Odissea, dal poema di Omero (I)

di Franco Pezzini

[Continuano a Torino per il decimo anno i corsi popolari, gratuiti e libertari della Libera Università dell’Immaginario, con la prima stagione di Odissea – Dal poema di Omero, una rilettura dell’opera a cura di chi scrive e dell’iconografa Chiara Meistro. Si propongono qui, in due puntate, alcuni spunti della prima serata. Per le citazioni, si segue l’edizione Einaudi con traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, 1963.]

Odisseo e gli iperoggetti

Primo libro (o canto, la divisione del poema in ventiquattro puntate  è tardiva, di età alessandrina) del poema più bello del mondo: fa un certo effetto confrontarvisi, anche se in fondo il suo senso primo è proprio di avventura collettiva, qualcosa da condividere. Visto che il nome Omero – non sappiamo neanche se abbia etimologia greca – potrebbe collegarsi al verbo ὀμηρεῖν, “incontrarsi”, dalle occasioni di ritrovo in cui gruppi di Omerìdi condividevano i canti che poi entreranno nel poema. Uno sforzo di vedere assieme – perché ognuno, preso da solo, resta Ὅμηρος, il Cieco (ὁ μὴ ὁρῶν, Colui che non vede oppure ὅμηρος, l’Accompagnato, nel senso di ostaggio o appunto del cieco che ha bisogno di appoggio): e in quest’ammissione soltanto onesta c’è forse già in radice la possibilità di vedere assieme in un altro modo, con un altro tipo di sguardo.

Il libro, com’è noto, inizia:

L’uomo ricco d’astuzie raccontami, o Musa, che a lungo

errò dopo ch’ebbe distrutto la rocca sacra di Troia;

di molti uomini le città vide e conobbe la mente,

molti dolori patì in cuore sul mare,

lottando per la sua vita e pel ritorno dei suoi.

Ma non li salvò, benché tanto volesse,

per la loro propria follia si perdettero, pazzi!,

che mangiarono i bovi del Sole Iperíone,

e il Sole distrusse il giorno del loro ritorno.

Anche a noi di’ qualcosa di queste avventure, o dea, figlia di Zeus.

Allora tutti gli altri, quanti evitarono l’abisso di morte,

erano a casa, scampati dalla guerra e dal mare;

lui solo, che sospirava il ritorno e la sposa,

la veneranda ninfa Calipso, la splendida dea, tratteneva

negli antri profondi, volendo che le fosse marito.

Un inizio vertiginoso, come è logico nel momento in cui interpelliamo la Musa: un inizio ascoltato nei secoli da (letteralmente) milioni di persone, e che ha impattato sull’immaginario dell’occidente in modo irreversibile. Dove torniamo, anche stasera, a essere Omero – tutti lo siamo nel momento in cui ci troviamo a condividere questo canto a partire dall’inizio appena letto, un’epiclesi dove l’esortazione è quasi una preghiera: perché la Musa figlia di Zeus racconti “qualcosa di queste avventure” (sull’espressione torneremo, si può tradurla in modo più letterale) anche a noi.

Non solo perché una parte delle medesime avventure è già nel testo oggetto di narrazione, di affabulazione, alla corte dei Feaci, e poi a Penelope; ma anche perché il Cieco riceve questi canti da una lunghissima tradizione e li cuce, in modo meno arcaico che nell’Iliade ma senza che si perda una pluralità remota di echi. Certo, interviene sui testi e una parte sono suoi, ma li cuce in un modo che appartiene a un mondo antico e ben poco ha a che vedere con il nostro concetto di romanzo; “diseguaglianze stilistiche e contraddizioni di contenuto” (Fausto Codino) restano, e non per difetti redazionali ma per un modo diverso dal nostro di concepire il testo, dove è importante – e non solo metricamente comodo – conservare un patrimonio di schemi e formule tanto quanto di contenuti.

E certo, ancora, si ravvisa la genialità di una redazione insolitamente ampia, laddove i testi tradizionali restavano piuttosto contenuti, ma non esisteva l’idea che ogni singolo verso fosse frutto del pensiero dell’autore – e nemmeno l’idea di una coerenza assoluta per testi nati in vista di ascoltatori di una voce recitante, a opera di un aedo come i vari descritti nell’opera, e comunque poi ricuciti in una redazione accidentata nel tempo. Dunque anche a noi: certo, perché prima d’essere fissata per scritto, questa storia era già approdata all’ascolto di infiniti lettori.

Fino al verso 21 si dipana la cosiddetta protasi: dopo l’epiclesi alla Musa – generica, la distinzione tra nove muse è relativamente tarda – viene sintetizzato il contenuto dei successivi libri. Dove la scelta di quanto riportato nella sintesi non è banale.

Anzitutto c’è lui, il protagonista assoluto a cui il poema è dedicato (un po’ un’eccezione, gli altri poemi del ciclo troiano sono dedicati piuttosto a fatti ed eventi), “L’uomo ricco d’astuzie […], che a lungo / errò dopo ch’ebbe distrutto la rocca sacra di Troia; / di molti uomini le città vide e conobbe la mente, / molti dolori patì in cuore sul mare”, dove Ἄνδρα – l’uomo – figura come prima parola, con tutta l’enfasi del caso, e la traduzione ricco d’astuzie rende il difficilmente traducibile πολύτροπον (non sappiamo che sfumatura vi desse il poeta, che forse si contenta di riproporre un epiteto tradizionale metricamente comodo), dalle molte direzioni e dunque in senso metaforico versatile, multiforme (lo vedremo prendere più identità, camuffarsi, trasformarsi…), dall’ingegno duttile o semplicemente capace di tutto; o in senso più materiale che ha molto viaggiato, sballottato dal destino…. Rosa Calzecchi Onesti sceglie di interpretarlo nel senso dell’astuzia, Vincenzo Di Benedetto nella bella recente edizione BUR lo rende come “molto versatile”. E tuttavia “il merito non viene premiato” (sempre Di Benedetto): quest’uomo speciale ha errato a lungo dopo aver “distrutto la rocca sacra di Troia”, un’impresa colossale dopo dieci anni di guerra, che viene ascritta al suo ingegno – e vedremo in che senso, con la storia del cavallo – e in questo errare ha potuto conoscere non solo genti (letteralmente città) diverse ma diversi modi di ragionare (politropo in questo senso?), e tuttavia sul mare ha patito molti dolori… e qui arriva una nuova chiave di rilievo, il fatto che lotti per la propria vita e il ritorno dei suoi.

Odisseo è un protagonista assoluto, ma non è un eroe individualistico: non conduce più un popolo – i suoi sono quanto resta di un esercito decimato da dieci anni di guerra, ma c’è un legame personale con loro, anzi (vedremo) un po’ con ciascuno. E tuttavia (il terzo tuttavia implicito nel giro di poche righe), nonostante lui sia il politropo per antonomasia e tenga tanto a salvarli, non ci riesce: si perdono per la propria follia, essendosi mangiati i buoi “del Sole Iperíone” (cioè il Sole Ὑπερίων, che si muove al di sopra, con il tempo e la codificazioni mitografiche diverrà un Titano associato alla luce, alla vigilanza e all’Est, sposo di Teia, padre di Elio/il Sole, Selene/la Luna ed Eos/l’Aurora), e il Sole a quel punto (potremmo dire) cancella dal calendario “il giorno del loro ritorno”.

Ma soprattutto questo riferimento nella sintesi dell’oggetto del poema, dopo il richiamo a Troia, “molti dolori patì in cuore sul mare, / lottando per la sua vita e pel ritorno dei suoi. / Ma non li salvò, benché tanto volesse, / per la loro propria follia si perdettero, pazzi!, / che mangiarono i bovi del Sole Iperíone, / e il Sole distrusse il giorno del loro ritorno” colloca in modo univoco il testo all’interno di un vero e proprio genere narrativo, quello dei Nostoi, i Ritorni, sull’epico ritorno di un eroe per mare, attraverso naufragi e prove di vario genere e con una conclusione che in qualche modo ne nobilita lo status: una variante del classico tema mitico del viaggio dell’eroe studiato da Otto Rank e soprattutto Joseph Campbell. Emblematica a tale proposito l’opera perduta titolata appunto Νόστοι, databile al VII o VI secolo a.C. e talora attribuita a Eumelo di Corinto, ad Agia di Trezene e da qualcuno persino a Omero (in realtà tutti dell’VIII secolo). Un’opera in cinque libri – ne restano pochi frammenti – in esametri dattilici, o esametri epici, come quelli dell’Odissea, sul ritorno a casa degli eroi greci dopo la fine della guerra di Troia, e che insieme fungeva da sequel all’Iliade e all’Iliou persis (il poema perduto sulla caduta di Ilio) e da prequel all’Odissea: l’importanza del tema del νόστος emerge anche dai ritrovamenti di cocci con iscritti esametri epici, di epoca successiva alla diffusione dell’Odissea.

L’espressione qui resa “Anche a noi di’ qualcosa di queste avventure, o dea, figlia di Zeus” è tuttavia più puntualmente traducibile “iniziando da qualche punto”: nel senso di una distinzione – diremmo – tra fabula e intreccio di cui l’espressione costituirebbe la prima attestazione, perché non si parte da Troia in cenere ma da Ogigia, e non c’è un vincolo di tipo cronologico. Sarà la Musa a scegliere il punto di partenza.

Denunciare quei cenni nella protasi denuncia una chiave generale in cui leggere l’intera opera: e i versi seguenti conducono abilmente a bomba. Gli altri re scampati alla morte hanno ormai raggiunto le rispettive case, “lui solo, che sospirava il ritorno e la sposa, / la veneranda ninfa Calipso, la splendida dea, tratteneva / negli antri profondi, volendo che le fosse marito”. Notiamo che il nome del protagonista non è ancora apparso, pur venendo a sapere altre cose di lui: che desidera tornare a casa dalla moglie, anche se la splendida dea Calipso lo trattiene per il desiderio di farne il proprio partner. Calipso, dal greco καλύπτω, «nascondere» o «coprire», è appropriatamente una divinità dallo statuto un po’ incerto (i mitologi discutono se sia ninfa, nereide, per Esiodo oceanina…), da Omero definita senza dubbi – forse una sua trovata – figlia di Atlante, ma delinea in fondo fin dall’inizio la situazione di questo disperso. All’inizio lo rintracciamo nell’ambito della Nascosta, di colei che cela verso Occidente, dove il sola cala ed è la terra dei morti, luogo di nascondimento per antonomasia: ed è inevitabile pensare per il prosieguo a Enea che raggiunge il Lazio, ciò la Terra-Nascondiglio di Crono/Saturno. Il viaggio dispersi per mare è almeno per ipotesi un viaggio dove sprofonda l’Iperione, il sole che si muove di sopra: dire che la Nascosta vorrebbe trattenerlo è anche dire che la sua vita di marito, padre e re di Itaca sarebbe archiviata nell’amnesia, un po’ come la vita di certi dispersi in Russia che laggiù si sono accasati, rimuovendo tutto il resto. Odisseo, l’uomo dalle tante direzioni, è anche l’uomo dalle tante possibilità: quella di ripartire altrove, lasciando un mondo miceneo che sta per esplodere nel collasso di fine età del bronzo, è una possibilità concreta. Non è un caso se la tentazione rappresentata da Calipso sia messa all’inizio del poema: altre donne reclameranno Odisseo a un proprio talamo, ma la tentazione fondamentale per il reduce di guerra è quella, il Nascondimento e una ripartenza da capo nel Far West. E invece.

Ma quando finalmente, nel volgere del tempo, venne l’anno “in cui gli filarono i numi che in patria tornasse” – notiamo questo riferimento che fa pensare alla filatura delle Moire e poi della stessa Penelope – ma le prove non gli mancheranno neppure tra i suoi, a Itaca, ecco che tutti gli dei hanno pietà del suo struggersi in esilio. Tutti, meno Poseidone, ancora arrabbiatissimo contro “il divino Odisseo” – finalmente il nome dell’eroe – e prima che torni in patria vuole fargliela trovare lunga.

Ma proprio questo tema del volgere del tempo dovrebbe farci riflettere sul fatto che il ritorno da Troia nel decimo anno dalla caduta della città non costituiva una necessità di canone per l’autore dell’Odissea. E neanche che dovesse fermarsi da Calipso sette anni. Ma esistono delle necessità simboliche, anche a prescindere dall’opportunità di offrire all’itinerario del poema una durata speculare a quella della guerra. L’uscita dall’età minorile nel mondo omerico è a vent’anni: Telemaco è appena nato alla partenza di suo padre, ed è opportuno che il giovane esca dall’età minorile in tempo per combattere i pretendenti al fianco del padre.

Chiariamo subito che l’etimologia del nome Ὀδυσ(σ)εύς – con varianti nelle iscrizioni fittili  Ὀλισεύς, Ὀλυσεύς, Ὀλυσσεύς, Ὀλυτεύς, Ὀλυττεύς, Ὠλυσσεύς – è ignota, forse non greca ma pregreca, e forse neppure indoeuropea: il collegamento suggerito nel libro XIX con il verbo greco ὀδύσσομαι, il cui significato è “essere odiato” (per cui le traduzioni l’Odiatore o l’Odiato risultano congrue a varie situazioni della sua biografia, e Omero vi gioca in più punti, spiegandolo come una trovata del nonno, l’arciladro Autolico) rappresenta un etimo popolare. Si sono citati altri possibili significati, per esempio da ὀδύρομαι, “lamentarsi”, in riferimento alle sofferenze di lui; o da ὄλλυμι, “perire, perdersi”, cioè il Disperso; altri lo intendono come il Collerico o invece il Piccolo – a fronte della statura non troppo alta e del nesso con il Piccolo Furbo delle storie folkloriche egee. D’altronde assonanze interessanti emergono con altre parole: ὀδός che significa “viaggio” e ουδείς, “nessuno” (pensiamo a Odisseo nella grotta del ciclope che sostiene di chiamarsi Nessuno – anche se Omero lì utilizza la parola ούτις, variante arcaica del pronome ουδεις). Ma, come detto, al netto di utili echi nella lingua greca, l’origine probabilmente non lo è.

In Etruria, dove le sue storie trovano diffusione, il suo nome è adattato come Uthuze (Uθuze), forse derivato da una forma minoica *Oduze, come sostenibile in chiave fonologica. Ma si trova anche  una forma Οὐλιξεύς, da cui Ulixe in etrusco e Oulixes in siculo (Οὐλίξης in Magna Grecia), il latino Ulixēs (o il meno corretto Ulyssēs) e il nostrano Ulisse, attestato nella tradizione dell’opera da parte di Livio Andronico, che richiamerebbe anche il senso di Irritato, anche se in ambito latino non mancava un altro significato, Zoppo, in riferimento ad una ferita alla gamba riportata da Odisseo. Non manca chi abbia ipotizzato a monte delle due diverse tradizioni Odisseo e Ulisse due diverse figure poi ibridate, ma il cambio tra –d- e –l- è piuttosto comune in nomi indoeuropei e anche greci, tanto più considerando il transito dall’etrusco. Si è insomma suggerito che il nome in origine sia cretese, in modo molto appropriato a un abile navigante erede della marineria di Minosse (cfr. lo splendido volume di Paul Faure, Ulisse il Cretese (XIII secolo a.C.), Salerno, 1988).

In ogni caso, ora Poseidone parte diretto tra i lontani Etiopi, “gli estremi degli uomini”, che ben poco hanno in comune con gli abitanti dell’odierna Etiopia e si distinguono invece in due stirpi, “quelli del sole che cade e quelli del sole che nasce” – all’estremo occidente e all’estremo oriente, per la circolarità del mondo abitato, con l’Oceano tutto attorno. Il nome significa facciabruciata, dal sole che piomba tra loro calando o innalzandosi (αἴθω, “brucio” + ὤψ, ṓps, “volto”, generico per popolazioni di pelle scura, termine citato due volte nell’Iliade e tre volte nell’Odissea); in tempi recenti c’è chi – Jean Haudry – abbia preferito facciasplendente, in riferimento ad antichi miti indoeuropei, ma non è questo il senso almeno più diffuso. Quando il narratore ha bisogno di non far sapere qualcosa a una divinità, la spedisce a pasteggiare tra gli Etiopi: come qui Poseidone, che recatovisi per presiedere a un’ecatombe di tori e agnelli, e gode “seduto a banchetto”. Un’occasione per gli altri dei per riunirsi a ummo a ummo nella sala di Zeus Olimpio con i nostoi come ordine del giorno, senza le obiezioni di Poseidone riguardo a Odisseo.

E qui Omero fa un breve riassunto delle puntate precedenti, inserendo tasselli che sono un sequel rispetto alla narrazione iliadica; e a introdurre il tema è “il padre dei numi e degli uomini”, meditando sul caso di Egisto ammazzato – in realtà un paio d’anni prima, fattaccio di cronaca nera – da Oreste figlio di Agamennone. Uscendosene in un discorso che è più una riflessione ad alta voce che non una mozione d’ordine: di quante colpe i mortali accusano gli dei, sostenendo che da loro vengano i mali – quelli che invece sono frutto dei loro “folli delitti”… Contro ogni regola Egisto si era preso la moglie di Agamennone e anzi aveva provveduto ad ammazzarlo quand’era tornato da Troia, “sapendo l’abisso di morte” (cioè che in pratica si andava a cercar guai). Con tutto che gli dei l’avevano avvisato, spedendo Ermes con un ammonimento di buon senso più che di coscienza, ché non ammazzasse il gran re di Micene e non ne concupisse la donna: perché Oreste – “a Egi’, lo sai come funziona…” – una volta cresciuto e sentendo “la nostalgia della patria” (era stato allontanato bambino e mandato da qualche parte, i miti divergono sul luogo dell’esilio) avrebbe vendicato il papà. Ma le parole di Ermes non avevano persuaso Egisto, e “ora tutto ha pagato!”.

Al che Atena occhioglauco risponde al padre: Egisto la morte se l’è meritata fin troppo, “così muoia anche un altro che facesse lo stesso!”. Ma piuttosto – parliamone – il cuore di lei si spezza per Odisseo “cuore ardente”, poverino, che sopporta “lunghi dolori […] lontano dai suoi” in un’isola in mezzo alle onde, “dov’è l’ombelico del mare”. Nel senso, secondo qualcuno, di centro sacro, per altri di un immenso gorgo oceanico, in ogni caso con il senso generale di un accerchiamento che lo blocca; ma che potrebbe in realtà riguardare piuttosto un altro vortice “quello cosmico, la Precessione degli Equinozi, che allora conoscevano già, quella che in ventiseimila anni porta l’Ordine del Tempo” (Santillana, Fato antico e fato moderno). E la parentela di Calipso con Atlante spinge almeno a qualche riflessione.

In effetti in quest’isola boscosa, dimora la dea “figlia del terribile Atlante, il quale del mare / tutto conosce gli abissi, regge le grandi colonne, / che terra e cielo sostengono da una parte e dall’altra” – un ruolo cosmico persino più eminente di quello spesso attribuitogli, evocato con suggestioni alla Philippe Druillet (vogliamo immaginarci queste colonne da avventura dell’odissaico Lone Sloane?). Terribile o funesto, riferito al Titano, suggerisce l’idea di una punizione da parte di Zeus. “La figlia sua trattiene quel misero, afflitto, / e sempre con tenere, malïose parole / lo incanta, perché scordi Itaca”: mentre lui si contenterebbe di vedere anche solo il fumo dai focolari della sua terra, e poi morire. Insomma, c’è una dea potente, figlia di un titano – cioè uno degli dei più arcaici, e anzi un’entità cosmica di alta dignità che presiede all’assetto cosmogonico – che Odisseo se lo sta coccolando e ce la mette tutta per sedurlo, mentre lui si strugge (per i maliziosi, sembra di intendere che non abbiano consumato). La figlia di Zeus protesta dunque col padre, ancora il cuore di lui non si commuove: non gli era gradito l’eroe, quando a Troia gli faceva offerte presso le navi? Perché ce l’ha tanto con lui?

E Zeus adunatore di nuvole le risponde: ma no, cosa va a dire, come potrebbe lui dimenticarsi del divino Odisseo, “che fra i mortali eccelle per mente e offriva eccellenti / sacrifici ai numi immortali”? il problema è che l’inflessibile Scuotiterra Poseidone ce l’ha con l’eroe per la faccenda dell’accecamento del figlio Polifemo pari agli dei (ντίθεον) – il più forte dei Ciclopi, che Poseidone ha concepito nei “cupi anfratti” del mare assieme a Tòosa, ninfa figlia di Forchis (Forco, Forci o Forcide) “signore del mare instancabile”, un’arcaica divinità marina a cui i mitologi attribuiscono un’intera stirpe di mostri marini e non. Per questo Poseidone, anche senza uccidere Odisseo, lo fa errare lontano dalla sua terra. “Ora però studiamo noi tutti quanti / il ritorno, come sarà. Smetterà Poseidone / la collera sua, non potrà contro tutti / gli dèi immortali voler lottare da solo!”. Notiamo che Zeus non considera neppure l’ipotesi di opporsi da solo al fratello, in origine una divinità d’importanza pari e forse superiore alla sua e con un ruolo fondamentale nel mondo miceneo. Non si parlava ancora di dio del mare, ma Po-se-da-o o Po-se-da-wo-ne, spesso definito wa-na-ka (re, soprattutto nelle implicazioni ctonie), era anzitutto il dio dei terremoti (E-ne-si-da-o-ne, su cui Omero insiste con l’attributo Scuotiterra, Ἐνοσίγαιος o Ἐνοσίχθων) e del cavallo degli invasori – indoeuropei? – e delle classi dirigenti: suggestivo pensare che proprio gli sconquassi di tsunami e calamità dal mare nel collasso dell’età del bronzo possano aver contribuito a saldare i suoi patronati col dominio sulle grandi acque.

Al che Atena risponde pragmatica che se gli dei tengono davvero che Odisseo torni a casa – nessuno obietta –, allora mandino Ermes (non era stato forse scomodato, sembra sottintendere, per quel tanghero di Egisto?), il messaggero argifonte all’isola Ogigia, a ordinare alla “dea trecce belle” – a quella squinzia, pare dire la dea combattente – che lo lasci libero di tornare a casa. Scopriamo così dove vive Calipso, sulla misteriosa Ogigia, un’isola remotissima dell’estremo occidente variamente collocata dagli interpreti tardi. C’è solo l’imbarazzo della scelta: appena fuori dallo stretto di Gibilterra o invece di fronte, sulla penisola nordafricana di Ceuta, secondo interpretazioni che oggi però convincono meno; più plausibilmente non così lontano, dunque forse isola di Gozo nell’arcipelago maltese, dove una grotta detta “di Calipso” sovrasta la spiaggia rossa della Baia di Ramla, o la stessa Malta; Lampedusa o Pantelleria o in alcuni punti del litorale calabro sullo Ionio, in corrispondenza magari della Secca di Amendolara o presso Punta Alice a Cirò Marina; Gavdos/Gozzo, la più meridionale delle isole greche; l’isola dalmata di Meleda in Croazia… Tutte suggestioni intriganti, ma in realtà la geografia dell’Odissea guarda a una cartina che si sovrappone solo parzialmente a quella del Mediterraneo, coincidendo in alcuni punti e deformandola invece fantasiosamente in altri, come per un’increspatura della mappa: e in questo caso abbiamo un luogo fiabesco che abbina le idee di distanza nello spazio e nel tempo, nonché di grandi acque (oceaniche o diluviali). Ὠγυγίη fa pensare a Ogigo (Ὤγυγος) o Ogige (Ὠγύγης), re primordiale della Beozia prima della fondazione di Tebe – da cui l’aggettivo “ogigio” avrebbe assunto il significato di “antico” (Suda Ὠ 12; 13 Adler) – forse della stirpe dei titani e associato con il primo diluvio della storia del mondo; ma insieme fa pensare al dio cario Ogoa, poi Zeus Ogoa (cfr. il licio Ogige e il lidio Gige), pure connesso con il nome di Oceano, il dio-fiume che borda la tinozza del mondo conosciuto e insieme il pensabile, un po’ come i limiti dell’universo lo fanno oggi per l’uomo della strada. Poi certo, per le identificazioni geografiche (o astronomiche, c’è anche quell’altro filone) del poema vale quanto diceva Eratostene, secondo Strabone: “si scoprirà dove ha vagato Odisseo quando si scoprirà il cuoiaio che ha cucito l’otre dei venti”.

Eppure la vertigine implicita in questo inizio a Ogigia può suggerire altro. In un libro uscito nel 2013 e pubblicato in Italia dalla romana Nero, 2018, Iperoggetti, Timothy Morton identifica e si sofferma su questa fattispecie, “entità diffusamente distribuite nello spazio e nel tempo”, fenomeni il cui sviluppo ipercomplesso, su più piani e su scale di spazio/tempo troppo grandi perché la mente umana li afferri in modo coerente e dall’interno se ne possa avere una percezione analitica. La crisi climatica è oggi per Morton l’iperoggetto per eccellenza. Quando Amitav Ghosh pone l’accento sull’incapacità della nostra cultura a confrontarvisi (La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, ed. orig. 2016, Neri Pozza, Vicenza 2017) parla di un dato reale: tuttavia è interessante soffermarsi sulla risposta offerta da Omero. Il collasso dell’età del bronzo, la peggior crisi del mondo antico (climatica, sismica, militare, eccetera, con rotte di popoli braccati da fame e nemici) – uno dei cui tasselli sarebbe stato il Vietnam sotto Troia, guerra definitiva perché recettiva di tutte le crisi di un’epoca e insieme narrazione della penultimità come categoria esistenziale – ha fatto saltare civiltà e categorie culturali un po’ in tutta l’Eurasia: il tempo ciclico agganciato a regni multisecolari, teologie, prassi di vita, percezione della storia, conoscenze e scrittura, va in quel contesto in fumo. I capitani micenei arrivavano fino all’Italia e forse oltre, c’era una stagione della navigazione, esistevano forse portolani: tutto è esploso. E a questo punto l’andare per mare, che già significava confrontarsi coi mostri, sprofonda nello smarrimento, nell’assurdo, nella nostalgia e nel bisogno di ancorarsi a ciò che resta – gli affetti della nostra storia personale. Ogigia è il luogo dell’iperoggetto della crisi di un’epoca, dove lo spazio/tempo della navigazione nota è definitivamente perduto e la crisi di Odisseo già prefigura in qualche modo la nostra – la necessità stessa di salvarci attraverso le parole. Il fatto che tali storie, le storie dei sopravvissuti a quella crisi, siano state narrate offrendo coordinate alla base di tutta la nostra cultura (i poemi delle guerre sotto Tebe e Troia da una parte, i canti di gesta alla base del Pentateuco dall’altra) suggerisce che possiamo uscirne, che un piccolo resto ne uscirà. Salvando con Odisseo la memoria e gli affetti.

(continua)

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