
Nel cuore di una Turchia in crisi economica, politica e sociale, il messaggio proveniente dalla prigione di İmralı ha acceso una luce di speranza e, al contempo, di scetticismo per un conflitto che dura da oltre quattro decenni. Abdullah Öcalan, leader fondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e simbolo della lotta curda, ha lanciato quello che alcuni definiscono un “appello storico” per il disarmo e lo scioglimento del partito. Un’iniziativa che potrebbe segnare una svolta nei rapporti tra Ankara e il popolo curdo, ma resta sospesa tra possibilità di pace e il timore di una trappola politica.
Anche il contesto internazionale è determinante. Recep Tayyip Erdoğan, consapevole che l’escalation dei conflitti da Gaza al Libano fino alla Siria – con il rovesciamento del regime di Assad – potrebbe destabilizzare i confini turchi, ha iniziato a ventilare l’ipotesi di un nuovo processo di pace. Continuare la guerra contro il movimento curdo comporterebbe perdite significative e un calo del consenso politico, un rischio che la Turchia sembra voler mitigare considerando un cambio di strategia.
Öcalan, nel suo discorso letto dai membri della delegazione del partito DEM che negli ultimi mesi lo ha incontrato tre volte, ha dichiarato: “Il secondo secolo della Repubblica può garantire una continuità fraterna solo se sarà coronato dalla democrazia”. Parole che sfidano la Turchia a una trasformazione radicale e mettono in discussione il futuro dello Stato, se non verranno compiuti passi concreti verso la democratizzazione.
Il conflitto turco-curdo affonda le sue radici nei primi anni della Repubblica, quando il processo di modernizzazione avviato sulle macerie dell’Impero Ottomano si tradusse in un tentativo sistematico di cancellare lingua, cultura e identità curda. Ogni forma di resistenza fu brutalmente repressa. Nel 1978, in un clima di forte polarizzazione, Öcalan fondò il PKK con l’obiettivo di creare uno Stato curdo indipendente. Col tempo, non senza tensioni interne, il movimento ha abbandonato questa aspirazione, orientandosi verso un modello di autogoverno democratico volto a garantire diritti politici e tutele culturali ai curdi.
Dal 1984, il conflitto armato ha provocato decine di migliaia di morti e miliardi di dollari di danni, destabilizzando intere regioni e inasprendo i rapporti internazionali. I tentativi di pace e i cessate il fuoco unilaterali del PKK non hanno mai prodotto soluzioni durature. La dichiarazione di Öcalan, diffusa il 27 febbraio, non è soltanto un appello alla pace, ma un messaggio chiaro alla Turchia e alla comunità internazionale. “Ciò che Öcalan chiede non è una resa,” ha chiarito Havin Güneşer, esponente dell’Iniziativa internazionale “Libertà per Abdullah Öcalan – Pace in Kurdistan”, in un’intervista a Radio Onda d’Urto, sottolineando la necessità di affrontare le radici del conflitto.
Il leader curdo ha evidenziato come “la nostra storia è fatta di alleanze secolari e cooperazione contro le forze che hanno sempre cercato di dividerci”, richiamando il lungo e tormentato rapporto tra turchi e curdi. Ma senza garanzie concrete, lo scioglimento del PKK rischia di restare un’illusione o persino una sconfitta politica per Erdoğan. Öcalan ha chiesto una commissione per la verità e la riconciliazione, una legge di amnistia e una riforma politica. Senza il coinvolgimento del parlamento turco, il processo di pace resterà incompleto.
Il Comitato Esecutivo del PKK ha risposto dichiarando un cessate il fuoco immediato e annunciando un congresso per discutere il futuro del movimento. Ma ha posto una condizione chiara: Öcalan deve poter partecipare liberamente ai negoziati. Nel comunicato, definito “il manifesto dell’epoca”, il PKK dichiara: “Con questo appello ha inizio un nuovo processo storico in Kurdistan e in Medio Oriente, destinato a influenzare la libertà e la democrazia su scala globale. Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità.”
Con questo si sancisce che i combattenti in Turchia non ricorreranno alle armi, se non per autodifesa. “L’appello del leader Apo non è la fine, ma un nuovo inizio. Dobbiamo comprenderlo a fondo, assumerci le responsabilità e attuarlo con determinazione.”
Secondo Güneşer, a Öcalan potrebbe essere concessa la detenzione domiciliare. Tuttavia, il rischio di uno stallo politico resta concreto, con conseguenze imprevedibili nella crescente instabilità della regione.
Ora, la palla è nel campo di Ankara. Il futuro del processo di pace dipende non solo dal governo, ma anche dall’opposizione, dalla società curda e turca, dalla comunità internazionale e dalle organizzazioni per i diritti umani. Evitare che questa opportunità svanisca richiederà garanzie reali per il popolo curdo.
L’appello di Öcalan al disarmo è stato accolto con speranza, ma anche con preoccupazione da chi teme che possa rimuovere l’ultimo ostacolo alla repressione turca. Mazloum Abdi, comandante delle Forze Democratiche Siriane e figura cresciuta sotto l’influenza del leader curdo, ha lasciato intendere come le parole di Öcalan possano privare lo Stato turco della sua principale giustificazione per attaccare i curdi. Per anni, Ankara ha equiparato il PKK alle SDF per legittimare le operazioni militari in Siria e in Turchia, ma la resistenza curda nel nord della Siria è ben più di una derivazione del PKK, è un esperimento di democrazia in una regione lacerata da oppressione e settarismo.
Nel cuore del conflitto, la guerra è un’imposizione, non una scelta. Da decenni, il popolo curdo affronta repressione, esilio e violenza, pagando con il sangue la propria determinazione a resistere. Ogni negoziato è passato attraverso tradimenti e illusioni, mentre la storia si ripete con inesorabile ciclicità.
L’annuncio di Öcalan pone la Turchia davanti a un bivio. I negoziati in corso devono tradursi in azioni concrete per spezzare il ciclo dell’oppressione. La storia insegna che Ankara ha spesso usato il dialogo come arma strategica, pronta a disattendere ogni impegno una volta ristabilita la propria supremazia. Ma la resistenza curda non è solo una questione militare: è identità, cultura e volontà politica, una forza che ha attraversato generazioni e continua a sfidare ogni tentativo di annientamento.
Nel frattempo, la guerra in Kurdistan è divenuta spettacolo. L’Occidente l’ha trasformata in un mito funzionale ai propri interessi, ma dietro la narrazione epica restano vite sospese, famiglie spezzate e un conflitto che continua lontano dai riflettori. Per alcuni è una favola esotica, per chi la vive una scelta obbligata. Eppure, la guerra non è mai il fine, ma il prezzo imposto a chi vuole un futuro libero.
Costruire la pace è un atto rivoluzionario. Non significa arrendersi, ma conquistare giustizia. Tuttavia, senza garanzie reali, senza la fine delle persecuzioni e della repressione culturale, ogni trattativa rischia di trasformarsi in un’illusione. Chi ha combattuto così a lungo non accetterà una pace che somigli a una resa.
La domanda, dunque, resta aperta: il disarmo del PKK sarà il primo passo verso una pace reale o l’ennesimo pretesto per una nuova ondata di repressione? La storia insegna che la Turchia ha spesso usato il dialogo come strumento di dominio, pronta a voltare le spalle una volta raggiunti i propri obiettivi. Ma la lotta curda non è un’ombra legata a un leader né una questione di firme su un accordo. È una resistenza che affonda le radici nella storia e nella volontà di un popolo, destinata a proseguire fino a quando il sogno di un Kurdistan libero non sarà che un’utopia concreta.