L’espansione di Amazon tra lavoro e ambiente

Il 19 aprile 2024, si è tenuta al Centro Sociale Django di Treviso la presentazione del libro Il magazzino: Lavoro e macchine ad Amazon (2023, Codice Edizioni) con l’autore Alessandro Delfanti, docente in sociologia del lavoro presso l’Università di Toronto ed esperto di capitalismo digitale. Intervenivano anche Marco Simionato e Fabio Tullio del Coordinamento No Maxi Polo Casale-Quarto-Roncade, che dal 2020 si batte contro i progetti di costruzione di enormi magazzini per la logistica su suolo verde nella bassa trevigiana. Proprio la settimana scorsa, la giunta di Casale sul Sile ha annunciato la cancellazione del progetto Maxi Polo di Casale-Quarto, che sarebbe stato la più grande opera di cementificazione nella provincia di Treviso, su un’enorme area di intervento di 500.000 mq.

Secondo le informazioni trapelate sulla stampa locale, il Maxi Polo di Casale-Quarto era inizialmente destinato ad Amazon. Tuttavia, il colosso di Seattle – forse scoraggiato dall’allungamento dell’iter per l’ottenimento dei permessi, allungamento dovuto anche alle osservazioni del Coordinamento No Maxi Polo sulle criticità ambientali del progetto – ha deciso di spostare le proprie mire sul comune di Roncade, su un’area di intervento di “soli” 230.000 mq. I permessi per il progetto di Casale-Quarto alla fine sono arrivati, ma il progetto è comunque naufragato sotto il peso dell’avventurismo dei suoi stessi proponenti, tra cui figura il noto cavatore e cementificatore Grigolin. Terreni pignorati, aste deserte, contenziosi tra i diversi proprietari, milioni di IMU non pagati, ecc. Tuttavia, il progetto per il Maxi Polo Amazon di Roncade resta in piedi. Inoltre, la Sindaca di Casale sul Sile Stefania Golisciani ha chiesto un annacquamento della legge regionale sul consumo di suolo, già nota per essere suscettibile alle deroghe più permissive, in modo da poter ripresentare un progetto simile. In ogni caso, la cancellazione del progetto di Casale-Quarto è un’importante vittoria contro il consumo di suolo nella seconda regione più cementificata d’Italia e in una delle zone con l’aria più inquinata d’Europa.

Moderava il dibattito Gabriela Julio Medel, ricercatrice in sociologia del lavoro presso l’Università di Padova. Gabriela ha esordito notando come il fenomeno Amazon concentri una molteplicità di aspetti chiave delle trasformazioni in corso nel capitalismo odierno: digitalizzazione avanzata dei processi lavorativi ma anche dei consumi, con la relativa sorveglianza resa possibile dall’intelligenza artificiale, e ristrutturazioni presentate sotto una patina di “green” che però nascondono un aumento, in forme insostenibili, dei consumi energetici e delle risorse naturali, a cominciare dal suolo verde.

Alessandro Delfanti è originario di Piacenza, la provincia che ha ospitato – a partire dal 2011 – il primo magazzino Amazon in Italia, nel comune di Castel San Giovanni. Nei primi anni il centro di distribuzione serviva solo Milano, quindi paradossalmente i piacentini potevano lavorarci ma non ordinare i prodotti che vi transitavano. In un’epoca in cui si sapeva ancora poco del lavoro ad Amazon, si trattava dunque di un osservatorio privilegiato sull’impatto del capitalismo digitale avanzato sui processi lavorativi.

Nonostante le tecnologie di punta utilizzate o, meglio, proprio a causa di esse, il lavoro nei magazzini Amazon è caratterizzato da monotonia e intensi sforzi fisici. L’acquisto con un click mette in moto una catena d’effetti che sicuramente passano attraverso sistemi digitali, ma che muovono anche le persone che materialmente preparano i pacchi, li spediscono e li consegnano. Le tecnologie sviluppate dalle aziende del capitalismo digitale hanno la funzione di “sorvegliare e punire” il lavoro umano, aumentandone ritmi e produttività.

Come il Fordismo, anche il cosiddetto “Bezosismo” ha sia una dimensione tecnologica sia una dimensione ideologica. Dal punto di vista tecnologico, la “Amazonificazione” del lavoro trasforma tutto in informazione. Dalla lavoratrice, alla merce, allo scaffale, in un magazzino Amazon tutto viene identificato con un codice a barre. Il principale strumento di lavoro è la “pistola spara-codici”, che fornisce istruzioni alla lavoratrice e ne controlla la performance. Dal punto di vista ideologico, c’è lo sforzo volto a “convincere i lavoratori e le lavoratrici che Amazon è un posto figo, divertente, interessante. Si può scegliere la musica in magazzino, a ogni turno i ‘team’ si riuniscono per un ‘briefing’, in cui si fa stretching, balletti, qualcuno deve raccontare una storia, si applaude perché il team ha mobilitato 10,000 pezzi in più del turno precedente. È quello che Gramsci chiamava il ‘ricatto del consenso’, la creazione di un’ideologia che cerca di convincere che lavorare ad Amazon è speciale, è bello aver consegnato 100,000 pezzi perché abbiamo fatto contenti i bambini per il giorno di Santa Lucia”. Questa non è una novità. La particolarità di Amazon è la grande frizione tra retorica e condizioni materiali: un lavoro ripetitivo, con ritmi elevati, esigenti richieste di flessibilità e straordinari, tassi d’infortunio molto alti e politiche antisindacali estremamente repressive. “Per molti lavoratori la scintilla che fa scattare la voglia di mobilitarsi, o di andarsene da Amazon, è proprio la distanza tra questi due poli”.

Per svolgere la sua ricerca, Delfanti è tornato ai classici operaisti degli anni ’60, in particolare Romano Alquati, con le sue inchieste operaie alla FIAT e all’Olivetti. “Ho trovato molte cose simili. Per esempio, Alquati parlava del ‘mito della FIAT’. La promessa di emancipazione economica ma anche sociale e culturale, che in certa misura faceva presa sui migranti provenienti dal sud rurale, attraverso il lavoro in un posto ad alto tasso tecnologico.” Delfanti ha trovato presso i lavoratori atteggiamenti che andavano dall’adesione al “mito di Amazon” alla totale disillusione, passando per un certo pragmatismo intermedio: “Ho parlato con lavoratori che si erano già fatti il giro dei magazzini di Piacenza. Alcuni dicevano: ‘Ad Amazon devi sorbirti tutte queste menate su quant’è bello lavorare lì, però è riscaldato d’inverno, condizionato d’estate, pagano sempre puntuali, non c’è una cooperativa che ti fotte…’. Quindi Amazon non era considerato il peggio rispetto ad altri posti, quelli in cui poi è intervenuto il SI Cobas, trasformandoli anche in modo radicale. Un’altra specificità di Amazon è che lì i Cobas non sono mai riusciti a entrare, mentre sono presenti i confederali”.

Lo sciopero del 2017 a Castel San Giovanni non è stato il primo sciopero ad Amazon. È stato però il primo sciopero a esplodere mediaticamente. Improvvisamente, Piacenza si è trovata al centro del mondo, con grandi giornali americani e politici nazionali quali Salvini accorsi ai cancelli del magazzino. Gli scioperi della logistica a Piacenza sono all’ordine del giorno da circa tredici anni, con forme di lotta e rivendicazioni molto più dure di quanto si è visto ad Amazon. Tuttavia la rarità degli scioperi ad Amazon ha contribuito a fomentare lo scalpore.

Per quanto riguarda l’impatto di Amazon sui territori, le promesse che consumo di suolo e aumento del traffico saranno ripagati dai nuovi posti di lavoro sono in buona parte fuorvianti. Senz’altro Amazon ha creato 1,500 posti di lavoro a tempo indeterminato a Castel San Giovanni, un’espansione dell’occupazione senza precedenti nel piccolo comune rurale. “Ma ci sono ricerche che mostrano come, analizzando tutta la regione circostante, il saldo è negativo, perché chiudono i negozi di prossimità, ecc. Inoltre questi posti di lavoro a tempo indeterminato ti portano alla pensione solo sulla carta. Un famoso studio sui magazzini Amazon in California ha riscontrato un turnover annuale del 200%. Questo vuol dire che i lavoratori resistono in media solo per sei mesi. Ciò è dovuto in parte al burnout e agli infortuni. Ma Amazon ha addirittura delle politiche attive per accompagnarti alla porta, con incentivi alle dimissioni volontarie sotto forma di bonus finanziari o anche di formazione per trovare lavoro altrove. Amazon sa che i lavoratori non riescono a correre ai ritmi richiesti per più di qualche anno. Quindi lavoro a tempo indeterminato non coincide con lavoro stabile.”

Amazon ha inoltre tassi d’infortunio estremamente alti: “Negli Stati Uniti parliamo del doppio rispetto alla media del settore, principalmente a causa dei ritmi estenuanti, della ripetitività dei movimenti e della flessibilità dell’orario. Di qui le foto delle file di ambulanze fuori dai magazzini Amazon durante il turno di notte. A parte negare l’evidenza, la risposta di Amazon tende a essere tecnocratica, faccio un’app per risolvere il problema. L’esempio più eclatante è stato AmaZen. Una sorta di cabina telefonica in cui la lavoratrice poteva guardarsi il video del bosco col canto della balena per rilassarsi, ovviamente al di fuori dell’orario lavorativo. Ma appena l’hanno presentato c’è stata un’insurrezione online, così è stato ritirato. Ovviamente il problema in realtà è politico, a cominciare dalla riduzione dei ritmi”.

Oggi l’Amazonificazione della logistica procede. Per esempio, nello stesso polo piacentino ci sono magazzini che hanno adottato tecnologie e forme organizzative copiate da Amazon. Naturalmente possono solo rincorrere il colosso di Seattle, perché quest’ultimo è più evoluto dal punto di vista tecnologico. “Tecnologie e forme organizzative devono però adattarsi ai diversi contesti politici e sociali in cui vengono inserite. Per esempio, alla Leroy Merlin, una delle roccaforti del SI Cobas piacentino, c’è fondamentalmente il contropotere operaio, quindi ritmi e modifiche del processo lavorativo devono essere in certa misura negoziati coi lavoratori. Invece a Zalando, l’innovazione d’avanguardia incontra strutture molto arcaiche, per esempio per quanto riguarda le gerarchie di genere.”

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