Grazie soprattutto a Werner e Aleksandr.
Così si conclude Helgoland (Adelphi, €15), l’intrigante libro di Carlo Rovelli dedicato alla teoria dei quanti e alle sue implicazioni filosofiche.
Intrigante anche per i profani della materia, perché Rovelli è un ottimo narratore o divulgatore, che dir si voglia, e sa portarti a spasso attraverso i massimi sistemi della fisica senza farti pesare la tua ignoranza. Nel libro affronta quella che descrive come la teoria più sconvolgente della storia scientifica, germogliata nella mente di un giovane fisico sull’isola tedesca di Helgoland (Terra Sacra), nel 1925.
Un’intuizione che ha poi ispirato altre menti, destinata a essere discussa, ma soprattutto applicata, nel corso degli ultimi cent’anni, anche senza che ne venissero colte tutte le implicazioni.
Ecco chi è Werner: Werner Heisenberg. Uno che sta alla fisica più o meno come Copernico sta all’astronomia. Quello che a scuola ci veniva presentato come lo scopritore ed eponimo del principio di indeterminazione. Ma alla base c’è la teoria dei quanti, che sovverte la fisica classica e costringe a ripensarla da capo, forse anche a ripensare il pensare, perché con la vecchia mentalità certamente non si può cogliere l’enorme portata della scoperta in questione.
Scoperta che in effetti fu un lavoro d’equipe, un passaggio di testimone tra Planck, Bohr, Einstein, e diversi altri scienziati meno noti a noi profani, ognuno dei quali contribuì per un pezzetto ad approdare a un nuovo statuto della realtà, al quale Heisenberg diede una formulazione.
Il problema della fisica quantistica è che è controintuitiva, la difficoltà concettuale è tutta lì, perché spazza via l’idea che la realtà sia qualcosa di oggettivo e dato in sé, ontologicamente definibile e conoscibile. Nel momento in cui la realtà non è più fatta di microparticelle individuabili, bensì di quanti di energia che rendono solo probabilisticamente mappabile il percorso delle suddette particelle, ovvero se la realtà è dotata di una sorta di doppia natura, be’, finisce gambe all’aria quasi tutto quello che potevamo dare per scontato.
Del resto, anche il fatto che sia la Terra a girare intorno al Sole è controintuitivo. Ce lo insegnano, ce lo spiegano gli astronomi discendenti di Copernico. Eppure noi seguitiamo a dire che è il Sole a “sorgere” e “tramontare”, benché in effetti sappiamo che il Sole non fa niente del genere. Dunque Heisenberg e i suoi discendenti ci dicono da cent’anni che la realtà non è qualcosa in sé, bensì qualcosa di relativo, ovvero è essa stessa un sistema di relazioni. E queste relazioni sono variabili, perché il mondo è in divenire, la realtà materiale è un flusso di energia di cui noi facciamo parte. Osservare e studiare la realtà significa influire su di essa ed esserne influenzati a nostra volta, e conseguentemente accettarne l’indeterminazione ontologica.
Rovelli ci ricorda che il Buddhismo è giunto da secoli e per altre vie a conclusioni in un certo senso simili, ma questo non autorizza nessuna deriva consolatoria “newagista” o banalmente sincretica, dato che le vie filosofico-religiose non sono meno erte e indefinite di quelle filosofico-scientifiche. Si brancola nello stesso buio, con sprazzi di luce qua e là. E quegli sprazzi di luce modificano comunque le orbite degli elettroni, quindi…
Approdare alla consapevolezza che non esiste una realtà oggettiva e che questa va sostituita con il concetto di relazione ha un’implicazione anche politica che porta direttamente all’altro personaggio ringraziato dall’autore: Aleksandr. Vale a dire Aleksandr Aleksandrovič Malinovskij, detto Bogdanov (ma si firmava anche Maximov, Riadavoy e… Werner). Sì, proprio lui, il protagonista del nostro romanzo del 2018 Proletkult, che tra l’altro si trova citato a pag. 138.
Bogdanov, proprio come i fisici già menzionati, si rifaceva alle teorie del fisico e filosofo tardo-ottocentesco Ernst Mach, secondo il quale la nozione di materia acquisita dalla fisica meccanicistica moderna era puramente “metafisica”. Concepire la materia come qualcosa di totalmente altro dal soggetto osservante equivale a concepire un’entità che trascende la fisica proprio mentre si vorrebbe individuare la meccanica materiale del mondo. La conoscenza, per Mach, e successivamente per Bogdanov, è organizzazione delle sensazioni attraverso le quali percepiamo la realtà. Ipotizzare cosa ci sia oltre le nostre sensazioni è avventurarsi nel territorio della metafisica, appunto, perché per noi la fisica è ciò che percepiamo, non altro.
Per il marxista rivoluzionario Bogdanov questo cambiamento dello statuto della realtà non poteva non imporre ai materialisti come lui un ripensamento del materialismo stesso. L’idea di materia e di realtà su cui Marx si era basato doveva essere adattata alle nuove concezioni e scoperte. Un’implicazione diretta era che il rapporto biunivoco ipostatizzato da Marx tra struttura socio-economica e sovrastruttura scientifico-culturale diventava qualcosa di molto più intricato e complesso, giacché la realtà materiale si dava sincronicamente al nostro percepirla, senza soluzione di continuità tra soggetto e mondo. Se il nostro sguardo fa parte della realtà allora il cambiamento della realtà non può prescindere dal cambiamento del nostro sguardo.
Dal punto di vista di Bogdanov se Marx fosse stato ancora vivo per recepire le nuove scoperte di Planck, Einstein e Heisenberg, sarebbe stato il primo a rivedere la propria concezione della realtà materiale e dare ragione a Mach.
Non la pensava così Lenin, prima sodale e poi grande avversario di Bogdanov, che – troppo digiuno di filosofia e troppo preoccupato delle potenziali implicazioni “idealistiche” di una concezione machiana della realtà – ostracizzò Bogdanov e scrisse contro di lui il suo unico testo filosofico: Materialismo ed empiriocriticismo (1909). Un testo nel quale traspare tutto lo schematismo del politico pratico, per il quale la filosofia si divide in due macrotendenze: materialismo e idealismo. Dunque o si sta di qua o si sta di là. E per Lenin era chiaro che Bogdanov stava di là.
Per Bogdanov invece il punto era precisamente quello di schivare lo schematismo, perché restare attaccati a un’idea di realtà oggettivamente conoscibile e indipendente significava avallare un paradossale materialismo metafisico, appunto. Lenin non capiva che l’idealismo era fuori discussione: il soggetto non è ideale, né spirituale, né mentale, ma tutto materiale, poiché non c’è niente di più materiale delle sensazioni fisiche attraverso le quali si esperisce il mondo. Ciò che possiamo sapere del mondo dipende dal modo in cui organizziamo le nostre sensazioni, non solo come soggetti singoli, ma anche e soprattutto come soggetti collettivi (quindi anche come classe). Insomma in quel dibattito Lenin si ritrovò suo malgrado nel ruolo del reazionario proprio mentre rivolgeva l’accusa a Bogdanov.
«La sua critica è la reazione naturale alle idee che hanno portato alla teoria dei quanti. La stessa critica viene naturale anche a noi, e la questione dibattuta da Lenin e Bogdanov ritorna nella filosofia contemporanea ed è una chiave per comprendere la valenza rivoluzionaria dei quanti» (p. 130-131).
Se le teorie scientifiche possono avere una valenza rivoluzionaria quanto e più di quelle politiche, il tentativo teorico-pratico di Bogdanov fu quello di provare a farle coincidere in un unico esperimento. Cambiare la struttura materiale ed economica della società cambiando di pari passo il modo di vedere il mondo. Laddove vedere, si è detto, non è inteso come attività meramente ricettiva, bensì come osservazione partecipata, interazione, reinvenzione. Il famigerato Proletkult (Organizzazione Culturale-educativa Proletaria), ovvero il contributo bogdanoviano alla rivoluzione bolscevica, troppo presto stroncato da Lenin e ricondotto sotto l’egida del ministero dell’educazione, voleva essere questo. Quell’esperimento fece in tempo a influenzare un giovane comunista italiano che decise di fondare un circolo del Proletkult nella sua città di residenza, Torino. Si chiamava Antonio Gramsci, e della centralità della cultura come terreno di conflitto avrebbe fatto una delle caratteristiche connotative del comunismo italiano.
Scienza, cultura, politica, tutto si tiene. E gli scienziati, scrittori, rivoluzionari, vivono calati nelle maglie della storia. C’è la parabola di Bogdanov, e c’è quella dei fisici tedeschi che si divisero tra l’adesione alla Germania nazista, come Heisenberg appunto, e l’appoggio ai liberali Stati Uniti, come Einstein e Oppenheimer, nella corsa alla costruzione della bomba atomica. A questo il libro di Rovelli fa soltanto qualche accenno, ricordandoci che quelle scoperte sono state usate sia per lo sterminio sia per salvare vite. Ma proprio per questo un problema etico-politico la storia finisce per riproporlo tanto agli scienziati puri quanto a chiunque altro. Se un punto debole di questo libro dev’essere trovato, bisogna allora dire che lo sguardo vagamente incantato con cui Rovelli racconta l’epopea dei quanti rischia di offuscare il rovescio della medaglia.
Bogdanov non fu vittima della svolta staliniana, per il semplice fatto che, disilluso e convinto com’era che quell’involuzione fosse già contenuta in certe premesse della rivoluzione d’Ottobre, non fece opposizione. Questo lo condannò a essere né carne né pesce, politicamente parlando, cioè a rimanere un geniale fallito, escluso dalle dinamiche collettive, fino alla prematura morte, che ebbe il sapore di un suicidio inconscio.
Anni dopo, Heisenberg aderì al nazismo, anche se questo significò non fare più riferimenti alle teorie del collega ebreo Einstein, e si impegnò a battere sul tempo i suoi vecchi sodali emigrati in America, affinché Hitler potesse sganciare loro in testa la bomba atomica per primo, ma fallì. Fortunatamente per lui il Premio Nobel glielo avevano già assegnato nel 1932, altrimenti dopo la guerra certo non lo avrebbe avuto.
Werner e Aleksandr, le cui foto compaiono in chiusura di Helgoland, sono figure tragiche, cioè ottima materia narrativa (non per niente noi altri l’abbiamo sfruttata). Viene da pensare che in questa dimensione rivoluzionata dalla fisica quantistica, attività come l’arte, la letteratura, la poesia, che tanto tempo fa vennero separate dalla scienza e scartate come metodi conoscitivi, potrebbero forse avere nuovamente una funzione complementare alla ricerca scientifica, per raccontare non solo e non tanto gli eroi e gli antieroi che fecero la rivoluzione, ma anche per provare a indagare e interpretare le implicazioni delle loro scoperte e teorie. In effetti il Proletkult avrebbe voluto rendere possibile proprio questo.
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