Alla vigilia della ripartenza dopo la pandemia che ha sconvolto la vita in tutto il mondo, Venezia si è risvegliata di soprassalto con l’incubo peggiore che ha bussato forte alla porta: la bomba ad orologeria che è il polo chimico-industriale di Porto Marghera.
L’esplosione e il conseguente incendio del 16 maggio nella 3 V Sigma, fabbrica che produce acetone in zona Porto Marghera, ha causato il grave ferimento di 4 operai e moltissima apprensione tra la popolazione per la paura delle possibili sostanze tossiche rilasciate nell’aria. Inutile nasconderci, chi è abbastanza grande, se la ricorda bene quella sera del 28 novembre 2002 quando un’altra fabbrica di morte, la Dow Chemical, ci fece vivere ore di terrore per l’incendio nella linea di produzione del TDI, posizionata a soli 40 metri dal deposito di fosgene, sostanza gassosa letale se inalata anche in piccolissime quantità.
Da quel giorno sentire risuonare quelle maledette sirene è sempre un’esperienza angosciante: sei lì per strada che cammini verso casa o verso il supermercato; sei lì in ufficio o in fabbrica a lavorare; o ancora, lì in cucina intento a preparare il pranzo o in salotto a leggere un libro quando lentamente e distrattamente senti quel suono che irrompe nella tua quotidianità, nel silenzio o nel rumore che ti circonda. E lo fa pian piano: strisciando subdolamente si insinua nella tua mente, quasi senza che se ne renda conto che quei secondi preziosi tra l’inizio della sirena stessa e il momento in cui il nostro cervello realizza che è “lei” potrebbero essere determinanti per la vita o per la morte.
Il suono irrompe sempre più forte, entra dalle finestre aperte, socchiuse o chiuse, ti avverte che “il cielo potrebbe caderti sulla testa” da un momento all’altro. Pur non sapendo ancora cosa diavolo stia succedendo, e soprattutto dove, come un bimbo alle prese coi primi calcoli matematici fai 2 + 2, e ti accorgi che la somma fa inesorabilmente 4, cazzo! È quella minaccia astratta che si fa reale, quell’incubo ricorrente che ritorna, che non ci lascia in pace, nemmeno ora con il polo chimico ridotto rispetto ai suoi anni dorati ma ancora lì, a ricordarci che la tua salute, la tua vita, dipende anche da loro. Se sei fuori ti affretti verso casa, se sei in casa chiudi tutto, sperando che gli infissi del tuo modesto appartamento facciano il loro dovere e non lascino entrare niente di quel veleno liberato nell’aria.
È passato più o meno un minuto, forse due o tre a seconda del grado di reazione, dal momento in cui hai percepito quel suono ripetitivo. Sei ancora lì, frastornato ma vivo. Questo significa che non sei saltato in aria subito, ma non che sia finita, che tu sia salvo. Ora arriva l’altrettanto angosciante tempo dell’attesa. Allora alzi gli occhi al cielo o guardi fuori dalla finestra. Se hai fortuna la vedi la densa colonna di fumo che si eleva in cielo, minacciosa e angosciante. La osservi quella colonna nera come la pece che si staglia arrogante nel cielo azzurro ricoprendo i cumulonembi. La guardi iniziare il suo viaggio in cielo sperando che il vento non la porti proprio sopra la tua testa. Ma poi, preoccupato allo stesso modo, la vedi dirigersi verso casa di tuo fratello o di qualche tuo amico e allora continui a cercare notizie che non arrivano.
Passano cinque, dieci, venti minuti interminabili prima che dagli enti preposti arrivi la prima comunicazione ufficiale: “chiudetevi in casa”. Che, alla vigilia della fine del lockdown, sembra quasi una beffa, una sottile presa in giro del destino. No, non è così, non è una beffa, tantomeno è il destino cattivo. Perché niente succede per caso in questo mondo. Quasi sempre è l’azione dell’uomo a produrre tragedie, catastrofi, drammi; le calamità sono umane, non naturali. E anche questo caso non fa eccezione: erano anni che gli operai della fabbrica andata a fuoco protestavano per l’inefficienza dei sistemi di sicurezza.
Ma il punto poi non è nemmeno questo, dare la responsabilità alla mancanza di sicurezza all’interno della fabbrica significa guardare solo la punta dell’iceberg. E questo incendio, infatti, sembra darci ancora una volta un avvertimento. Un altro piccolo segnale della “Pachamama” che a cambiare non devono essere i diritti, soppressi, dei cittadini con la scusa della ripartenza economica. Non è mettendo una mascherina o stando lontani un metro dagli altri esseri umani che difenderemo la nostra salute. Se vogliamo davvero prenderci cura di noi stessi, della nostra comunità, dei nostri territori, a cambiare deve essere il nostro rapporto con la Terra, con gli esseri viventi che l’abitano e con l’ambiente che ci circonda.
Perché quello che stiamo vivendo è “Terricidio”, come lo chiamano le donne indigene della Patagonia ed è il risultato del capitalismo estrattivo, che fa razzie, assassina, depreda e spoglia territori, succhia linfa vitale alla Terra come un vampiro. E produce macerie, morte, distruzione, disastri. “Terricidio” perché non strozza solo il tangibile ma anche l’intangibile: i rapporti umani, come ci sta succedendo ora con il “distanziamento sociale”, con l’odio e l’intolleranza seminati nei social i cui frutti vengono poi raccolti nelle strade; ma anche i rapporti con la natura, evidenziati dal nostro disinteresse e menefreghismo verso la Pachamama e il grido di dolore e d’aiuto che ci sta lanciando o verso gli inesorabili cambiamenti climatici che facciamo finta di non vedere e di cui non ci rendiamo conto.
No, non sta andando tutto bene solo perché siamo alla fine di questa pandemia e nemmeno perché sono rimasti feriti “solo” 4 operai nell’incendio a Marghera. No, non andrà tutto bene e non ne usciremo migliori finché, per esempio, non faremo tutti insieme come gli attivisti della città che il giorno seguente all’ennesimo disastro annunciato sono scesi in strada a protestare contro il progetto di un nuovo inceneritore, simbolo di un allarmante continuità con quel passato che ci ha condotti fin qui.
Sono passate due ore, forse tre. Il fuoco è stato spento e il fumo si è diradato. Suonano ancora le sirene, questa volta ci annunciano la fine della fase acuta dell’emergenza. Il sindaco fa battute sull’ennesima tragedia sfiorata e dice ai suoi concittadini di aprire pure le finestre ma, per precauzione, di non raccogliere gli ortaggi fino a nuovo ordine. Si fa bello, si pavoneggia con la sua giacca della Protezione Civile che dovrebbe farci pensare al suo impegno per la salute. Ma quando un ambientalista gli si avvicina e gli chiede conto non solo dell’incendio, ma anche dell’inceneritore di prossima costruzione, del MOSE, delle grandi navi, del disinteresse per la salute dei cittadini e di pensare solo ai suoi profitti, si fa scuro in volto, perde il dono della parola e alla fine, allontanandosi a testa bassa evita il confronto.
Perché, se è vero che è giusto indignarsi per quella punta dell’iceberg, è altrettanto vero che solo colpendo le sue “radici” avremo la possibilità si fermare la sua inesorabile corsa verso la deriva e finalmente al posto delle terrificanti sirene sentire il liberatorio “bergie seltzer”, il suono spumeggiante che ci avverte dello scioglimento dell’iceberg.
Solo così andrà tutto bene e, forse, ne usciremo migliori.