di Marco Noris, Attac Bergamo
Si tratta di un lungo appello, molto articolato, approfondito, che tocca un po’ tutte le tematiche che vanno affrontate nella costruzione di quel “giorno dopo” che, prima o poi, arriverà: dalle misure necessarie a garantire la giustizia sociale, alla protezione delle donne e i minori; dal ruolo delle istituzioni nazionali ed europee alla rilocalizzazione della produzione; dalla riconversione ecologica alle nuove forme di mobilitazione dei cittadini.
In questi giorni, che stanno stravolgendo inaspettatamente il panorama globale ed europeo in particolare, si sono succedute analisi ed appelli di varia origine, ma in questo caso l’appello in questione merita più di altri una particolare attenzione. In primo luogo la base dei firmatari è ampia ed eterogenea e va dalla CGT sorta alla fine del XIX secolo alle organizzazioni sociali di più recente formazione. In secondo luogo, appunto in relazione alla quantità e alla eterogeneità dei firmatari, sorprende la profondità ed il dettaglio analitico di un testo che si definisce semplicemente appello: raramente tra così tanti soggetti si raggiunge un tale livello di condivisione, in questo caso si va ben al di là delle semplici dichiarazioni di principio. È un fatto politico raro e di estrema importanza. Ancora più importante è la qualità di ciò che è condiviso: non si tratta semplicemente di un’analisi critica all’esistente, quanto di una prospettiva di alternativa nella quale sono già individuate e condivise le principali traiettorie da percorrere e obiettivi da raggiungere insieme.
Se la cosa può apparire per certi versi sorprendenti, per altri non lo è: se si poteva pensare in questo momento storico ad un Paese nel quale questo poteva accadere risulta piuttosto facile pensare alla Francia.
È infatti in Francia, negli ultimi anni, che si situa la proliferazione pressoché costante di movimenti: dalla battaglia contro la Loi Travail dal 2016, al movimento dei gilets jaunes, fino alle recenti rivolte contro la riforma pensionistica. Da un certo punto di vista si potrebbe semplicemente affermare che la continuità dei movimenti, seppur diversi per forma e obiettivi, abbia saputo costruire nel tempo una sensibilità e una base progettuale comune, per la quale un appello come quello lanciato in questi giorni possa essere considerato come un’evoluzione naturale di tale percorso. Forse, però, c’è anche qualcos’altro di meno immediato da comprendere ma parimenti importante per capire la genesi di questo appello e la sua consistenza.
Si pensa sempre al neoliberismo come quel pensiero per il quale il principale insegnamento è che non ci sono alternative disponibili, dimenticandosi dell’altro ugualmente importante insegnamento thatcheriano per il quale non esiste la società bensì solo l’individuo. Questi due concetti hanno accompagnato la società occidentale per oltre un ventennio senza trovare particolari intoppi lungo il percorso: il sistema era in un seppur precario ma apparente equilibrio e questo ha consentito, nel corso dei decenni, una costante e inesorabile demolizione non solo delle identità di classe ma anche una più ampia destrutturazione delle identità collettive e del loro senso tout court. È qualcosa di più di una scelta politica e culturale, è una vera e propria mutazione antropologica portata avanti su larga scala nella nostra società. La crisi del 2007-2008 scompagina però le carte in tavola: i due assiomi thatcheriani smettono di proseguire nella stessa direzione, o meglio, uno dei due interrompe il suo cammino: mentre il mondo dell’impossibilità dell’alternativa continuava con addosso i tristi panni dell’austerità, la dimensione strettamente individualista della società veniva messa in crisi dall’austerità stessa: l’individuo sicuro calato nella dimensione temporale dell’eterno presente viene sostituito con l’individuo spaventato da un futuro che non garantisce più alcuna conquista del passato. In una ritrovata dimensione del tempo nella quale però l’individuo da solo non è in grado di trovare salvezza, il ritorno dell’esigenza di una qualche forma di dimensione collettiva, fosse anche in termini protettivi, appare necessaria. La questione centrale è: in quali forme può ristrutturarsi una qualche dimensione collettiva dopo decenni di devastazione culturale e, inoltre, come questa ricostruzione può concretizzarsi in un mondo nel quale le alternative sono escluse?
C’è un’ultima questione da affrontare per comprendere al meglio il contesto: dopo la crisi del 2007-2008 e la cronicizzazione delle politiche di austerità, l’ideologia dell’impossibilità dell’alternativa si accompagna al paradigma della scarsità tanto di risorse quanto, conseguentemente, dei diritti non apparendo tali risorse disponibili per tutti. In questo senso ha avuto buon gioco la destra estrema nella proposta di ricostruzione collettiva in base agli status nazionalisti, etnici e religiosi. Anche al di là del gioco dell’estrema destra la narrazione collettiva generalizzata sta, ad oggi, correndo lungo queste specifiche narrazioni. Sono in ogni caso narrazioni funzionali al mantenimento dello status quo e, per tali ragioni, mai del tutto osteggiate se non tenute sotto controllo (almeno per ora) dal sistema di potere dominante. Zygmunt Bauman aveva magistralmente decritto questo stato di cose approfondendo il concetto di “retrotopia” nel quale ad un futuro incerto e minaccioso si oppone un passato mitizzato e rassicurante, una sorta di orizzonte retroattivo, l’antitesi di quello che fino ad oggi abbiamo definito progresso storico.
Se questa prospettiva culturale e sociale ha avuto modo di esprimersi soprattutto nell’ultimo decennio, possiamo ben immaginare cosa potrebbe accadere nel mondo post-pandemia, qualora le ricette dei dominanti dovessero rimanere quelle di prima.
È a partire da questa lettura che la specificità della Francia va letta. In Francia si è aperto un ciclo di lotte multiforme che ormai dura da circa quatto anni. Al di là delle forme, dei contenuti e persino delle vittorie e delle sconfitte, il ciclo di lotte francesi ha una sua dimensione e continuità che offre un orizzonte delle alternative nella direzione opposta a quella retrotopica. Si tratta di riprendere in considerazione la visione di una storia tutt’altro che finita nella quale il movimento rivolto al cambiamento sociale torna ad essere una regola. Ma in questo senso c’è qualcosa di più: le vicende dei movimenti francesi, in particolare quella dei gilets jaunes, dimostrano che accanto alla protesta e alla rivendicazione, è sentita l’esigenza di una nuova forma di ricostruzione e organizzazione dell’identità collettiva, un’identità ben diversa da quelle proposte dalla paura instillata dagli shock del sistema e dalla creazione dei nemici immaginari dell’estrema destra. Questa esigenza si è declinata spesso in sperimentazioni di nuova organizzazione collettiva anche a livello locale soprattutto attraverso l’azione dei gilets jaunes. A prescindere da limiti, contraddizioni e risultati, queste sperimentazioni dimostrano che in Francia, più che in altre parti d’Europa, la questione della ricostruzione della collettività è sentita e portata avanti con una certa continuità da alcuni anni.
L’appello “Mai più come prima!” e la sua importanza vanno letti anche alla luce di tali considerazioni: sono anche frutto di questo percorso e di un principio di condivisione progettuale.
Ma la domanda che si pone è: che fare al di fuori della Francia? La questione è importante soprattutto in situazioni come quella italiana nella quale siamo in presenza di un’estrema destra forte e una contemporanea assenza di sostanziale conflitto. Nello stesso tempo, nel nostro Paese le sconfitte degli ultimi anni non hanno solo infiacchito organizzazioni volte alla ricerca dell’alternativa ma hanno, in un qualche modo, influito negativamente sui processi di elaborazione e rielaborazione identitaria il cui risultato sta nell’estremo frazionamento di soggetti e proposte poco o per niente visibili. Le cose, ovviamente, con la pandemia potrebbero cambiare ma da sole, sicuramente, non cambiano. Nello stesso tempo non possiamo risolvere la questione affermando “facciamo come in Francia” perché oltralpe le condizioni sono ben diverse e, in una certa misura, persino incompatibili. Da un lato verrebbe da dire che finché non si muove nulla “dal basso” nulla potrà sorgere nella direzione che auspichiamo. Occorre però definire meglio quello che possiamo concepire come “basso”. È quasi ironico affermare che oggi soggetti politici e movimenti che si pongono nell’ottica dell’alternativa con le loro compagini sociali e militanti sono già in quello che possiamo definire “basso”; quello che però sicuramente manca ed è slegato da questi soggetti è il “basso” riferito alle classi subalterne, anzi esse sono egemonizzate dalla narrazione neoliberista e dalla falsa alternativa dell’estrema destra.
Occorre forse allora non “fare come la Francia” ma, in un certo senso “ampliare” la Francia.
Noi non possiamo prevedere gli esiti sociali della pandemia con esattezza: possiamo sì immaginarli ma le variabili in gioco sono troppe. Non possiamo rappresentare classi sociali che ci conoscono poco o niente ma possiamo prepararci per offrire un’alternativa, inserirci in questo momento storico di veloce cambiamento in maniera attiva.
Per far questo però, abbiamo bisogno di non mostrarci come soggetti autoreferenziali: per avere un’immagine autoreferenziale, oggi, basta proporre un autonomo progetto, parallelo ma simile a quello di altri soggetti. Non possiamo essere solo dei punti di riferimento ma dobbiamo, il più possibile unire questi punti, unirci per costruire l’intera linea di quell’orizzonte di alternative.
Le 18 organizzazioni francesi si sono mosse in questa direzione e con tutta probabilità con questo scopo.
È con questo spirito che va affrontata la questione ma non basta.
È importante non replicare un semplice appello in salsa nostrana, bensì partire da quell’appello ed ampliarne la portata nella dimensione transnazionale: la credibilità di un orizzonte di alternativa sta anche e soprattutto nella sua completezza: l’appello francese porta già con sé istanze di cambiamento sistemico non riconducibili a meri contesti nazionali. Quindi, non è una forma da replicare ma un punto di partenza, e i contenuti sono da declinare nei diversi contesti sia da condividere su scala internazionale almeno continentale.
Questa scala è indispensabile perché non basta proporre ricette alternative: il mondo della post-pandemia si preannuncia cupo. Alle ricette proposte seguono le scelte della politica e del capitale e, in uno scenario futuro, possiamo immaginare un generalizzato innalzamento del livello del conflitto su vari piani: quello interstatale, intracapitalistico e sociale in primo luogo. Con tutta probabilità questo scenario renderà minime le possibilità di compromesso tra gli attori in campo e inevitabile il conflitto. Anche per questo motivo dobbiamo prepararci e costruire una massa critica tale da poter agire il conflitto e avere una possibilità di raggiungere qualche risultato.
In questo senso le organizzazioni e i soggetti che hanno una vocazione e una rete transnazionale avrebbero una grossa responsabilità nella realizzazione del percorso. È però a partire da loro che le istanze contenute nell’appello vanno tanto declinate quanto diffuse, è a partire da questa impostazione che le 18 organizzazioni potranno diventare anche 180 e magari rappresentare l’intero continente con un orizzonte progettuale comune definito. I tempi per far questo però sono molto brevi: il mondo sta cambiando molto più velocemente di quanto pensiamo. Dobbiamo attivarci subito.