Gilad Atzmon
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Il capolavoro cinematografico Metropolis, del 1927, viene spesso descritto come un’opera dell’”espressionista tedesco” (anti realista) e un film di “fantascienza.” Oggi, mentre osserviamo il dissolversi dell’effimera saga sull’apocalisse virale del Covid19, cercheremo di appurare se la trama di Metropolis sia veramente anti-realista. Guardare il film quasi un secolo dopo la sua realizzazione porta ad alcune sconcertanti considerazioni esistenziali.
Metropolis non è forse l’espressione più vera del nostro attuale disamoramento per la cultura industriale, del nostro sgomento nei confronti della “scienza” e della “tecnologia” e della nostra stanchezza per una classe politica marcia fino al midollo e incompetente al massimo grado? Mi verrebbe da pensare che, nel 1927, i creatori di Metropolis avessero già intuito l’attuale distopia e le sue radici ontologiche meglio di alcuni dei nostri “intellettuali” contemporanei più venerati. Di conseguenza, credo che, invece di “film di fantascienza,” “un intelligente messaggio profetico” sia la descrizione migliore per questo ambizioso momento del cinema tedesco.
Il film era stato diretto da Fritz Lang e scritto dalla moglie, Thea von Harbou, in collaborazione con lo stesso Lang. È importante ricordare che Lang era fuggito dalla Germania nel 1933. Sembra che Lang non approvasse il regime nazista: sua moglie, però, era rimasta. Dopo la guerra, Thea von Harbou era stata incarcerata per aver collaborato con i nazisti. Non intendo appurare se la von Harbou fosse o meno una “nazista,” ma sosterrò la tesi secondo cui Metropolis è stato probabilmente il capolavoro “nazionalista socialista” definitivo e più profetico (non nazionalsocialista).
Metropolis era stato realizzato in Germania nel periodo della Repubblica di Weimar. È ambientato in una futuristica e ultra capitalista distopia metropolitana, non più lontana dalla realtà di alcune delle nostre attuali metropoli occidentali. Racconta la storia di Freder, figlio del sindaco oligarca della città (Joh Fredersen), e di Maria, una carismatica operaia, un personaggio cristiano e santo. Stando insieme e tramite l’unità del gregge Freder e Maria sconfiggono l’ingiustizia sociale e la divisione di classe. Perché questa unità possa verificarsi, occorre la presenza di un mediatore in grado di trasformare in futuro armonioso la storia dei conflitti sociali. Sono due ore e mezza di orrori, oppressione, schiavitù, malvolenza capitalista e divisioni di classe che, alla fine, si risolvono in una hegeliana riconciliazione da “fine della storia.” L’epopea cinematografica si esaurisce quando il leader dei lavoratori e Joh Fredersen si stringono la mano e accettano il loro destino e la loro dipendenza reciproca. “Il mediatore fra testa e mani deve essere il cuore,” è il titolo della scena che ribadisce il motto ideologico e metafisico del film.
La Germania post Prima Guerra Mondiale aveva evidentemente bisogno di un carattere unificante in grado di risolvere la lotta di classe e legare lavoratori e capitalisti in un organismo integrato che condividesse una realtà armoniosa ed unificata. Sarebbe ingenuo credere che Hitler e il suo partito nazionalsocialista non fossero guidati da una simile visione. E non erano i soli. Roosevelt potrebbe essere stato impegnato in una ricerca simile, così come Henry Ford e molti altri.
Il film era stato realizzato nel 1925-6 e portato sugli schermi nel 1927, un periodo significativo per la politica tedesca e l’evoluzione intellettuale. Nel 1927 Martin Heidegger aveva pubblicato il suo monumentale Essere e tempo (Sein und Zeit). Heidegger aveva ipotizzato che la storia della filosofia occidentale fosse una storia sull’oblio dell’essere. Heidegger, più di ogni altro filosofo prima di lui, aveva identificato il crescente distacco insito nell’esistenza moderna e nel panorama umano post-illuminista.
Un altro testo pubblicato a quel tempo in Germania, e che aveva avuto un’influenza molto più immediata delle riflessioni filosofiche di Heidegger, era stato il Mein Kampf (1925) di Hitler. Sebbene il testo sia stato ampiamente descritto come una “diatriba antisemita,” Mein Kampf non era, in realtà, un libro “sugli Ebrei,” anche se gli Ebrei vengono menzionati occasionalmente. Era stato il mezzo con cui Hitler, all’epoca un caporale veterano di guerra incarcerato, aveva delineato la sua ideologia politica e il piano per una Germania sotto la sua guida. A questo proposito, è interessante leggere la recensione del libro fatta da George Orwell nel 1940. Orwell, uomo di sinistra, disprezzava Hitler. La sua recensione è una critica intelligente, anche se aveva cercato di spiegare il successo del nazismo come conseguenza del totale fallimento del movimento operaio tedesco. Orwell non menziona neanche una volta gli Ebrei o l’antisemitismo. A questo proposito, è interessante l’opinione di George Steiner su Mein Kampf, da lui considerato come uno della “mezza dozzina di libri” pubblicati tra il 1918 e il 1927 a seguito della crisi nella società e nella cultura tedesca dopo l’umiliante sconfitta della Prima Guerra Mondiale. Nell’introduzione al suo libro su Martin Heidegger, Steiner inserisce correttamente il Mein Kampf nel contesto dei suoi contemporanei, come Lo spirito dell’Utopia di Ernst Bloch (1918), Il declino dell’Occidente di Oswald Spengler (1918), La stella della redenzione di Franz Rosenzweig (1921), L’epistola ai romani di Karl Barth (1922) e, naturalmente, Essere e tempo di Martin Heidegger (1927).
Anche se, all’epoca, alcuni critici cinematografici avevano visto Metropolis come un ‘banale’ manifesto comunista, si trattava in realtà di una preziosa rivelazione cinematografica nazionalista socialista, in quanto critica sia del capitalismo che del comunismo. In tal modo, esprimeva il vero spirito politico e le aspirazioni di molti Tedeschi dell’epoca. Come Heidegger e parecchi intellettuali tedeschi critici dell’Illuminismo, del significato della tecnologia moderna e della cruda strumentalizzazione della scienza, Metropolis sottolineava il crescente distacco dall’etica occidentale cristiana e ateniese. In un certo senso, il film prevedeva la bomba atomica, l’immagine fantastica di un’apocalisse virale artificiale, descriveva la realtà dei campi di concentramento e prevedeva persino robot che dettavano la “linea di partito,” molto prima che nascesse Mark Zuckerberg.
Vent’anni prima che Orwell creasse Emmanuel Goldstein e molti decenni prima che George Soros trasformasse la cosiddetta “Sinistra” nel suo giocattolo di opposizione controllata, Lang, insieme alla von Harbou, aveva già compreso che, agli occhi dei capitalisti e degli oligarchi, la fantasia di una “rivoluzione proletaria” è un utile strumento politico. Non vi sono mezzi migliori per l’egemonia e l’oppressione totale dei disastri che le masse provocano volontariamente e magari anche con entusiasmo.
Anche se questa è, ovviamente, l’interpretazione più cinica della democrazia e della prospettiva rivoluzionaria, è difficile non ammettere che questa sardonica lettura è la realtà in cui viviamo.
Nel 2020 non sono Trump o il governo Tory ad opprimere le masse. Non è la Casa Bianca che cancella su Youtube i video di medici e scienziati famosi e non è la polizia britannica a chiudere sui social media gli account di chi cerca la verità. Sono invece le aziende tecnologiche private ad imporre la tirannia della correttezza in nome dei cosiddetti “standard comunitari.”
E non sono i soli. Inizialmente, Corbyn era stato visto da alcuni, incluso il sottoscritto, come una stimolante novità nella politica britannica. Tuttavia, sono bastate solo poche settimane prima che molti di noi si rendessero conto, con disappunto, che il Partito Laburista britannico sotto la sua guida si era rapidamente trasformato in uno degli organi politici più autoritari ed oppressivi in circolazione.
In Metropolis Lang ridicolizza l’idea della “rivoluzione.” Sottolinea la banalità e la disperazione delle masse. Nel film, gli operai seguono il messaggio cristiano e umano di Maria, in attesa di un mediatore-salvatore che riscatti l’intera classe, ma, quando Maria ritorna sotto forma di robot e porta un messaggio completamente opposto, chiedendo letteralmente la guerra, le masse la seguono e insorgono contro la macchina, in quello che sembra essere un atto suicida.
In questo, Metropolis è riuscito a catturare la minaccia insita nella vuota ed impulsiva retorica della Sinistra, come anche la cupa malvagità del capitalismo e il suo folle sfruttamento dei più deboli.
Il socialismo nazionalista che si era evoluto nei primi anni del ‘900 promuoveva l’uguaglianza sociale, ma respingeva categoricamente l’idea della rivoluzione mondiale e del cosmopolitismo. Nel suo libro, Il fascismo liberale, Jonah Goldberg fa un interessante resoconto dell’evoluzione del pensiero fascista europeo. Il fascismo italiano, secondo Goldberg, sosteneva l’uguaglianza del popolo italiano. Non è un concetto così scandaloso in sé. Il nazionalsocialismo tedesco potrebbe essere definito, secondo Goldberg, come il socialismo delle persone di lingua tedesca. Ancora una volta, non sarà probabilmente la visione marxista ideale del mondo, ma non si tratta necessariamente di un concetto razzista, visto che molte persone di origini ed etnie diverse possono parlare tedesco. L’hitlerismo, tuttavia, propendeva per il socialismo di un’unica razza. Questo era un concetto estremamente problematico, in quanto discriminava gli individui già dalla nascita.
È abbastanza comune analizzare la distinzione tra marxismo (o sinistra) e socialismo nazionalista dalla prospettiva dei loro atteggiamenti nei confronti del cosmopolitismo rispetto all’uguaglianza o alla giustizia in un determinato contesto geografico o nazionale. Tuttavia, i miei studi sulla politica dell’identità ebraica e sul Sionismo mi hanno portato ad una comprensione più profonda della cruciale distinzione tra marxismo e socialismo nazionalista.
Nel suo famoso testo I miti fondatori di Israele, lo studioso di storia ebraica Zeev Sterhell, rivela che l’ideologia del socialismo nazionalista, profondamente intrisa di ‘sangue e suolo’ (Blut und Boden) era anche stata al centro della prima rivoluzione sionista, ben prima che Hitler scrivesse Mein Kampf e certamente prima che Fritz Lang e sua moglie cercassero un mediatore che collegasse la “testa” e le “mani.”
Sternhell nota che il primo movimento sionista vedeva come una necessità il legare “lavoratori” e “padroni” in una forza rivoluzionaria unificata: la nazione o popolo. Il “socialismo nazionalista,” scrive Sternhell, “insegnava che tutti i tipi di lavoratori rappresentano interessi nazionali, sono il cuore della nazione e il loro benessere è anche il benessere della nazione. Pertanto, i lavoratori alla catena di montaggio e i proprietari dell’impresa industriale sono, allo stesso modo, ‘produttori’.“ “In egual misura,” continua Sternhell, “il socialismo nazionalista distingueva tra il borghese ‘positivo’, il produttore, e il borghese ‘parassita;’ tra il capitale ‘produttivo’ e il capitale ‘parassitario;’ tra il capitale che crea occupazione e aumenta la forza economica della società e il capitale speculativo, che arricchisce solo i suoi proprietari e non genera ricchezza collettiva.“
Il progetto sionista primitivo aveva avuto molto successo nel far confluire verso l’emergente progetto nazionalista ebraico sia gli Ebrei facoltosi che la borghesia produttiva. Il Sionismo, nella sua prima forma, considerava la nazione come un’unità culturale, storica e biologica o, in senso figurato, una famiglia allargata. Sternhell sottolinea che, agli albori del Sionismo, l’individuo era considerato una parte organica del tutto e il tutto aveva la precedenza sull’individuo. “Per garantire il futuro della nazione e proteggerla dalle forze che minacciavano di sradicarla, era necessario rendere palese la sua unità interiore e mobilitare tutte le classi contro i due grandi pericoli che la nazione doveva affrontare nel mondo moderno: il liberalismo e il marxismo nelle sue varie forme.”
In modo lucido, Sternhell riferisce che il Sionismo, nella sua forma primitiva, respingeva lo spirito dell’Illuminismo, la filosofia della borghesia europea. “Al posto dell’individualismo borghese, il socialismo nazionalista presentava l’alternativa dello spirito di squadra e del cameratismo: al posto dell’artificialità e della degenerazione della grande città, promuoveva la naturalezza e la semplicità del villaggio. Incoraggiava l’amore per la propria terra natia e il suo contesto. Questi erano anche i valori di base del movimento operaio. Il sionismo socialista, tuttavia, era andato oltre ogni altro movimento nazionale quando aveva ripudiato la vita degli Ebrei in esilio. Nessuno aveva attaccato gli Ebrei dell’Europa dell’Est con più veemenza dei giovani degli shtetl polacchi che si erano stabiliti in Palestina, e nessuno aveva dipinto la tradizionale società ebraica in modo più cupo dei pionieri arrivati con le prime ondate migratorie.”
Nella sua lettura del movimento sionista degli albori Sternhell giunge alla conclusione che il movimento nazionalista ebraico fosse intimamente nazionalista socialista. Secondo questo concetto, Sion o, più precisamente, la Palestina storica, la cosiddetta “terra promessa” era il “cuore” che avrebbe unificato le “menti” e le “mani” dei rivoluzionari ebraici.
Due anni dopo Metropolis, la Germania aveva dovuto affrontare un’orrenda crisi finanziaria che, alla fine, avrebbe portato alla nascita del nazismo. Era stata la scarsa fede nell’offerta socialista e la realtà di un capitalismo duro e spietato a far credere ai Tedeschi che Hitler fosse il cuore, l’uomo che avrebbe portato all’unità del gregge ed emancipato i Tedeschi dai figli dell’Illuminismo, vale a dire il “capitalismo” e il “marxismo.” Hitler era rimasto al potere per 12 anni. La sua devozione nazionalista era stata totale, il suo socialismo piuttosto selettivo. Il suo regno era terminato nel caos più completo. Il socialismo nazionalista sionista è durato ottant’anni. Era iniziato alla fine del XIX secolo e si è concluso nel 1977, con la sconfitta elettorale del Partito Laburista israeliano. Il partito che aveva dominato la rivoluzione sionista per gran parte del secolo è letteralmente scomparso il mese scorso, ma, prima che ciò accadesse, ha ottenuto molto. Ha vinto guerre con spettacolari Blitzkrieg, per esempio nel 1967, ha fondato uno stato per soli Ebrei, come aveva promesso di fare, ha ripulito etnicamente la Palestina dalla sua popolazione indigena, ha approvato le filosofie più problematiche e le tattiche più razziste, espansionistiche e nazionaliste, senza mai avere scrupoli di sorta.
C’è una lezione da imparare da Metropolis e anche dal Sionismo laburista: se il capitalismo globale è un completo disastro, forse la strada da percorrere è l’unità del gregge; la continua ricerca di un legame umano che trascenda razza, genere, classe, sinistra, destra o qualsiasi altra ideologia di divisione. La spinta all’uguaglianza e alla compassione è preziosa e la ricerca di quel cuore che ci unisce in un sol uomo è uno sforzo umano. Il Sionismo laburista, alla fine, è crollato perché non era genuino, fingeva di essere umano e universale, ma era tribale e razzista fino al midollo. Il Sionismo laburista è sparito perché era un rozzo precetto identitario. Era egocentrico ed è imploso per le sue stesse contraddizioni.
Non è stato il “patriottismo” a smantellare il Sionismo laburista, è stato il fatto che il patriottismo sionista è stato celebrato a spese di qualcun altro. Questo è precisamente il pericolo insito nel nazionalismo etnico. Voglio credere che una simile manifestazione di gretto sciovinismo possa essere evitata. Stare al mondo è vivere tra gli altri, vivere e lasciar vivere.
Perché il cuore leghi le “teste” e le “menti” è necessario un ethos universale: è indispensabile un’umile accettazione della condizione umana. Forse è proprio questa realizzazione che spiega la centralità del simbolismo cristiano e della Chiesa in tutto Metropolis.
Gilad Atzmon
Fonte: gilad.online
Link: https://gilad.online/writings/2020/5/10/metropolis-and-the-battle-for-herd-unity
10.05.2020