“Mi hanno detto che sono weird”: Evangelisti e il genere strano

di Franco Pezzini

In uno degli ultimi incontri redazionali di questa testata cui si sia trovato a partecipare (2019), Valerio Evangelisti (20 giugno 1952 – 18 aprile 2022) comunicava ridendo di aver scoperto a quale tipo di filone narrativo andasse ascritta la sua produzione: “Mi hanno detto che sono weird”. Il dibattito sul weird ferveva su siti e riviste letterarie – in particolare tra il 2016 e il 2019 –, e tra entusiasmi e disprezzi sui social (“un’etichetta dei salotti letterari per rendere più chic ciò di cui noi ci occupiamo per anni” tuonava alla grossa qualcuno) iniziava la conta per costruire una sorta di canone weird – anche italico. Il problema su cosa sia il weird restava oggetto di discussioni vivaci; e discussa era anche l’utilità di ricorrervi.

Testata la traduzione “strano” (come nel canone strano di cui parla Carlo Mazza Galanti) che però va in rotta di collisione con il concetto omonimo di Todorov, sono state dunque avanzate varie altre possibilità. Come il termine “insolito”, di successo negli anni Sessanta per indicare un certo magma coinvolgente stramberie fortiane, ipotesi parapsicologiche, archeologia misteriosa (Kolosimo & Co.), curiosità felliniane, ma insieme certi Buzzati, Landolfi, il Mino Milani di Fantasma d’amore, eccetera. O il più recente “sconcertante” (Novo Sconcertante Italico, proposto non senza ironia in contrapposizione a “new Italian weird” troppo anglesato); o, perché no, “straniante”… Del resto un’ulteriore chiave definitoria del weird è quella che lo risolve nella sua natura ibrida, in riferimento a un tipo altro di opere del fantastico al crocevia tra diversi generi canonizzati (fantascienza, fantasy, horror…): e proprio a proposito della saga di Eymerich di Evangelisti, si può essere senz’altro d’accordo con Alberto Sebastiani sull’interesse in fondo relativo di etichettarla in questo o quel genere specifico, ravvisando piuttosto una chiave connotante nella disinvolta ibridazione di diversi generi popolari e nella funzione politica della medesima (la decolonizzazione e liberazione dell’immaginario, visto che “Il contropotere della letteratura deriva dalla forza con cui evoca gli archetipi”).

Un elemento interessante, d’altronde, è offerto dalla stessa storia del termine in questione. Attestato fin dal 1400 da wierd, inglese antico wyrd, “fato, destino”, cfr. norreno urðr, “fato, una delle tre Norne”: un’origine cui richiama la nota definizione Weird Sisters per le streghe del Macbeth (appunto tre come le Norne: in realtà tramite le Chronicles di Holinshed, 1587, perché Shakespeare usa weyward e non weird) e che veicola un significato di “strano, disturbantemente diverso”. Sul tema, che però evidenzia anche una certa dimensione di fatalità di conseguenze, dovremo tornare.

Quel che possiamo semmai considerare acquisito è che il tipo di etichetta non sia congruo a una classificazione commerciale: i vecchi generi fantascienza, fantasy, horror, poliziesco sovvengono assai meglio alle necessità dei librai. Weird è piuttosto una classificazione su un rapporto interno di contenuti e approccio.

In ogni caso, proprio l’opera di Evangelisti può fornire alcune chiavi di estremo interesse per far capire – a posteriori? certo cogliendo meccanismi non scontati – in quale senso weird possa rivelarsi un concetto critico utile.

Proprio la scelta di sparigliare le sue storie su Eymerich tra tempi vertiginosamente lontani (in genere tre, cioè il “tempo base” dell’inquisitore, un “livello 1” tra il XX e XXI secolo, e un “livello 2” esteso anche molto oltre, nel futuro), evidenziando nessi di causa/effetto paradossali e destabilizzanti, ben illumina la prima e fondamentale delle caratteristiche delle storie considerate weird: riguardino ricadute storiche collettive o invece emotive/spettrali individuali, in scena è una causalità imprevista legata al tempo (un feticcio inquietante con un ruolo importante nella storia del fantastico: per un esempio, cfr. qui), al monstrum di conseguenze inattese come sassetti che diventano valanghe, alla sopravvivenza spiazzante e teratologica di effetti. In Evangelisti ciò è reso anche formalmente evidente tramite il passaggio continuo, improvviso, tra epoche diverse e la presenza di immagini fortemente oniriche atte a suggerire un brivido di destabilizzazione. Come insomma nel caso delle Weird Sisters, una certa componente fatale nel senso di nessi causali stranianti, di raggelanti profezie autoavverate e di conseguenze impensate ma ineluttabilmente radicate in concrete scelte storiche sembra connotare gran parte degli intrecci dei romanzi di Evangelisti. Quale che sia il valore classificatorio di un’etichetta descrittiva tanto ampia, weird suggerisce spesso l’idea di paradossi nella lettura storica e nella concatenazione causa/effetti attraverso il tempo, come appunto emblematicamente in Evangelisti.

Il che apre però a una seconda chiave: la presenza del paradosso e dello straniamento giocato nel modo di narrare, nel tipo di ambientazione e nelle attese “normali” del lettore dati un certo contenuto e un certo passo (per un precedente pur diverso, cfr. qui). Per esempio ci si attende un western e compaiono presenze raggelanti come gli onirici Cowboys from Hell di Metallo Urlante (1998). Di nuovo, ci sarà un nesso causale da evidenziare – per nulla scontato – ma lo spiazzamento è recato proprio dall’effetto stridente tra ciò che può attendersi e ciò che invece si verifica.

Ma c’è almeno una terza chiave, sui paradossali effetti causali legati all’identità. Eymerich non solo incontra un fantasma sua copia ma si proietta modularmente in tempi diversi fino a un remotissimo futuro un po’ come il Randolph Carter lovecraftiano proietta i suoi alter ego (“Vi erano «Carter» in scenari appartenenti a ogni conosciuta, o ipotizzata, era della storia della Terra e a ere più remote dell’entità terrestre, ere che trascendevano la conoscenza, il sospetto e la credibilità”, Al di là del portale della Chiave d’argento). Dove in fondo l’autore gioca consapevolmente col fatto che a sua volta Eymerich è un alter ego (sovvertito) proprio, la sua Ombra, e che qualunque operazione narrativa con un protagonista gioca su uno straniamento – un fenomeno che in altro senso potremmo pure definire weird – nel rapporto autore/personaggio. Una dose di weird è insita nell’autofiction, con un io modulare che è sempre un po’ più e un po’ meno del soggetto reale, attraverso il filtro straniante della narrativa. Ma in saghe come quella di Eymerich, questo sabba multiversale di proiezioni identitarie dice moltissimo, per il ruolo stesso che il cattivo protagonista è chiamato gnosticamente ad assumere nel cosmo.

“Mi hanno detto che sono weird”: senza banalizzazioni, proprio l’attenzione politica e ideale alle conseguenze storiche finisce col condurre alla contemplazione della loro spietata paradossalità, alla costruzione di una narrativa che la valorizzi criticamente, alla necessità di collocarci – di schierarci, anche – con percezione problematica delle nostre posizioni in uno sfondo o nell’altro. Attraverso un’operazione critica e autocritica che, fuor da ogni santino, l’uomo Evangelisti ha saputo portare avanti con rigore, ironia, umanità e straordinaria fantasia, nella sua vita di scrittore e militante. Qualcosa che, a distanza di tre anni dalla morte, fa sì che continui a mancarci tanto.

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