Migrazioni, razzismi e governance nel Capitalocene

In ogni parte del mondo si stanno dando nuove insorgenze, ma allo stesso modo va posta l’attenzione sulle conseguenze immediate che subiscono quasi ottanta milioni di persone nel mondo, l’1% della popolazione mondiale, secondo l’ultima stima dell’UNHCR, a causa delle migrazioni forzate.

Milioni di persone in movimento

La storia dell’umanità è fatta da spostamenti di gruppi di popolazioni in risposta ai mutamenti del proprio habitat. Propongo la lettura avanzata dalla sociologa ed economista statunitense Saskia Sassen: la globalizzazione dell’economia, accompagnata dall’emergere di modelli di potere transnazionali, ha profondamente alterato il tessuto sociale, economico e politico degli Stati-nazione, di vaste aree sovranazionali penetrando fin nei quartieri delle nostre città.

Steffen Bauer, studioso del rapporto tra clima e migrazioni, dice che migrare è “una possibile opzione per gli esseri umani in risposta ai cambiamenti delle condizioni esterne”.

L’imponente “perdita di habitat” è davanti ai nostri occhi, Sassen la imputa ad una varietà di eventi e circostanze estremi: guerre asimmetriche, furti di terre, fino all’avvelenamento di terreni ed acque causato dall’attività di estrazione mineraria.

In sintesi, le migrazioni sono l’effetto collaterale, forse tra i più visibili agli occhi di un occidentale, della forma estrattivista assunta dal capitalismo.

Oggi qui al Rivolta ci poniamo lo scopo di analizzare e descrivere il capitalismo come un regime ecologico, superando la visione classica dove il capitalismo è il modo di produzione delle merci basato sulla scissione di mezzi di produzione e (plus)valore prodotto dal lavoro vivo che trasforma la materia. Noi, analizzando materialisticamente il reale, vediamo come la riproduzione di capitale oggi avvenga estraendo valore dalle attività vitali oppure sottraendo valore alle persone, qualunque cosa stiano facendo.

Sottrarre suolo, acqua, pezzi di città (o metropoli!) chiude ogni possibilità di vivere, ci strangola, ci toglie il respiro! Ogni miniera, pozzo petrolifero, diga (idroelettrica!), è un agente di questa sottrazione, così come l’inquinamento dell’aria nelle nostre città, e provoca direttamente lo spostamento di milioni di persone, è palese ed evidente. Ma è meno immediato cogliere un secondo aspetto: il sistema economico dominante si riproduce anche perché estrae direttamente valore dal comportamento delle persone. C’è un business globale basato sulle vite, anche le nostre ma ora focalizziamo quelle dei migranti in particolare: dalle grandi agenzie della governance (FAO, UNHCR) alle ONG che prosperano gestendo “campi profughi” ai passeur organizzati in reti transnazionali, il comportamento delle persone viene forzato dalle condizioni ambientali, le persone imprigionate in una catena di sfruttamento forse più efficace e pervasiva della vecchia fabbrica fordista. Alla fine della catena, per chi sopravvive, c’è lo sfruttamento “classico” da parte del caporale in campagna o in cantiere … oppure tra le mura domestiche, approfondiremo in seguito.

Centinaia di milioni di persone si trovano costrette ad andare in cerca di un “altrove”, non trovando altro che le catene della schiavitù: che cosa è infatti il lavoro coatto senza alcuna possibilità di accesso ai diritti? Il governo dei corpi agisce quindi favorendo l’accumulazione di capitale, cioè: l’arricchimento di chi già è ricco, prima ancora che le persone non siano altro che forza-lavoro. Il climate change, generato dal sistema di produzione industriale, è agente diretto delle diseguaglianze globali!

Il rapporto causa-effetto tra climate change e movimenti migratori non è lineare da stabilire: noi lo postuliamo ponendo entrambi sul piano delle immediate conseguenze materiali del sistema capitalistico dominante. Del resto, lo dicono proprio loro, i capitalisti DOC, che il nesso c’è: la Banca Mondiale in un rapporto pubblicato nel 2018 afferma che 143 milioni di persone nei prossimi anni saranno costrette ad abbandonare le proprie case per colpa dei fenomeni meteorologici estremi o dalle condizioni ambientali che saranno diventate invivibili.

Libertà di restare e libertà di movimento, senza visto

Tracciato questo quadro, indaghiamo alcuni particolari cercando di non perdere di vista l’orizzonte complessivo del climate change e delle possibili sovversioni dei rapporti di forza che ne generano lo spazio di possibilità.

La libertà di movimento è negata alla maggioranza della popolazione globale. Per noi questo è un diritto inscritto in ciascun corpo e quindi inalienabile e non subordinabile a condizioni di sorta. Chi lo nega è lo Stato, in due modi: chiudendo i confini e non riconoscendo la presenza delle persone all’interno del territorio. Il governo dei corpi è lasciato allo Stato-nazione, secondo il paradigma novecentesco dentro cui è stata adottata a Ginevra la Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati. In netta controtendenza con il governo dei mercati, del flusso delle merci e del capitale stesso, che invece sono regolamentati da trattati internazionali capaci di sovrascrivere le leggi nazionali e continuamente aggiornati, l’unico strumento normativo esistente risale al 1951 e non è mai stato rivisto nel suo impianto di fondo. Nell’ottica della Convenzione, lo spostarsi fuori dal proprio Stato è una condizione eccezionale e rara, e presuppone un mondo statico, l’esistenza di un “altrove”, di un “porto sicuro” dove con certezza la persona si stabilisce e a cui chiede protezione. L’idea del mondo-puzzle di tanti stati chiusi è stata imposta col ferro e col fuoco delle aggressioni coloniali, prima di condurre alla doppia tragedia delle due Guerre Mondiali. L’idea inscritta nella Convenzione di Ginevra è che ci siano stati più sviluppati dove le libertà sono garantite dalla prosperità economica che possono proteggere anche i cittadini di altri stati, che fuggono perché perseguitati personalmente dal regime politico. In aggiunta, possono esservi calamità naturali o guerre, ma è sempre la storia di ogni individuo a dover essere esaminata. Non è concepito che intere popolazioni si spostino da “casa loro”.

Governance globale e barriere di classe

Questa impostazione astratta oggi è negata dai fatti.

Anzi! Accordi tra stati permettono nuove operazioni militari, i confini non sono più linee ma zone estese anche per 10 km dentro il territorio di uno stato; i respingimenti, ipocritamente detti “riammissioni”, funzionano sulla base di accordi bilaterali.

Di più: l’ONU, nel 2016 a New York e nel 2018 a Dakar ha diviso i migranti in due categorie: migranti economici e profughi. Di fatto, si ammette lo spostamento solamente di (pochi) sfollati a causa di guerre o alluvioni: è forse questa una nuova normalità!? Oppure, bisogna provenire da un paese con il PIL giusto: le probabilità di passare una frontiera dipendono anche dal passaporto.

Insomma, è una questione di ricchezza, individuale e collettiva: una questione di classe!

Il COVID ha chiuso tutte le frontiere, per chiunque. L’area di libera circolazione di Schengen di fatto non esiste più. Ogni spostamento è stato negato per mesi, a chiunque; la situazione continua ad essere eccezionale, i controlli ai valichi di frontiera sono ritornati, per tutti.

Eppure in piena quarantena aerei carichi di braccianti romeni sono atterrati in Germania e Regno Unito, squarciando il silenzio degli aeroporti chiusi: forza-lavoro importata a tempo determinato per garantire la produzione agricola.

In Italia il Governo ha avviato il percorso della regolarizzazione per chi già è presente, ci torneremo dopo. Diciamo questo per evidenziare come i confini siano aperti, sempre aperti se il capitale ha un’esigenza, chiusi irreversibilmente se le persone hanno un’esigenza.

Il confine è il dispositivo di repressione di ogni bisogno e di ogni desiderio!, ed è al contempo dispositivo di profitto: big corporations, speculatori, estorsori … il confine è un motore di business. Chi si stabilisce, anche temporaneamente, nei nostri territori continua ad essere ricattato: una dichiarazione di ospitalità, la residenza, gli elementi base per ottenere il rilascio anche del permesso di soggiorno per richiedente asilo, costano, vengono venduti, c’è un fiorente mercato. Ora, per fruire della regolarizzazione, c’è chi deve comprarsi il contratto di lavoro, pagando migliaia di euro!

Le nostre pratiche di lotta comprendono anche l’auto-narrazione. Dobbiamo prestare molta attenzione al modo con cui raccontiamo i nostri claims, le nostre azioni, le nostre campagne, per non cadere in narrazioni etico-moralistiche, e soprattutto per tenere dentro quell’orizzonte generale di cui dicevamo prima. Solo la piena libertà di movimento può scalfire l’estrazione di valore dalle vite dei migranti e spezzare le catene del nuovo schiavismo che si sta affermando tanto nelle campagne, anche qui a NordEst, quanto nelle città, dove la vita quotidiana sarebbe diversa senza badanti e fattorini invisibili.

Libertà di movimento significa quindi: frontiere aperte e pieno riconoscimento per tutte e tutti, cioè: documenti! Non subordinati al lavoro salariato, mero elemento di disciplinamento delle vite e sfruttamento economico, che noi rigettiamo radicalmente!

Should I stay or should I go? Diritto di scelta

Noi rivendichiamo sempre il diritto di decidere: in particolare, scegliere se rimanere o migrare.

Oggi in due terzi del mondo le popolazioni sono private del loro territorio, se ne devono andare, there is no alternative. L’accesso alla restante parte è impedito manu militari. I decision-makers del capitalismo “bianco”, anche se Obama non è certo esquimese, si arrogano il diritto di vita o di morte sul pianeta intero, le pandemie, abbiamo visto, sono effetto collaterale ma diretto del modo coloniale ed estrattivista assunto dal capitalismo oggi.

Ciò che viene colonizzato va ora ben oltre il suolo: sono i nostri corpi, le nostre stesse vite! È il modo di vivere, di agire, di prendere decisioni e mantenere relazioni sociali, il nostro stesso immaginario è terreno di conquista da parte del capitale, terreno di nuova colonizzazione.

Barriere materiali ed immateriali e rivendicazioni

Dal 2015 in poi l’Europa si sta riempiendo di reticolati, filo spinato … e nuove formazioni di polizia deputate al controllo dei confini. Effettivamente, che cosa accade?

Questi dispositivi non sono altro che strumenti di umiliazione, di negazione della dignità. I report sulla merda infame fatta dalle polizie di tutto il mondo si sprecano, grandi organizzazioni come Amnesty International si esprimono in maniera inequivocabile, noi su Melting Pot puntualmente rilanciamo ogni rapporto.

Serve? Cosa serve davvero?

Serve una lotta radicale, senza mediazioni, volta ad abbattere materialmente pezzo per pezzo ogni confine! Iniziando dal “nostro”, dal confine orientale con la Slovenia. Quattro anni fa, tornati dalla carovana ad Idomeni, ci scontrammo con la polizia austriaca al Brennero, era in costruzione il reticolato da parte dell’Austria.

Ora un nuovo reticolato sta per essere installato tra Italia e Slovenia, laddove non c’era nemmeno la Cortina di Ferro durante la guerra fredda.

#Lesvoscalling è lo strumento per interagire con altre realtà, operative e stabilite dove noi non ci siamo, da Trieste ai Balcani fin giù sulle isole dell’Egeo. Ma anche con le altre realtà politiche europee con cui siamo in relazione. Ci ricorderemo, due anni fa, di un grande corteo a Ventimiglia che chiedeva documenti validi in tutta Europa.

Se l’Europa è l’orizzonte minimo dei movimenti, allora dobbiamo lavorare per portare avanti a questo livello anche questo claim.

Cosa impariamo dall’azione politica?

Prima ho parlato di lavoro e di narrazione. Per concludere, invito a riflettere su quanto osserviamo attraverso la campagna Siamo Qui – Sanatoria subito!.

Ai “non italiani” viene concessa la possibilità – una lotteria, non una certezza, badate bene! – di ottenere documenti se fanno uno sporco e faticoso lavoro materiale in campagna, oppure se diventano nostre balie, governanti domestiche. Avete presente la figura di “Big Mama” in Via Col Vento? Ecco il prototipo di “collaborazione domestica” tra una famiglia (di coloni!) bianca e la servitù nera.

Siamo alla sovrapposizione della linea del colore con quella della classe. Cioè: il razzismo sta producendo la concezione del “bianco” e del “nero” conquistando a poco a poco il terreno delle relazioni e condizioni materiali, quell’insieme di contraddizioni che solo 5 anni fa ci saremmo ostinati a chiudere nella definizione “di classe”.

Nel caso in cui un prossimo provvedimento estenda la regolarizzazione ad altri settori sarà ancora più evidente … e del resto, la composizione sociale dei “facchini” già indicava questa tendenza.

Aggiungo: il lavoro “di cura”, il lavoro “domestico”, è quello tradizionalmente associato all’immagine femminile, per quanto non sia svolto solamente da donne: viene però ancora “declassato, degradato”. Femminilizzato, proponeva Cristina Morini in un suo lavoro del 2010 intitolato Per amore o per forza: femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, dove trattava del ruolo della donna bianca nella società (patriarcale) di noi bianchi. Capite come il controllo delle vite sia però esteso con validità generale, globale, attraverso la messa al lavoro.

Subordinare i diritti al lavoro cosa significa? significa creare, solo in Italia, un esercito di riserva di quasi 1 milione di migranti irregolari o con permessi brevi e temporanei, come i richiedenti asilo o coloro che hanno una protezione umanitaria non rinnovabile per effetto del primo decreto Salvini, che durante questa pandemia si sono ritrovati in condizione di marginalità ancora più estrema.

Conclusione

Siamo partiti dallo spossessamento di territorio, abbiamo guardato al tetro sbocciare di nuove barriere materiali, per cogliere che il razzismo, da opinione o categoria morale “statica”, ha ceduto il passo ai processi di “razzializzazione” che agiscono riproducendo le distinzioni di classe, e coinvolgono anche la condizione “di genere” di ciascuno, creando un’élite “che può decidere” ed agisce contro tutte e tutti noi.

Cambiare il sistema, per non cambiare il clima, necessità di rovesciare i rapporti di forza nelle società, inceppare gli strumenti di cui si serve il capitale. Il razzismo – o meglio, la razzializzazione delle vite, è uno dei più efficaci e dilaganti.

Lottare contro le discriminazioni, avere cura delle persone migranti nelle nostre città, andare magari a sfondare una conferenza governativa o un posto di frontiera contengono e sono contenuti dentro l’epico scontro che si sta consumando nell’era del Capitalocene, e che noi soggettivamente scegliamo di combattere, con ogni mezzo necessario!

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