo»).
Il Portogallo rivoluzionario è un paese in tumulto, conteso da forze rivoluzionarie, forze nostalgiche e forze che appartengono al nuovo mondo che si sta affacciando, quello delle socialdemocrazie del Mercato Unico. Poco a poco Saramago si accorge che è necessario, come titola uno dei suoi articoli, «Salvare la rivoluzione», e incita la popolazione a mantenere alta l’attenzione. Intuisce cosa sta per avvenire e afferma più volte che il Portogallo rischia di ritornare indietro o di prendere derive pericolose. Nel frattempo ha ripreso il poema che ha lasciato nel cassetto dal 25 de Abril e anche grazie a questo esempio si può dire che per lui la scrittura ha un valore pienamente militante: sentendo che la situazione sta cambiando, Saramago pensa sia necessario ricordare a tutti il passato che il paese sta cercando di superare, e per questo descrive in termini distopici la realtà che il paese ha vissuto fino a poco tempo prima. Il libro esce proprio in quei mesi complicati, col titolo L’anno mille993.
Nell’agosto del ’75, Saramago invoca una nuova alleanza tra il popolo e parte del Movimento das Forças Armadas contro una possibile contro-rivoluzione. La sua linea è chiara:
«o questa rivoluzione si suicida, e per farlo basta che continui per il cammino che sta già percorrendo, o questa rivoluzione si recupera attraverso l’unica via che le lasciano coloro che desiderano liquidarla: la via della violenza esercitata implacabilmente contro i responsabili della violenza, chiunque essi siano». («Poupar o inimigo»).
Nel 1975, Saramago non è uno scrittore affermato, ma è già un maestro. La formula utilizzata per invocare la violenza rivoluzionaria è volutamente involuta perché chi la scrive sa perfettamente che sta maneggiando un argomento pericoloso e decide di smontare l’enfasi delle frasi.
Il suo appello rimane inascoltato e il processo rivoluzionario portoghese termina il 25 novembre 1975. Quel giorno un gruppo di paracadutisti tenta, mediante un’azione militare, di dare nuova linfa alla rivoluzione. Il paese rimane col fiato sospeso. Nella notte Saramago scrive l’ultimo dei suoi articoli «E o socialismo?» in cui chiede alle forze rivoluzionarie di dare seguito alle azioni dei paracadutisti. Ma il tentativo di questi ultimi viene disinnescato e il Portogallo si avvia a entrare in quella che Saramago anni dopo, in un’intervista che troviamo nel Diario dell’anno del Nobel (28 giugno 1998), chiamerà «normalità». A contrastare tale “normalità” Saramago dedicherà i suoi restanti 35 anni di vita di militanza e di carriera letteraria.
Non credo che quei folgoranti 35 anni, sarebbero stati possibili senza le consapevolezze maturate nei tormentati mesi del processo rivoluzionario portoghese. Tempo fa si è scritto, da queste parti:
«Prendere parte al movimento rivoluzionario significa comprendere che la tua vita non è scritta nei piani del potere, ma puoi scriverla tu, almeno fino a un certo punto».
È nella lotta quotidiana per la rivoluzione, nella rabbia per la sconfitta, che nasce il grande scrittore.
Non c’è nessun dopoguerra
La rivoluzione prende la piega della smobilitazione. Si afferma una socialdemocrazia che assorbe molte delle conquiste ottenute tra il’74 e il ’75, ma che non fa fino in fondo i conti col passato del paese.
Il Portogallo cambia, gli anni passano. Saramago, isolato dal Partito e dai colleghi, nei mesi successivi alla rivoluzione decide di non cercare lavoro e di dedicarsi alla scrittura. Si guadagna da vivere con alcune traduzioni e con diversi testi scritti su commissione. Nel frattempo si dedica ad una strenua battaglia contro l’insorgere di una possibile nostalgia per il passato: Una terra chiamata Alentejo, Memoriale del Convento e soprattutto L’anno della morte di Ricardo Reis riscrivono il passato del Portogallo e smontano quei miti su cui il fascismo si era poggiato. Sono i libri che lo conducono al successo mondiale.
Con gli anni Novanta la sua produzione prende una virata decisa. L’ambizione è quella di scrivere testi che guardino al di là del contesto portoghese e nel 1995, quando la cosiddetta “guerra fredda” è finita da poco, Saramago pubblica Cecità, o meglio Ensaio sobre a cegueira, «Saggio sulla cecità». È con questo titolo che da qui in avanti mi riferirò al romanzo.
In questi mesi se n’è sentito parlare parecchio, quasi quanto la Storia della Colonna infame di Manzoni, o La Peste di Camus. È la storia di un’epidemia che colpisce gli abitanti di una città diffondendosi in maniera inarrestabile. La cecità bianca di cui gli abitanti della città si ammalano non ha cura, non ha cause scatenanti, non ha modo di essere circoscritta perché il contagio è talmente rapido che il Governo della città è totalmente sovrastato. Le uniche misure che l’amministrazione attua sono di quelle di concentrare le persone infette in luoghi di contenimento, ma presto l’azione si rivela inutile. Tutti diventano ciechi. Tutti tranne una donna, che nel romanzo è indicata come «la moglie del medico» e che per qualche strana ragione conserva la vista, assistendo all’orrore che si scatena nella città.
L’analisi del Saggio sulla cecità meriterebbe tempo e spazio, per la vastità di temi che si annidano nel romanzo. Di certo va sottolineato che le azioni della moglie del medico sono pienamente politiche: la sua decisione di osservare senza gettare giudizi morali, la sua presa in carico di un piccolo gruppo di ciechi, il suo ricorso alla violenza contro altri ciechi che decidono di approfittare della situazione violentando le donne con cui sono rinchiusi e uccidendone una, rivestono un senso sui cui sarebbe bene soffermarsi.
Tuttavia, nel contesto in cui ci troviamo, l’urgenza è quella di scongiurare un grande malinteso che si annida fra le righe di diversi commenti che abbiamo letto e ascoltato negli ultimi mesi: questo romanzo non parla di un’epidemia. Non parla di come diventano gli esseri umani quando una malattia inaspettata li soverchia, non parla di quello che abbiamo vissuto a partire da febbraio. La moglie del medico lo dice chiaramente in un dialogo col marito nelle ultime pagine: «Non penso che siamo diventati ciechi, penso che siamo ciechi, Ciechi che vedono, Ciechi che, vedendo, non vedono».
La cecità di cui parla Saramago è la nostra normalità. Anzi, è la normalità che si è costruita negli anni. È la normalità in cui le strutture politiche che abbiamo sono assolutamente inutili, capaci al massimo di assumere decisioni restrittive, ma poco altro. È la normalità che continuerà a descrivere nei romanzi successivi e nelle sue dichiarazioni: è la normalità del mercato unico, è la normalità di un mondo dominato dalle multinazionali, dalla finanza, da poteri che sovrastano ogni nostra struttura politica e sociale.
Non solo: è la normalità che si è costruita nel corso di secoli. Saramago non entra nella polemica sul cosiddetto postmoderno, ma si dimostra perfettamente consapevole di quanto scritto da Habermas, Lyotard e Jenkins: «Siamo al termine di una civiltà e del processo di passaggio da un tempo con radici nella Rivoluzione Francese, nell’Illuminismo, nell’Enciclopedia, che tende a scomparire. Non so quello che verrà». Non è un caso che quella narrata da Saramago sia una cecità bianca: il problema non è il buio, l’assenza di ragione o l’irrazionalità, il problema è la nostra razionalità, sono i lumi che ci stanno accecando: «si arriva più facilmente su Marte che al nostro simile» dirà nel 1998 nel discorso alla consegna del Nobel.
L’epidemia è un allarme che ci mostra il mondo per come è. Ci segnala che i nostri modi per reagire alle difficoltà non sono sufficienti, che di fronte ai drammi che stiamo attraversando siamo ciechi. E, come afferma la moglie del medico, «i ciechi sono sempre in guerra, sono sempre stati in guerra».
Never Ending Wars
Il 15 Febbraio del 2003, milioni di persone si riversano nelle strade di tutto il mondo per dire “no” all’imminente bombardamento dell’Iraq. Un mese dopo, José Saramago è a Madrid per la una nuova manifestazione e di fronte ad una platea di 400mila persone legge il Manifesto contro la guerra all’Iraq e si scaglia contro le politiche di Bush e Blair: «Vogliono la guerra, ma non li lasceremo in pace […] La terra appartiene ai popoli che la abitano, non a quelli che, con il pretesto di una rappresentazione democratica perversa, alla fine li sfruttano, li manipolano, li ingannano».
La guerra in Iraq inizia il 20 marzo. Un anno dopo Saramago pubblica il Saggio sulla lucidità.
La vicenda si svolge in una città senza nome, capitale di un paese senza nome. I risultati delle elezioni sono sorprendenti: al primo turno la percentuale di voti in bianco supera l’70%. Al secondo turno la percentuale è ancora più alta. Il Governo va nel panico. Un po’ come ha appena fatto Trump che, non potendo arrestare tutta la popolazione si è auto-arrestato circondando la Casa Bianca con un muro, il Governo della città infligge una pena a se stesso, si auto-esilia e abbandona la città, confidando che il caos renda necessario il suo ritorno. Ma in città regna l’ordine. È una rivoluzione pacifica, impeccabile e soprattutto magica. Nessuno sa come abbia fatto la popolazione a organizzarsi, al contrario Saramago riveste la questione di organizzazione politica di un alone di realismo magico. È la «lucidità» della popolazione che ha costruito un “no” collettivo senza precedenti.
Il Governo in esilio inizia a ragionare su come riguadagnare la propria legittimità, fino a quando nel Consiglio dei ministri non avviene questo scambio:
«Nel frattempo andremo a tentoni, alla cieca, si lamentò il presidente. Il silenzio fu tale che avrebbe smussato la lama del più affilato dei coltelli. Sì, alla cieca, ripeté senza accorgersi del turbamento generale. Dal fondo della sala, si udì la voce tranquilla del ministro della cultura, Tale e quale a quattro anni fa.»
Poco dopo al Governo arriva una strana segnalazione: una lettera che segnala che quattro anni prima, durante l’epidemia, una donna aveva mantenuto la vista e forte di questa sua posizione ha pure commesso un omicidio. Il personaggio in questione è il primo cieco del Saggio sulla Cecità e la donna è ovviamente la moglie del medico, il capro espiatorio cui il Governo darà la caccia per destabilizzare la situazione e tornare al potere.
Il ciclo dei romanzi allegorici di Saramago è caratterizzato da ambientazioni anonime, prive di storia, in cui ciascuno possa riconoscere la propria città o il proprio paese. Ma tutt’ad un tratto, arrivati a metà del Saggio sulla Lucidità, la Storia ritorna: questa città senza nome ha un passato e lo conosciamo bene perché è stato raccontato in un altro romanzo.
Per i portoghesi il legame del Saggio sulla Lucidità con il Saggio sulla Cecità è chiaro fin dal titolo, ma Saramago ha dichiarato di aver compreso che i due libri sono connessi a metà della scrittura, e in effetti a metà del libro la vicenda prende una svolta inaspettata. Eppure il legame è vincolante, la cecità e la lucidità sono connesse.
In realtà è lo stesso Governo a creare questo legame, ne ha bisogno per trovare un capro espiatorio. Lo individua nella persona che quattro anni prima si era assunta la responsabilità di aiutare e guidare chi le stava attorno, anche ricorrendo all’uso della forza. Ma in questo nuovo romanzo, la moglie del medico è un personaggio come un altro, non è investita di alcuna responsabilità, né ha risposte rispetto a quanto è avvenuto. Ciononostante il Ministro dell’Interno di questo Governo ne ordina l’uccisione, individuandola come l’untrice di questa nuova epidemia. E nel momento della sua uccisione, nelle ultime righe del romanzo sappiamo che qualcuno, lì vicino, è appena diventato cieco. L’azione repressiva del Governo dà avvio ad una nuova epidemia.
Eppure, è anche vero quanto sostiene Daniele Giglioli in Stato di minorità: in realtà è la lucidità stessa ad aprire le porte ad una nuova epidemia:
«Il peccato originale della città di Saramago era stato quello di limitarsi a espungere il governo. […] Ma ciò che non si vuole vedere ritorna come sintomo, ed è per questo che il romanzo si chiude mettendo in scena la ricaduta della cecità».
Giglioli svela un grande fraintendimento, presente anche nei testi di diversi critici: il Saggio sulla lucidità non è un romanzo sulla rivoluzione. È un romanzo sul fallimento di una rivoluzione. E non è il Governo che la fa fallire, quanto piuttosto il fatto che non si è agito per impedirlo. Lo dice chiaramente la moglie del medico nel dialogo già citato del Saggio sulla Cecità: dopo esser dovuta ricorrere alla violenza uccidendo il capo dei ciechi colpevoli di aver imposto un ordine coloniale tra i ciechi, la donna chiarisce il motivo per cui si è arrivati a quel punto: «non abbiamo saputo resistere come avremmo dovuto».
Saramago non era persona da poter credere in una rivoluzione che non modificasse la sostanza del mondo che aveva attorno. Saramago è uno che ha provato a costruire una rivoluzione con idee chiare e precise. Invece nella città “rivoluzionaria” del romanzo nulla cambia: non cambiano i rapporti tra ricchi e poveri, tra i generi, non c’è redistribuzione della ricchezza. Quella descritta nel Saggio sulla lucidità non è la rivoluzione di Saramago, è il suo fallimento.
Volenti o nolenti, nel libro ci viene detto che quella cosa che ancora chiamiamo democrazia non solo è insufficiente a concepire una rivoluzione, ma è quel che ci costringe in una cosiddetta «normalità», dove l’unico spazio di manovra che ci viene lasciato è quello di una guerra cieca fra di noi.
Epilogo: pesci ciechi in acque torbide
22 aprile del 1975. Le elezioni del Portogallo rivoluzionario sono alle porte e si discute di come interpretare un possibile voto in bianco da parte della popolazione. Saramago taglia con l’accetta il dibattito:
«il voto in bianco è una forma di protesta contro 48 anni di fascismo che, loro sì, sono i veri responsabili di questa discussione così poco chiara, in cui si cerca di pescare voti come in acque torbide si pescano pesci ciechi…» («O branco em discussão»)
Saramago intuisce che anni di oppressione rendono la popolazione incapace di agire, come pesci ciechi, vittime a disposizione di qualunque carnefice. In realtà questo non stupisce. A stupire è il fatto che più di trent’anni dopo aver scritto queste parole, decenni dopo la caduta del fascismo, Saramago nota le stesse difficoltà.
Tuttavia i suoi pensieri, forti dell’esperienza, sono lievemente diversi rispetto a prima: le schede bianche, la non-azione, per quanto siano legittimi conducono al crollo, se non sono sostanziati da qualcos’altro. È stato così per la rivoluzione portoghese ed è così nel Saggio sulla lucidità che però a questo punto non è un racconto fuori dal tempo: contiene riferimenti intertestuali che rimandano un altro romanzo, la cui vicenda precede quanto viene narrato; ha riferimenti concreti nella vita di Saramago; ha riferimenti nella nostra storia, quella che ha visto fallire un movimento che diceva di No ad una guerra che non è mai finita.
Ha riferimenti nella nostra vita di oggi.
Saramago è morto dieci anni fa, il 18 giugno 2010.
La normalità è un problema oggi più che mai.
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* plv è un attivista e insegna, da precario, italiano e storia nelle scuole superiori di Bologna. Ha collaborato con Giap per diverse cronache da Bologna (qui e qui), da Ventimiglia (qui e qui) e dalla penisola iberica (qui e qui). Ha insegnato letteratura portoghese e brasiliana e sulla rivoluzione portoghese ha scritto un articolo per Nuova Rivista Letteraria: «Garofani rossi per sbiancare la storia» (pdf qui).
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