di Giovanni Iozzoli
Sara Manzoli (a cura di), Mi devi credere! Cantiere di socioanalisi narrativa svolto con un gruppo di badanti, Sensibili alle foglie, Roma, 2020, pp. 96, € 13,00
Quando si parla del lavoro “neo-servile”, viene naturale pensare ai raccoglitori agricoli, al caporalato, alle mille forme di precarizzazione selvaggia che innervano oggi la circolazione di valore e merci. Raramente pensiamo che queste forme salariate – che fondono servitù arcaiche e modernità biopolitica – le incrociamo ogni giorno nella nostra sfera di prossimità, nei nostri condomini, spesso negli appartamenti delle nostre famiglie. Cos’altro rappresenta la funzione della “badante”, se non una figura iper-atipica di lavoro salariato in cui tutte le caratteristiche del moderno rapporto di lavoro – compenso, orario, definizione della prestazione, contrattazione – subiscono una torsione potentissima “all’indietro”, verso forme di sottomissione che appartengono ad un orizzonte apparentemente remoto? Elementi di un passato servile, conficcati dentro una situazione di modernità liquida dei rapporti: il risultato è un carico di sfruttamento e sofferenza sociale enorme, subito da donne, prevalentemente non giovani e straniere.
A dare voce a questo magma nascosto ha pensato il cantiere di socioanalisi narrativa, organizzato a Modena da Sara Manzoli, operatrice sociale e attivista. Il metodo, ormai storicamente consolidato da Sensibili alle Foglie, è quello di raccogliere e valorizzare il “racconto” orale dei protagonisti, nella sua immediatezza, senza filtri o mediazioni ; per poi usare questo materiale “grezzo”, questa polifonia soggettiva, allo scopo di far emergere il ”dispositivo” generale e astratto – il rapporto sociale, economico, di potere – che sta dietro quella sofferenza. In questo modo la sociologia critica non si de-umanizza, non diventa analisi o statistica, ma vissuto, biografie, esperienza e potenziale trasformativo.
È una lettura dura, a tratti opprimente, quella di queste testimonianze. E l’aspetto forse più inquietante, e’ la terribile realtà della microfisica dello sfruttamento: quel meccanismo perverso in cui sono le famiglie, spesso quelle con meno mezzi, a esercitare e pretendere da queste lavoratrici una sottomissione irragionevole, nel lavoro, nelle condizioni, nei tempi di vita, persino nella sfera più intima. In controluce, questi frammenti di vita “badante” raccontano di un paese che cerca di scaricare su lavoratrici povere e ricattabili, gli enormi costi sociali e umani della non autosufficienza.
Umiliazioni, estensione praticamente illimitata degli orari, mancato rispetto del riposo, della salute, della dignità umana di queste donne, viste “dagli utenti” come macchine di assistenza per anziani che non hanno più tempo e voglia di curare; l’accanimento dei “padroni domestici” (il più delle volte figli e figlie di assistiti) contro le badanti, non è fortunatamente la regola, ma la fluidità del rapporto che si instaura tra il committente – la famiglia – e la badante, apre le porte ad ogni angheria, ad ogni abuso, ad ogni “eccedenza” nelle richieste delle famiglie. È un lavoro in cui il terreno della prestazione è la nuda vita stessa: quella dell’assistito, ma anche quella dell’operatrice, quella dei familiari che l’hanno assunta, quella degli intermediari che campano sul lavoro altrui. Dentro questa crucialità esistenziale, di vita e di destini, ogni genere di tensione cova ed esplode.
Le badanti, soprattutto quelle che vivono in ospitalità, sono in una condizione di subordinazione totale, sottoposte ad una pressione delle famiglie che, a loro volta, sono costrette a svenarsi per pagare il servizio ai loro cari. Il circuito della sofferenza è claustrofobico: le famiglie trovano scarso o nullo riscontro dai servizi sociali, l’assistenza privata a domicilio diventa la risposta indispensabile per tenere in piedi gli equilibri familiari; nello sforzo di contrarre costi e spese dell’assistenza, la badante può diventare una controparte a cui lesinare persino il cibo e le condizioni minime di sussistenza. Un classico schema di guerra tra poveri nell’Italia dei giorni nostri.
Al primo colpo d’occhio questi figli sembrano gli aguzzini di questa classe lavoratrice, ma se poi andiamo a guardare bene dentro le situazioni scopriamo che questi non sono altro che essi stessi portatori di sofferenza e diritti negati (pag. 40)
Se qualche luogo comune vuole “l’assistenza domiciliare” come attività dura ma comunque renumerativa, la realtà contrattuale è drammaticamente opposta:
Lo stipendio di una badante convivente si aggira intorno a 870 euro per chi presta assistenza a persone autosufficienti mentre si parla di di circa 930 per assistenza a persone non autosufficienti. La paga oraria sta sotto i sei euro lordi l’ora. Il vitto e l’alloggio sono calcolati con un valore di 5,61 euro al giorno (…) Una badante convivente che lavora dieci ore giornaliere e ne presenzia ventidue sul posto di lavoro arriva a guadagnare circa mille e cento euro mensili (pag. 50)
Mille e cento euro. Compreso il lavoro notturno non pagato e il carico di vessazioni, mortificazioni e ricatti che una lavoratrice debole e senza tutele, è costretta quotidianamente a ingoiare. Il lucido racconto di queste donne diventa dramma, quando si parla del tema salute. Un lavoro così logorante, non può non lasciare segni permanenti su donne, spesso over 50. Poco tempo e poche occasioni per accedere alle cure del servizio sanitario pubblico.
Ma il danno più grave, oltre che sui corpi, si consuma sulla psiche di queste donne. Nel libro si racconta di una clinica psichiatrica di Iasi in Romania, in cui pare che su 3000 pazienti ricoverati in un anno per depressione, circa 150 fossero persone di ritorno dell’Italia, dove erano venute a cercare lavoro. Da qui la “sindrome Italia” (cosi e’ stata battezzata in Romania) , il mal di vivere che attanaglia migliaia di donne moldave, rumene, ucraine, che hanno vissuto il dramma del “badantato” all’italiana, per tornare nei propri paesi d’origine e misurare lacerazioni familiari altrettanto terribili.
Più che una malattia, la sindrome Italia è un fenomeno medico sociale, spiega Petronela Nechita, primaria psichiatra della clinica di Iasi in Romania: “c’entrano la mancanza prolungata di sonno, il distacco dalla famiglia, l’aver delegato la maternità ai nonni, mariti, vicini di casa… (pag. 56)
Sara Manzoli è stata abile a cucire insieme le voci di questo “collettivo” di badanti modenesi. Queste donne che raccontano se stesse non sono il prodotto di interviste sociologiche o giornalistiche, bensì di un tenace lavoro politico di ascolto, messa in relazione, organizzazione. E’ questo lavoro – immaginiamo lungo e faticoso – che permette alla parola finalmente liberata, di esprimersi con lucidità, consapevolezza, senza autocompatimenti: la presa di coscienza, da parte di queste donne, di non essere vittime del destino ma di un meccanismo costituito, di un rapporto di sfruttamento, di un modello da cambiare. E questa comprensione è il primo passo verso l’emancipazione.
Una nota di merito anche a Sensibili alle Foglie, che nel 2020 festeggia trent’anni di indagine sociale, di libri e di buona letteratura, presidiando orgogliosamente i bordi sfrangiati e inascoltati della società. Ricercare, studiare, pubblicare e dare voce a chi non ha voce: quale compleanno può essere più utile e degno?