di Francisco Soriano
Pensare di collocare la pena di morte fra le memorie più aberranti del passato rappresenta oggi una mera utopia. Le statistiche certificano quanto il gesto sia inutile come deterrente e ininfluente dal punto di vista intimidatorio, proprio in quei contesti sociali in cui la pena capitale è pratica consolidata. La dimensione di questo atto criminale compiuto dallo Stato, che si fa garante del mantenimento dell’ordine pubblico e nello stesso tempo cerca di esaudire la soddisfazione delle vittime nel vedersi risarcire il torto subito con l’effettiva esecuzione della pena, si presta a una serie di interpretazioni e riflessioni sul concetto di giustizia. Infatti si vorrebbe ergere sul piedistallo della intransigenza risarcitoria quell’idea di giustizia che presuppone semplicisticamente una visione manichea delle dinamiche sociali e nasconde, nella realtà, una ipocrita e deviante valorizzazione della cultura della morte e della vendetta.
La nemesi della pena di morte colpisce inesorabilmente da millenni e, come ricordava Albert Camus, rappresenta una rozza operazione chirurgica eseguita in circostanze che la spogliano di qualsiasi carattere edificante». È notizia di poche settimane fa, per la prima volta dopo settant’anni, dell’esecuzione di una donna negli Stati Uniti per ordine federale con un’iniezione letale. Questa condanna a morte denota aspetti raccapriccianti, provoca disagio e sconforto per il brutale epilogo. Lisa Montgomery aveva strangolato una donna nel 2004 e, dopo averle inciso il ventre ne estraeva la neonata. La donna artefice di questo atto così cruento soffriva di disturbi psichici provocati da traumi da stress, depressione, dissociazione e perdita della memoria. Il suo stato mentale gravemente pregiudicato era il prodotto delle torture e degli abusi sessuali che aveva dovuto subire sin da quando aveva tre anni di età. Per questi motivi la cronaca del reato e la biografia della donna avrebbero dovuto definire nelle corti giudicanti americane quanto fosse ingiusta la pena di morte inflitta contro una persona già vittima di una immane tragedia. Colpisce in questo caso e in molti altri l’inesorabilità della pena che non accetta sfumature, analisi, ragionevoli dubbi, in un Paese che si atteggia a supremo modello di democrazia, condivisione di idee e confronto dialettico. Al contrario questa grave violazione dei diritti umani, persistente e duratura, lascia trasparire una contraddizione sistemica, una crisi valoriale che assume aspetti devianti nel contesto sociale odierno. Negli ultimi decenni sono state numerose le sospensioni dei diritti civili e umani dei cittadini, con la promulgazione di leggi liberticide e tentativi di reintegrare la tortura nel novero degli strumenti, a protezione dello stato in gravi casi di emergenzialità relativi ad atti terroristici. Fra paure liquide e l’ubiquità del male, le tesi giustizialiste insieme al populismo più regressivo e autoritario, i linciaggi mediatici, il logoramento del campo dei diritti civili e umani, hanno guadagnato spazi consistenti e pericolosi all’interno delle società occidentali.
In questo quadro infatti la pena di morte rappresenta anche una tortura perché molto spesso i condannati rimangono per alcuni anni “in attesa”, vivono in uno stato psicologico di perenne instabilità e incertezza, sopravvivendo al respiro della vendetta di una società che non vede l’ora di cancellarli. Dunque uno stato che si vanta di rappresentare un modello democratico che rifugge dalla tortura, che si ispira a valori umani e di rispetto dell’individuo, che vorrebbe caratterizzarsi per la capacità dialettica di risolvere le crisi sociali e internazionali senza l’uso incondizionato della violenza, che si esalta nella propensione a garantire una maggiore qualità alle richieste esistenziali, spirituali e materiali delle persone, non può definirsi tale perché non solo incorre in stridenti disarmonie concettuali ma si manifesta nella peggiore materializzazione di valori violenti basati sulla soddisfazione della vendetta. Una istituzione statuale con regole certe e leggi edificate dopo anni di lotte, conquiste e sacrifici immani, non può presentarsi ai propri cittadini come dispensatore di morte: l’arcaica legge del taglione è un pericoloso riferimento per le società esposte a crisi sociali, economiche e politiche. Infatti nella maggior parte dei casi la risposta al disagio si identifica nella ribellione scomposta e brutale, nel linciaggio, nella distruzione di quelli che vengono ritenuti “feticci democratici”, nell’annichilimento di gruppi etnici o religiosi diversi dalla maggioranza, nel razzismo più bieco verso donne e uomini che non avrebbero una condotta privata e sociale degna di una morale dettata dalla tradizione. Per questo la pena di morte è un esempio e un grave crimine con l’aggravante di essere giuridicamente previsto e messo in atto dallo Stato, pur rappresentando una permanente violazione dei diritti umani. La verità è che non può esistere un modello democratico se inficiato da questa grave condizione che cancellerebbe in un attimo la pretesa di basarsi su riferimenti giuridici consolidati nel tempo e valori etici che rappresentano l’essenza dell’umanesimo stesso.
La definizione concettuale, giuridica ed etica di una moderna ed effettiva democrazia passa inesorabilmente dal rispetto dei diritti umani e civili. L’impossibilità di negoziazione dei diritti umani e l’abolizione della pena di morte sono i tratti fondanti di una democrazia.
Una recrudescenza delle persecuzioni nei confronti di cittadini dissidenti, di solito indifesi nei confronti di apparati di controllo e di polizia ben organizzati ed efficienti, ha caratterizzato la storia di quest’ultimo ventennio in molti paesi del bacino mediterraneo e nel Vicino Oriente. Abbiamo assistito a una reazione durissima nei confronti delle richieste di libertà e miglioramento delle proprie condizioni esistenziali da parte delle popolazioni afflitte da gravi crisi economiche. La tendenza all’autoritarismo e a una gestione verticistica delle società di queste aree affonda le proprie radici in sedimentate ragioni storiche, complesse e labirintiche ma non per questo impossibili da rintracciare e spiegare alla luce degli orrendi crimini ai quali assistiamo con preoccupante periodicità, soprattutto nei confronti di studenti, donne ed esponenti della società civile. La realtà ci pone di fronte a situazioni che trovano ampia condivisione nella categoria del terrorismo di stato, attuato scientificamente da organi militari o gruppi paralleli ai servizi di sicurezza che incarcerano, torturano, uccidono in una spirale di odio senza eguali. In questi casi e in queste latitudini la pena di morte è strumento moderno di annichilimento, cancellazione della dissidenza, rappresentazione della forza e del potere, altare supremo della paura.
Un caso emblematico è quanto accade nella Repubblica Islamica dell’Iran, dove le percentuali di esecuzioni capitali toccano vette di inaudita ferocia. Per coloro i quali affermano con tecnicismi e vorticosi espedienti dialettici che in Iran vi sia una effettiva democrazia, è possibile porgere alcune constatazioni numeriche e riferimenti normativi. Non a caso è l’articolo 4 della Costituzione che definisce chiaramente a quale valore si debba ispirare tutta la legislazione scaturente dalla Carta costituzionale: la legge islamica (con tutte le implicazioni che si determinano nell’applicazione della sharia) è la fonte essenziale per tutti i rami della legislazione, tra cui quella civile e penale. La pena di morte applicata nella maggior parte dei casi con l’impiccagione a una gru è prevista per omicidio, rapina a mano armata, stupro, blasfemia, apostasia, rapimento, tradimento, spionaggio, terrorismo, reati economici, reati militari, cospirazione contro il Governo, adulterio, prostituzione, omosessualità, reati legati alla droga. A questa varietà sconcertante di previsioni bisogna aggiungere la condizione di chi incorre nel “moharebeh”, cioè nel caso in cui si è accusati di essere nemici di dio e pertanto giudicati con processi fulminei e abbastanza scontati nel loro epilogo, con pene accessorie quali la fustigazione o, in ipotesi quasi remote, l’amputazione degli arti. Nel caso iraniano bisogna segnalare anche una certa spettacolarizzazione della pena di morte essendo in alcuni casi consentita in pubblico: “l’autorizzazione di esecuzioni pubbliche è possibile solo in base a esigenze di carattere sociale”. Diverse proteste a livello internazionale sono state dirette al sistema giudiziario iraniano che applica la pena di morte anche nei confronti di minorenni e donne con una certa frequenza. Nel dicembre del 2016 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato una nuova risoluzione per le numerose violazioni dei diritti umani in Iran, esprimendo “seria preoccupazione per l’allarmante alta frequenza e aumento della pratica della pena di morte”, che viene utilizzata per crimini che non sono qualificati come reati “più gravi”, nei confronti di minorenni, “in violazione delle garanzie riconosciute a livello internazionale”. Inoltre ha esortato la Repubblica islamica a porre fine all’“uso diffuso e sistematico della detenzione arbitraria” e a rispettare “gli standard del giusto processo”. La risoluzione ha invitato l’Iran a porre fine alle “gravi restrizioni, legali e di fatto, al diritto alla libertà di espressione, di opinione, di associazione e di riunione pacifica” e la “persecuzione di oppositori politici, difensori dei diritti umani, donne, attivisti dei diritti delle minoranze, sindacalisti, attivisti per i diritti degli studenti, accademici, cineasti, giornalisti, blogger, utenti dei social media, operatori dei media, leader religiosi, artisti, avvocati e persone appartenenti alle minoranze religiose riconosciute e non riconosciute”. L’Iran nonostante gli inviti a una sospensione dell’applicazione della pena di morte ha votato, sempre nel 2016, contro la Risoluzione per una Moratoria delle esecuzioni capitali all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Non desta stupore in questo grigio quadro di morte, nelle diverse latitudini, quanto questo strumento di vendetta si sia rinnovato nel tempo anche nelle sue procedure e ritualità. Niente di più antico e moderno rimane lo strumento di morte, che sia una sedia elettrica o un’iniezione letale, o una gru sospesa con un corpo penzolante in bella mostra. Quello più conosciuto nella sua funzione di spettacolarizzazione fu la ghigliottina. Nel 1847 il boia Henry-Clément Sanson, ultimo esponente della famiglia che aveva ricoperto questo incarico dal 1688, subentrando al padre soprannominato il “boia di Parigi”, dichiarò al magistrato che gli intimava di eseguire una condanna a morte che, la sua ghigliottina, era stata pignorata da un creditore. Il giudice sorpreso non si scoraggiò: riscattò dal creditore l’arnese non potendo certo sospendere la pena, ma poté rimuovere dall’incarico il boia inadempiente. Il tentativo di ridimensionare il ruolo del carnefice incappucciato fu tutto sommato ottenuto ancor prima della cronaca di questo aneddoto. Come quello che risale al caso avvenuto nel 2011 quando, la società giapponese produttrice di gru, la “Tadano”, accolse l’appello in seguito alla “Campagna sulle Gru” di non stipulare contratti con il governo iraniano, simbolo della democrazia teocratica sciita, dopo aver assistito alle esecuzioni in pubblico con i propri mezzi meccanici. Non più dunque gru giapponesi ma moderne macchine costruite in patria.