La domanda non è se la Turchia proseguirà con l’occupazione del Kurdistan siriano e iracheno, ma quando.
In questo momento mezzo pianeta è alle prese con la gestione della pandemia e le sue spaventose implicazioni socio-economiche. I movimenti – sicuramente più di altre realtà – hanno accusato il colpo. E in questo marasma è stato molto facile dimenticare la rivoluzione del Rojava e il teatro del conflitto mediorientale. Ma oggi, dopo più di un anno dall’invasione turca della Siria del Nord, è doveroso tornare a fare un punto sulla situazione per capire cosa sta avvenendo e quale pessimo futuro abbiamo davanti.
Si osservano continuamente movimenti di truppe lungo il confine turco-siriano; quotidiani bombardamenti di artiglieria su Manbij, Qamishlo, Derik, Tell Tamer e il cantone di Shahba; periodiche incursioni delle milizie jihadiste; provocazioni dei peshmerga curdo-iracheni contro le forze della rivoluzione. E come se ciò non bastasse, ultimamente la tensione su tutti i fronti è in aumento, lasciando intendere che presto Erdoğan passerà a una nuova offensiva sullo scacchiere Iraq-Siria.
Appena qualche settimana fa, è sembrato che la rivoluzione si trovasse in una situazione particolarmente critica di accerchiamento, perché oltre ai quotidiani attacchi oltreconfine delle truppe di occupazione si sono aggiunti tre elementi inquietanti:
1.Un accordo tra Erbil e Baghdad per il ritiro da Shingal delle forze rivoluzionarie YBŞ/YJÊ (i compagni e le compagne ezide che avevano sconfitto lo Stato islamico sul monte Sinjar);
2.L’unione delle forze tra PDK di Barzani ed esercito turco per combattere il PKK nell’Iraq settentrionale;
3.Gli accaniti scontri ad Ain Issa tra le Forze Siriane Democratiche e le truppe turco-jihadiste di dicembre, che per poco non sono risultati nella presa della cittadella da parte della Turchia.
Ed è proprio quest’ultimo luogo a suggerire la prossima direttrice dell’invasione turca: la cittadina di Ain Issa, adagiata lungo l’arteria stradale M4, strategicamente fondamentale per determinare o meno l’isolamento di Kobane… e un successivo attacco contro la Stalingrado curda.
Tuttavia la rinnovata aggressività turca non dipende, come hanno scritto alcuni, dal risultato delle elezioni americane. Essa è piuttosto il risultato dell’interazione tra molteplici fattori, tra cui gli sviluppi strategici regionali, il nuovo ordine di potenze emergenti, le ebollizioni della politica interna turca e l’atteggiamento del regime di Assad. Cerchiamo però di fare ordine.
1. La guerra del Nagorno Karabakh dello scorso autunno è uno degli elementi migliori per interpretare il quadro generale. Benché i media nostrani abbiano coperto sufficientemente la vicenda, l’impressione è che vi sia una diffusa ignoranza rispetto al risultato finale del conflitto, ossia la disfatta annunciata dell’Armenia e il successo dirompente delle forze panturche reazionarie – composte dall’esercito azerbaigiano, dalle milizie siriane al soldo di Erdoğan, da mercenari jihadisti e soprattutto dall’aviazione turca. Ormai non è più possibile chiudere gli occhi sulla volontà di buona parte della popolazione turca nazionalista di perseguire la realizzazione di un nuovo impero panturanico, nel quale minoranze come quella armena o curda costituiscono un ostacolo all’omogeneità territoriale.
2.Questo folle miraggio nazionalistico prende di mira anche l’Iraq e la Siria del nord. Nel caso del Kurdistan iracheno – regione governata dalla famiglia Barzani e legata alla Turchia da un rapporto vassallatico – il PDK sta cercando in tutti i modi di restarsene a galla, avvantaggiando il clan dominante quanto più possibile grazie al servilismo nei confronti sia di Ankara sia di Baghdad. Per questo motivo, negli ultimi mesi i peshmerga hanno stretto accordi con l’esercito turco in funzione anti-PKK, ma anche con le milizie shiite irachene per dissolvere le forze rivoluzionarie di Shingal, le sopracitate YBŞ/YJÊ.
3.Come se ciò non bastasse, sono proprio Russia e Stati Uniti che permettono ad Erdoğan di giocare al piccolo condottiero: in questo modo la spada di Damocle di una imminente invasione turca in Siria costringe l’autonomia del Rojava ad inginocchiarsi agli interessi delle due superpotenze, castrando le aspirazioni rivoluzionarie della Federazione. Quello che evidentemente è sfuggito e continua a sfuggire a questi due colossali attori in campo è l’imprevedibilità e la sfacciataggine di Erdoğan, sempre pronto a far rombare i motori dei propri carri armati.
Ciascuno di questi elementi messi in relazione gli uni con gli altri, dovrebbero avvertirci senza equivoci: quando Erdoğan riprenderà l’invasione? E mentre il più grande intellettuale vivente Noam Chomsky definisce la rivoluzione del Rojava “un miracolo che il mondo deve conoscere e difendere”, ai movimenti si pone una domanda ben netta: stavolta, nelle piazze, sapremo impedire la guerra di Erdoğan?
** Pic Credit: by REUTERS/Umit Bektas