di Marco Sommariva
Lino Aldani, La casa femmina e altri racconti, Urania Millemondi 100, pp. 528, euro 8,90 stampa
Per Natale mi son fatto regalare un libro che avevo intravisto esposto nelle edicole, La casa femmina di Lino Aldani edito nella collana Urania Millemondi.
Il nome dell’autore di questa raccolta di racconti, mi rimbalzava in testa da tempo, da quando un amico mi aveva raccontato che, da ragazzo, gli scrisse una lettera da ammiratore e lo scrittore rispose una cosa del tipo: “Vieni a trovarmi nella mia casa di San Cipriano Po”; iniziò così un loro rapporto durato a lungo, fatto di esperienze umane, scambi di vedute e cordialità, oltre che di treni, pullman e comunicazioni epistolari – si parla di un tempo in cui Internet non lo si sognava neppure.
Immagino Aldani parecchio incline a questa pratica dell’invito a casa, dato che ne La casa femmina si legge che a Franco Forte – editor di Millemondi, il periodico quadrimestrale che dedica il numero 100 proprio a questa raccolta di racconti – capitò di avere la fortuna di conoscerlo e “di ricevere addirittura un invito a casa sua, a San Cipriano Po, dove lo raggiunsi con l’impressione di compiere una specie di pellegrinaggio verso la Mecca di tutti gli scrittori italiani di fantascienza”.
Non solo, l’autore ricorda così Maurizio Viano, suo collega di penna: “Splendido, inimitabile Maurizio! Ricordo l’autunno del 1977, quando arrivasti nella mia casa di campagna, gradito ospite per qualche giorno. Alla mattina andavamo sull’argine, impegnati in estenuanti passeggiate alla ricerca di funghi; i pomeriggi e le serate trascorse davanti alla bottiglia, accalorati in chilometriche discussioni sulla science fiction e dintorni”.
L’impressione è che la casa dello scrittore sia stata una specie di accogliente porto di mare o, vista la zona, di porto fluviale.
Credo che il nome di Lino Aldani risulti poco noto ai più ma, come ci ricorda Carmine Treanni nella prefazione al volume, è il più importante autore italiano di fantascienza e il più tradotto all’estero.
Come notato da Oreste Del Buono, lo scrittore pavese “per quanto scriva spesso di vicende del futuro e di altri mondi, non è mai scrittore di evasione, nel senso di evadere le sue responsabilità qui tra noi. È talmente dentro le nostre cose, talmente capace di dire la verità su di sé in rapporto con altri, e anche sugli altri in rapporto con sé talmente autobiografico da regalare anche a un lettore frusto e abituato al cinismo della sopravvivenza quale il sottoscritto la commozione di capire e di essere capito, addirittura interpretato”.
Al pari del critico toscano, anch’io mi ritengo un lettore frusto e abituato al cinismo della sopravvivenza che ha trovato negli scritti di Aldani l’essere capito e, credetemi, non è roba da poco in un quotidiano dov’è sempre più difficile essere ascoltati, figuriamoci l’essere capiti cosa che, a parer mio, va molto oltre l’essere amati.
E allora vorrei raccontarvi cosa mi ha commosso di queste ventotto storie realizzate tra il 1960 e il 2003, scritte da un professore che arrivava spesso a scuola con un numero di Urania sotto al braccio, un uomo capace di accogliere in casa propria giovani sconosciuti appassionati di fantascienza, una penna troppo vera per evadere dalle proprie responsabilità.
Il racconto Canis Sapiens, scritto nei primissimi anni Cinquanta, quando la science fiction in Italia stava muovendo i primi passi e non si sapeva ancora bene che cosa fosse, ad Aldani (classe 1926) interessavano – parole sue – “i discorsi rivoluzionari d’un cane barbone, sentivo il bisogno, nel mio entusiasmo giovanile, di mettere sulla carta idee contro corrente e il marchingegno escogitato per Canis Sapiens era, se non l’unico, il più comodo per realizzare la comunicazione diretta. […] Senza saperlo perseguivo il canone fondamentale della science fiction”.
In Canis Sapiens, questo è ciò che un cane “dice” ad altri cani, concetti per me commoventi perché, nel momento in cui li leggo, realizzo che più di settant’anni fa, ancora prima ch’io nascessi, qualcuno mi capiva: “Voi la conoscete l’anima dell’uomo: è la sentina d’ogni vizio e crudeltà, è una piaga purulenta e cancerosa che non potrà mai guarire. Invano l’abbiamo per tanto tempo sperato; i migliori tra gli uomini stessi si sono cullati in questa sublime illusione; le loro parole scritte nel vento furono dal vento disperse in una apocalissi di terrore e di sangue. Budda, Socrate, Cristo, rapiti in una paradisiaca visione di verità e di bellezza, non avevano nulla di umano; per questo gli uomini non li hanno compresi, per questo li hanno derisi o assassinati. Rassegnatevi, o amici. L’uomo è più bestia di tutte le bestie, l’uomo è la bestia per eccellenza. E deve morire”.
Del racconto del 1963, Buonanotte Sofia, tradotto in ogni parte del mondo, Aldani ha avuto modo di scrivere: “ancor oggi, a più di quarant’anni di distanza, può presentare i suoi titoli di attualità, la sua accorata denuncia contro un mondo ubriaco che sta annegando nella palude del virtuale”. In pratica, mentre nel ’63 venivo al mondo, Aldani era già intento a mettere per iscritto ciò che mi assedierà più di sessant’anni dopo.
Eccovi quei passaggi dove, a parer mio meglio di altri, si raffigura l’affogamento del pianeta sbronzo: “da anni brancoliamo nella tenebra fitta dell’incomunicabilità e dell’isolamento”, “uomini e donne avidi di solitudine e di penombra, filugelli attorcigliati nella bava dei propri sogni, larve pallide, esangui, attossicate dall’inazione”.
Domenica romana è un racconto del 1967, anno in cui, la domenica mattina, Aldani partiva presto per andare al mare che distava da Roma appena trenta chilometri, impiegando metà della mattinata incolonnato in un traffico assordante, attraversando nuvole di gas di scarico e trovando sulla spiaggia ancor più confusione di quella da cui era scappato.
Decenni prima che l’isola di plastica grande tre volte la Francia inizi a formarsi nell’Oceano Pacifico, sulle pagine di Domenica romana Aldani prevede un mondo che accetta la plastica come sostituta del naturale: “la pineta è molto bella, con gli alberi tutti uguali e il terreno ricoperto di aghi morbidi che sembrano tanti compassi. Papà dice che era molto più bella venti anni fa, quando i pini erano autentici, ma poi una brutta malattia li ha colpiti e così hanno dovuto tagliarli e sostituirli con quelli artificiali. Io non ci vedo nessuna differenza, anzi, quelli di plastica mi sembrano più lucidi, e poi gli aghi non pungono”.
Vide lungo anche in Visita al padre, un racconto del 1976 che creò polemiche infinite per via di quella che si ritenne a lungo un’assoluta non appartenenza al genere fantascientifico, considerato realista, ben scritto, ma “palesemente out”; al riguardo, Aldani replicò così: “A queste obiezioni non so rispondere. Continua però a ronzarmi nella testa la basilare distinzione tra fantascienza e pensiero fantascientifico, distinzione che a volte si risolve in identità. […] Una volta definii fantascientifiche quelle opere che riescono a spiazzare il lettore mettendogli sotto gli occhi una realtà altra e diversa”.
Vide lungo perché, nelle discussioni tra il personaggio del padre rimasto in paese a vivere con niente e quello del figlio trasferitosi in città per avere tutto, possiamo ritrovare battaglie, amarezze e sconfitte d’oggi; qui è il giovane che si rivolge al genitore: “Una volta m’hai detto: se vuole, un uomo può vivere con niente. Oggi potrei risponderti che un uomo, suo malgrado, può avvizzire pur avendo tutto. […] Quando è morta la mamma e ti ho proposto di venire in città, hai sfoderato i denti come una tigre. Torno sul fiume, hai detto, sprango la casa e me ne vado giù, nella baracca, voglio morire sulla riva del Po, non in un condominio”.
Poi il figlio continua con una feroce autocritica verso quella sporca commedia che va recitata tutti gli anni, fatta di ferie al mare d’estate e campi di sci d’inverno; verso una moglie rimbambita di televisione e un figlio cretino incapace di distinguere un cavallo da una capra: “avevamo i nostri “impegni”, d’inverno i campi di sci, le gite ai laghi in primavera, e le ferie al mare, l’estate prenotata mesi prima in quei miserabili alberghi pieni di merda, il formicaio della spiaggia, l’ombrellone, quella sporca commedia che debbo recitare tutti gli anni. […] Mia moglie è rimbambita di televisione, ho un figlio mentecatto che riesce ad applicarsi soltanto sopra i giochi elettronici, un cretino che non saprebbe riconoscere un cavallo da una capra, o una quercia da un salice. Lo so, lui non ha colpa, non ha mai veduto una lucertola, una lumaca, un riccio. […] sua madre fa di tutto per rendermelo idiota il più possibile, gl’infila certi pulloverini d’angora, le brachette a scacchi gialli e viola e i calzerotti con la sonagliera, roba di moda, come dice lei”.
E quando il lettore frusto e abituato al cinismo della sopravvivenza quale io sono, domanda al personaggio del figlio “Ma perché l’astio verso tuo padre, quando le sconfitte te le sei costruite con le tue mani?”, Aldani gli mette in bocca la risposta che mi apre un mondo, m’interpreta la realtà che ho intorno e me la spiega, commuovendomi, facendomi capire perché sono così numerose le persone che provano astio verso me pur non avendo mai fatto loro nulla di male, eccola: “Vecchio, sei la mia spina nel fianco, l’immagine che m’impedisce di vivere, il chiodo fisso che non mi consente di accettarmi per quello che sono, uno sbilenco, un balordo senza identità. […] tu, più che mai orgoglioso della tua sfida contro tutto il mondo, tu, la mia contestazione vivente, muto e implacabile censore della mia vita non realizzata”. Ecco cos’è chiunque rifiuti di chiudersi d’estate in miserabili alberghi pieni di merda o d’infilare ai propri figli i calzerotti con la sonagliera, la roba che va di moda, è una spina nel fianco di chi ha accettato tutto questo, è l’impedimento a viver tranquillo a tutti coloro che non possono non fare la gita ai laghi in primavera, è l’immagine che consacra la sconfitta di molti, le vite non realizzate, è la contestazione vivente che ammutolisce gli astanti, non quella a parole che può permettersi chiunque, per farsi belli, magari la domenica pomeriggio davanti a una qualsiasi vetrina di qualsivoglia centro commerciale; l’esempio vivente mette in ginocchio: un conto è non riuscire a sorridere nonostante si abbia tutto, un altro è veder felice gente che vive con niente.
Sì, Aldani è talmente dentro le cose di ognuno di noi, che è lui a darmi la soddisfazione che raramente ho raccolto nella veste di padre: “le madri non sanno, le viscere d’una donna sono calde e profonde, danno la vita e amano la loro creatura… un amore furibondo e tenace, ma le viscere non sanno immaginare l’amore del padre”. E questa soddisfazione me la dà con un racconto del 1978, Gesti lontani, scritto quando avevo quindici anni: lui già pensava a me.
In un racconto del 1986, invece, ci anticipa quanto avremmo dovuto drogarci per reggere fisiologicamente e mentalmente situazioni ambigue, insostenibili, che ci fanno invecchiare precocemente, da cui non abbiamo il coraggio, la forza di allontanarci, proprio come accade al prete del racconto Quo vadis Francisco che, appunto, finisce con l’affidarsi agli illusori recuperi degli stupefacenti per reggere la sua perdizione, il suo perenne stato di peccato mortale, le sue colpe, omissioni, eresie, gli oscurantismi dell’anima e persino i delitti: “Ora sono allo stremo delle mie forze, ho quarantatré anni, ma fisiologicamente è come se ne avessi settanta. Anche la mente vacilla, sempre più spesso debbo ricorrere al kibu-nagùa, la droga che mi consente sorprendenti ma illusori recuperi”.
Aldani non è mai scrittore di evasione, nel senso di evadere le sue responsabilità qui tra noi: “Manica di stronzi debosciati. Tutti uguali, in tutte le parti del mondo. Chi ha i soldi comanda la musica, su questo non ci piove. Ma a ogni occasione non manca di ricordarti che tu sei il subalterno, il servo sempre pronto a dire di sì, a riverire e ad assecondare ogni capriccio” – La casa femmina (1988).
Aldani è capace di dire la verità su di sé in rapporto con altri: “Quei due s’erano impazziti. Gli uomini morivano come mosche, il mondo poco alla volta andava svaporando, e loro si preoccupavano di trovare un sistema per togliere di mezzo quelle bestioline [dei lepidotteri]” – Ontalgie (2002).
E mentre osservo intorno a me quanto siamo pregni di preoccupazioni per qualsiasi bestiolina, senza preoccuparci troppo del mondo che svapora poco alla volta, mi drogo con l’illusione che anch’io, dopo aver letto queste oltre cinquecento pagine, son stato ospite di Aldani, nella sua casa di San Cipriano Po, entrambi accalorati in chilometriche discussioni sulla science fiction e dintorni.