Il mondo che Silvia Romano conosceva quando è stata rapita, il 20 novembre 2018, non esiste più. Guerre, elezioni e pandemie ne hanno rimodellato i confini e hanno aperto la via ad un nuovo corso storico. È il corso dell’insicurezza, del distanziamento sociale e delle relazioni telematiche.
C’è sempre stata una componente della società che non ha mai sopportato la distanza e che ha avuto bisogno di muoversi in prima persona per portare aiuti, solidarietà, consigli e umanità. Silvia è una di quelle persone generose da cui noi tutti abbiamo qualcosa da imparare. Ma che legittimità abbiamo di criticare questa scelta? Usiamo per caso le stesse parole per giudicare la scelta di qualcuno che si appresta a iniziare il programma Erasmus nelle capitali europee, a patto che siano esse più sicure di un villaggio keniano?
Il mondo è pieno di ben pensanti, con la pancia piena e i piedi asciutti sotto il tavolo da pranzo, ma esiste una parte della società che non si limita a guardare e commentare, c’è qualcuno che ha “bisogno” di toccare con mano e dare il suo contributo materialmente nei luoghi dove ritiene ce ne sia più bisogno.
La scelta di Silvia non deve essere lontanamente criticata e deve essere trattata come tutte le scelte di persone che, per loro sfortuna, sono state rapite o hanno incontrato brutalità e violenza mentre facevano quello che credevano giusto in quel momento.
Sono sei gli italiani ancora rapiti e dispersi nel mondo, hanno un nome e un cognome e una famiglia che li aspetta a casa. Sono padre Luigi Maccalli, padre Paolo Dall’Oglio, il turista Nicola Chiacchio. E infine i tre commercianti napoletani Raffaele Russo, suo figlio Antonio e il nipote Vincenzo Cimmino.
Tra marzo del 2019 e marzo del 2020 sono stati liberati Luca Tacchetto, Alessandro Sandrini e l’imprenditore bresciano Sergio Zanotti.
Unico comune denominatore, essere stati sequestrati e privati della loro libertà personale mentre operavano – ognuno per differenti motivi – in paesi molto lontani dai nostri, ognuno con sconquassi che li attraversano; parliamo di paesi che vanno dal Niger, al Mali, alla Siria, persino sequestrati dai narcos in Messico, al Kenia.
Silvia Romano è appunto scomparsa il 20 novembre 2018 in una zona che, a differenza delle altre, è considerata perlopiù tranquilla, un paese che fa del turismo uno dei suoi introiti maggiori, insomma rispetto agli altri paesi è considerato più sicuro.
Silvia Romano è l’unica donna – a differenza degli altri – che è stata sequestrata e questo da quanto leggiamo nei giornali di stamattina le da il “diritto” di essere trattata diversamente, di essere posta sotto una luce negativa in ogni centimetro della sua persona.
Chi è stato liberato prima di Silvia – in quanto uomo – non si è visto spogliato della sua dignità, non ci sono state altrettante polemiche sul pagamento del riscatto, non c’è stata una morbosa attaccatura ideologica per cui “non si tratta” con i terroristi.
Il dibattito pubblico sul ritorno a casa di Silvia Romano si è immediatamente concentrato sulla sua conversione all’Islam, trapelata da qualche velina dell’Ambasciata di Mogadiscio, e da subito ha catalizzato l’attenzione della stampa e della cosiddetta “opinione pubblica”. Non un gesto di gioia e di felicità, ma subito l’accusa alla sua conversione e sul presunto o non presunto riscatto pagato dal governo italiano ai suoi rapitori. Invece di essere felici per una giovane vita riconsegnata alla libertà si è finito a polemizzare sulle scelte personali di chi ha avuto la libertà privata per oltre 500 giorni.
Nella storia recente dei rapimenti e delle privazioni di libertà sono sempre esistiti due pesi e due misure, soprattutto quando si parla di aree geografiche, come l’Africa o il Medio Oriente, che l’ignoranza comune di fondo vede ancora come luoghi degni di poemi epici agli opposti della civilizzazione occidentale e cristiana. Forse andrebbe ricordato, e noi lo facciamo volentieri, che internet esiste e funziona anche in Kenya e in Somalia e che anche hanno gli smartphone; ci sono ristoranti e centri commerciali e le persone si muovono su auto di fabbricazione europea: non stiamo parlando di un altro mondo. Se per certi versi lo è ancora è solo per le brame colonialiste dell’Occidente: quelle no, non sono mai andate via!
Coloro che pensano che Silvia Romano se la sia cercata andando in Kenya ad aiutare i bambini forse non sa che il villaggio dov’è stata rapita si trova a soli 80 km da Malindi, luogo eletto dall’italianissimo Flavio Briatore come sua terza dimora dopo Milano e la Sardegna. Però a lui critiche non ne vengono fatte per “andare a cercarsela in posti pericolosi”.
Ma il fatto più sbalorditivo e forse più assurdo nella vicenda di Silvia Romano è il suo trattamento in quanto donna. È stata messa alla gogna mediaticamente, personalmente e intimamente in quanto donna e convertita.
Nessuno di noi ha letto di indignazione, rabbia quando altre persone sono state liberate dai loro sequestratori senza colpo ferire, è forse stata islamica benevolenza quelle volte? Oppure i contanti dello Stato italiano facevano comodo per non piangere un altro morto?
Forse è bene fare un passo indietro e ricordare quali sono questi casi.
Ai più i nomi di Alessandro Sardini e Sergio Zanotti non diranno niente, ma essi sono tra gli ultimi ostaggi ad essere stati liberati in un contesto geografico e politico riconosciuto da tutti come molto più pericoloso ed instabile come quello della Siria.
Non serve fare demagogia e non cadere nelle polemiche è un esercizio di stile degno del miglior giornalista, ma all’epoca nessuno alzò gli scudi e chiese l’arresto di Sardini, che è stato liberato nella regione di Idlib trattando con Hayat Tahrir Al-Shams, l’ultima delle sigle nella quale si nasconde la branca siriana di Al-Qaeda, responsabile di migliaia di morti e dell’abbattimento delle Torri Gemelle (sì! sono proprio loro!).
Anche nel caso della liberazione di Zanotti, nessuno dei commentatori da talk-show ha dato prova di sè nonostante in quel caso il governo italiano, per mezzo dei servizi, trattò direttamente con Hayat Tahrir Al-Shams (sono sempre loro, quelli delle Torri Gemelle!).
C’è un’altra piccola differenza che il caso di Silvia Romano porta a galla, ovvero quello della “patriotticità” delle proprie scelte individuali. Abbiamo letto, negli ultimi due giorni, migliaia di commenti e sentito troppe opinioni su quanto ci sia costato il suo rilascio o sul perché si debba andare in Africa ad aiutare le popolazioni più povere.
Questi stessi commentatori sono parte di coloro che elogiano l’operato di forze armate e contractors civili, inviati in teatri operativi che nulla hanno a che vedere con l’italica bandiera e ancora meno hanno a che fare con i valori nazionali che durante il giuramento sono tenuti a rispettare. Perché dobbiamo condannare alla sorveglianza speciale Eddi Marcucci per aver combattuto l’Isis in Siria del Nord e invece dobbiamo esaltare due assassini di pescatori indiani? Quanto patriottico è Fabrizio Quattrocchi che muore in Iraq mentre protegge persone ed infrastrutture statunitensi?
Scegliamo di non entrare in un ulteriore polemica anche per non urtare sensibilità che si potrebbero offendere per queste prese di posizione ma ci limitiamo ad immergerci nel sorriso di Silvia, di Aisha, ragazza.