Orbital Blues

di Carmelo Barbaro

Non è che ci sia molto spazio all’interno né tantomeno grandi comodità. Il contrario in effetti…

Bisogna fare pace con se stessi per essere produttivi, rispettare le scadenze, adattarsi all’assenza di forza-peso, allenarsi come si deve, dormire imbracati, andare di corpo con le chiappe sigillate alla tazza. Dicono però che il panorama, la vista, valga qualunque sacrificio.

E che abbia a che fare con il Sogno di tutti i bambini.

La purezza del significato in quanto tale: svincolarsi da una condizione assiomatica e universale che imbriglia e soggioga ognuno di noi fin dal primo malfermo passo.

Il Sogno può cambiare nel corso degli anni, modificarsi, crescere e addirittura sparire.

Nella gran parte dei casi, il Sogno conduce, nella sua forma matura, a una cabina di pilotaggio più o meno militare, ai deltaplani, al paracadutismo, allo skydiving e via elencando.

In alcuni esseri speciali, invece, il Sogno permane e resiste, limpido e semplice, come una notte d’estate sulla spiaggia senza Luna. In queste anime, il Sogno ha radici profonde e solide, simili a leghe di tungsteno e non riesce ad accettare compromessi di alcun tipo.

Il volo meccanico è solo un sotterfugio dinamico, un modo come un altro per ingannare la gravità sfruttando la portanza, con enorme dispendio di materiali, tempo, carburanti; il volo planato è un banale e passeggero palliativo… Tutto ciò può essere accolto solo in prospettiva; navigare nel cielo azzurro è un passo necessario per raggiungere il traguardo ora più che mai illuminato.

Librarsi, volteggiare, essere privi di catene, volare nell’universo infinito e nero.

Questo e non altri sogni porta in un unico posto.

– Attracco riuscito. Equilibratura, lockdown, sistemi sul verde. Benvenuti ragazzi. –

Il comandante Temuera Harrison della N.A.S.A., un bell’uomo sui quarant’anni e in forma, dai lineamenti marcati e bronzei, diede il benvenuto ai tre astronauti appena giunti sulla I.S.S. con la Sojuz. A sua insaputa, era noto nell’ambiente come “Cap”, diminutivo di Captain America: lo stereotipo del militare americano pronto a primeggiare in tutto senza nemmeno capire il perché, ma di ascendenza polinesiana. Non si sarebbe potuto neanche definire malizioso o ipocrita; ignaro più che altro e in grado di affrontare problemi già studiati, lacunoso in fantasia. Perfetto per il ruolo di responsabile di missione.

Divideva da qualche settimana la permanenza sull’avamposto orbitale con Henrietta Bonocore, franco-italiana in forza all’E.S.A., ex-pilota imbarcato dell’Aéronavale però molto più sveglia di Harrison. Donna minuta e tenace, laureata in fisica dei materiali, aveva risalito il pozzo gravitazionale per testare un nuovo film protettivo a base colloidale per i pannelli solari principali dell’astronave che ne avrebbe, in teoria, triplicato la vita operativa. Dopo quel mese di convivenza forzata, reputava Cap un emerito idiota. Peculiarità di Henri era una polidattilia al piede sinistro: aveva due mignoli che diceva le garantivano una presa migliore agli agganci mentre svolazzava tra i moduli. Non vedeva l’ora di poter parlare con qualcuno di interessante e, soprattutto, simpatico.

La prima testa a comparire dal portello di connessione fu quella della dottoressa Devī Battu, autorità riconosciuta nel campo della biologia molecolare avanzata e prima cosmonauta dell’I.S.R.O., il programma spaziale indiano. Ragazza brillante e spiritosa, aveva idee rivoluzionarie sulle modifiche genetiche agli organismi: avrebbe eseguito degli esperimenti in microgravità su O.G.M. vegetali. Induista osservante, gran giocatrice di bridge, si sentiva orgogliosa come donna di aver raggiunto tali traguardi. Cap le diede il benvenuto formale ed Henri la abbracciò.

Giancarlo Parmesani, E.S.A., Aereonautica Militare Italiana, specialista tecnico. Giovane uomo molto nella media, candidato di compromesso, era stato selezionato più per equilibri di poteri politici ed economici che per bravura. Si era sempre sudato la vita con mezzi modesti: era la sua più grande soddisfazione poter raccontare, un giorno, molto in là da venire, che era stato un astronauta, che aveva ammirato il pianeta da centinaia di chilometri di altezza… Avvinghiò tutti con grandi sorrisi.

Irina Nikolovna Dhomochevski dell’RKA. Tenente colonnello della VKS, ingegnere aerospaziale, progettista e sviluppatore del nuovo sistema di pilotaggio remoto della capsula russa, figlia d’arte: il padre Lev era stato astronauta nel Programma Spaziale Sovietico, ufficialmente deceduto in un incidente di lancio negli anni Ottanta. Il suo compito era aggiornare e rimodernare tutti i software della Stazione e montare uno specifico set di antenne parte integrante dell’apparato di guida a distanza, coadiuvata da Parmesani nell’impresa. Era lì per il Sogno, in verità.

Salutò tutti con cortesia e freddezza. Seguirono le scanzonate foto di rito, le interviste banali e preparate con i grandi network, i collegamenti con le orgogliose famiglie a terra (per chi le aveva) e con i politicanti di turno, tutto sapientemente moderato da Ioannis Papadopulos. L’Uomo a Terra, come veniva identificato: il coordinatore generale di tutte le agenzie coinvolte oltre che il Jolly del mazzo. Quasi nessuno dei suoi conoscenti o collaboratori era mai riuscito a pronunciarne correttamente il cognome. Versatile e pragmatico, mente appuntita e battuta pronta, sostituiva in quell’occasione la responsabile delle relazioni esterne Theresa Karrel.

Ristabilita una certa calma ed esauriti convenevoli e smancerie si passò a faccende più prosaiche.

– Bene giovani. Il programma lo avete, il calendario è compilato, le paraculate le abbiamo espletate… Che dire più? Ah, quando uscite ricordate di chiudere la porta. –

Ioannis adorava quella conclusione e si adoperava per farla venire a noia a chiunque

L’unica a farsi una genuina risata fu la dottoressa Battu, prestata all’ambiente del volo spaziale. Gli altri ghignarono per il suo divertimento. L’Uomo a Terra si aggiustò fiero il colletto della camicia bianca alla reazione di Devī.

– D’accordo Ioannis. Se nessuno ha altro da aggiungere, ci sentiamo tra diciotto ore. Salvo complicazioni. –

La sagoma di Harrison cominciava a ruotare di millesimi di grado in senso orario, quando una microcorrente d’aria incontrò la forma resistente del suo piede. Si rimise dritto con esperienza, bilanciando lo spostamento con il braccio di richiamo.

– Salvo complicazioni. – replicò Papadopulos.

– Dov’è Terry? – chiese a bruciapelo Henri, che aveva afferrato in quell’istante un pensiero evanescente e gassificato come il radon.

– Oh, si è buscata un’influenza con i controfiocchi. Sarà il cambio di stagione… – rispose il contatto sul pianeta. Mentre lo diceva, si passò una mano tra i capelli grigi, pettinati alla Mascagna. Era uno dei pochi segnali non verbali che quel riservato professionista non riusciva a controllare. Henri intuì che non era la verità, o almeno non tutta la verità. Decise che l’aria riciclata le stava annebbiando i neuroni e lasciò andare quella paranoia in caduta libera, dritta contro l’Australia che transitava lì sotto.

– Salutatemi Irina. – aggiunse Ioannis mentre il collegamento svaniva.

Giancarlo e Devī si resero conto in quell’istante che erano solo in quattro, la russa non era lì con loro. Si scambiarono sguardi interrogativi.

Il comandante Harrison e la Bonocore risposero a Papadopulos con un cenno e fluttuarono verso i rispettivi compiti. Erano cosmonauti esperti, avevano già lavorato con la Dhomochevski e sapevano che si trovava nella Cupola.

La novellina Battu e Parmesani, incuriositi, andarono a sbirciare.

La trovarono in posizione accosciata, un fiore di loto che scivolava su impercettibili fenomeni cosmologici, in apparenza immobile. Manteneva la posizione desiderata appoggiando l’indice destro al montante più vicino. A una più attenta analisi, osservando la curvatura dei cristalli, si poteva intravedere un sincero sorriso su un volto ammirato. Irina viveva per quei pochi attimi: concepire la forma concreta di un intero pianeta, poterne identificare gli ecosistemi con precisione, distinguere il terminatore tra notte e giorno e nell’oscurità scorgere foreste di luci che erano città nelle tenebre. E lasciare che lo sguardo andasse oltre, lontano nel tempo remoto, nelle sfere siderali illuminate da gamma-ray burst. Come sempre accadeva, dopo questa magnifica idea di totalità, Irina si rendeva conto della sua marginalità come essere umano e della pochezza della sua specie, chiedendosi come avrebbe mai potuto fare la differenza…

“Il retaggio, figlia mia. Ciò che lasciamo a chi viene dopo di noi. E io lascio te, il mio più grande e insperato successo.”, le parole di suo padre le riecheggiavano adamantine nella mente, ogni qualvolta si trovava a più di cento chilometri di altitudine.

Gli oceani scorrevano veloci, le giungle e gli erg si susseguivano in un balletto antico e per certi versi misterioso, grandi cirrocumoli sfilacciati offuscavano parte della Siberia, il Rio delle Amazzoni si presentava verde smeraldo e marrone…

Nel silenzio ovattato, Giancarlo e Devī assistevano a quel singolare evento a qualche religioso metro di distanza finché i loro sguardi non si incrociarono. Lui notò la splendida sfumatura caramello della sua pelle, lei percepì una distinta vacuità nei suoi occhi.

– È un rito di pacificazione, mi ha detto tempo fa. –

Henri, appesa a mo’ di pipistrello, con i capelli gonfi parlò senza preavviso.

Gesù Cristo, Bonocore! – sussultò l’italiano con una mano stretta sul petto.

Anche la giovane indiana era trasalita ma non lo diede a vedere. Contemplava la naturalezza della collega nell’inedito ambiente, saldamente afferrata con i piedi a delle maniglie. La francese inarcò un sopracciglio e mosse le labbra formando la frase muta “Il mio dito in più!”. Battu sorrise e un istante prima di esporre una delle tante domande che come mercurio fluivano attraverso i suoi pensieri, Irina li spaventò di nuovo.

– Forza novellini. Abbiamo del lavoro da fare. – disse con nuova voce, dolce e priva di accento. Henri si lanciò negli stretti meati della Stazione ridacchiando, portandosi dietro i pivelli e Irina a chiudere la fila galleggiante mentre il mondo ruotava ancora.

Le due settimane successive trascorsero serene e lisce come una lastra di cromo, la giovane indiana le trovò quasi noiose abituata com’era al contatto con il suolo e ai movimenti con attrito e gravità. Tutti sulla Stazione erano concentrati sui loro compiti e giusto un paio di volte vi furono degli screzi. “Quel bambolotto di Harrison si dovrebbe dare una bella calmata…” lo aveva apostrofato tra sé Henrietta sentendolo redarguire la Battu per un banale cambio di orario tra due esperimenti. Devī era mortificata e umiliata perché non le sembrava di aver fatto chissà quale danno ma quello lì era il responsabile della missione… Accettò con un filo di stupore e sollievo le scuse di Temuera qualche ora dopo, quando Irina aveva saputo dell’incidente e lo aveva chiamato per una chiacchierata. Anche le parole, in orbita, appaiono più leggere.

La Dhomochevski era troppo navigata per non comprenderlo e quindi insegnarlo: quando si è in isolamento nello spazio esterno, costretti alla routine e all’assenza di privacy, l’universo assume contorni ben definiti e talvolta soffocanti, molto similmente ai reticoli cristallini degli elementi densi. Si tende a provare un’insolita leggerezza mentale oltreché fisica, i problemi a terra non sono i problemi in orbita e ogni azione o parola ha immediate conseguenze. Erano così in alto che non si accorsero nemmeno di qualche assenza ingiustificata di troppo, nel team sul pianeta. Essere sopra il mondo non significa essere al di sopra dei problemi normali del mondo.

Da quell’episodio, il comandante Harrison si dimostrò molto più elastico e paziente e ne diede prova durante un’importante uscita E.V.A. necessaria al montaggio delle antenne.

La prima passeggiata extraveicolare fu di tutto riposo: Henri doveva operare una valutazione quantitativa esatta dei pannelli solari tramite misuratore laser a due fotocellule allo scopo di settare correttamente lo spruzzatore modificato per spargere la soluzione protettiva. In quell’occasione si portò fuori anche la Battu come rinforzo, visto che era stata addestrata solo in ambiente subacqueo e che il giretto esterno era relativamente tranquillo. Per la ragazza, rimanere in balia delle correnti gravitazionali, senza un sotto o un sopra, dovendo controbilanciare movimenti privi d’inerzia, era stata un’esperienza esaltante. Per la Bonocore, un’altra tacca da aggiungere al curriculum. Parmesani, Harrison e Irina li avevano seguiti passo dopo passo, dando suggerimenti e scherzando nei momenti giusti.

– Occhio a non cadere… – aveva chiosato Giancarlo rivolto a Devī, che nella sua ignoranza militare trovava carina seppur di colore non proprio adeguato.

L’uscita si era risolta in poco più di un paio d’ore, senza intoppi, rispettando le scadenze e la novizia era rientrata piangendo dallo stupore di essere stata da sola nel vuoto cosmico.

L’attività successiva coinvolgeva i tre rimasti in disparte: Harrison in qualità di supervisore e rinforzo data la delicatezza delle operazioni, Parmesani e Dhomochevski come operatori e tecnici specializzati responsabili dell’assemblaggio.

I tre scafandri pressurizzarti si stagliavano candidi sui mari cobalto e le vallate ematite e nell’osservarli non si poteva fare a meno di rimanere a corto di parole e di fiato.

Irina aveva l’abitudine di fischiettare arie di opere liriche, Giancarlo si raccomandava a Sant’Antonio da Padova e Temuera ripassava incessantemente l’addestramento, da buon hard-disk allo stato solido.

La difficoltà si presentò all’installazione della seconda delle quattro grandi parabole.

Parmesani era incaricato di avvitare i bulloni e i primi tre non fecero alcuna resistenza ma l’ultimo non convinse l’italiano.

– C’è qualcosa che non va… – sibilò all’interno del casco.

La Dhomochevski, lontana alcuni metri e sospesa a testa in giù rispetto a lui, aggrottò la fronte.

– Specifica. – intimò al collega.

La protezione micrometrica in lamina d’oro della visiera di Parmesani si voltò prima verso la russa e poi verso Captain America, che stazionava circa dieci metri “sopra” di loro, protetto da uno dei pannelli fotovoltaici principali.

– Secondo me manca mezzo giro abbondante. Forse la filettatura non è perfetta. – si arrischiò ad affermare l’astronauta su cui nessuno avrebbe scommesso.

Calò il silenzio nella silenziosità ghiacciata dei pochi Kelvin dell’orbita bassa.

– Chiedo il permesso di escludere il limitatore di coppia e procedere manualmente. – disse infine Giancarlo dopo un profondo sospiro.

All’interno della I.S.S., Henri masticava sferette di succo d’ananas con i lineamenti dello stupore e Devī si era spiaccicata conto un oblò per poter assistere a un vero e proprio disastro da miliardi di dollari.

– Dhomochevski? – domandò Harrison, dopo qualche secondo relativisticamente dilatato.

– Se il Tovarishch Parmesani così crede allora sono d’accordo. Proviamo. – disse la donna, con il pollice alzato all’indirizzo degli altri due astronauti.

– Molto bene. Bonocore, trasmetti la richiesta all’Uomo a Terra per favore. – impartì il comandante.

Henrietta non si preoccupò di replicare e si diede subito da fare per stabilire un collegamento con la base operativa.

Gli unici rumori erano i riecheggianti e ritmici respiri negli elmetti da vuoto, lenti e calmi: Devī, oscillando inconsapevolmente, osservava inebetita le persone a poche decine di metri nel cosmo buio, protette da sottilissimi strati di fibre sintetiche, dove un piccolo imprevisto significa morte certa. E realizzò che anche lei era stata lì: un brivido da dieci ampere le attraversò la pelle. Si sentì al sicuro nei meandri ingombri di cavi e imbottiture, legacci e piastre di velcro. Il Pianeta intanto, come nulla accadesse, scivolava sotto le loro fragili esistenze, maestoso e insignificante al tempo stesso.

“Ci sta mettendo troppo.” considerò Captain Temuera.

– Abbiamo un problema, mes amies. Buona parte del personale a terra è impegnata in un briefing straordinario: mi ha risposto tale Jack Shaw di Warwick, ingegnere gestionale. Non è roba per lui e ha rimesso a noi la decisione. Comandante, Irina siete di scena. –

“Questa non me l’aspettavo…” pensò il comandante. Di nuovo, ripassò la formazione e non trovò casi simili con una procedura pre-definita. Titubava.

– Io dico di andare avanti. – esclamò la russa, togliendo le castagne dal fuoco all’americano.

– Harrison? – si accodò Giancarlo.

Era in minoranza e almeno uno dei suoi compagni di viaggio spaziale conosceva il mestiere perciò diede il suo assenso modellando la mano guantata e tondeggiante nel simbolo universale di “ok”.

– Procedo. – affermò Irina con una nota d’argento nella voce. Dava per scontato il suo coinvolgimento in prima persona. Iniziò a modificare l’assetto della E.M.U. con estrema delicatezza.

– No, lo faccio io. È responsabilità mia. – ribatté Parmesani con il ferro nel tono.

Nessuno se la sentì di controbattere ma la cosmonauta non frenò la sua avanzata. Era adesso al fianco del giovanotto.

– Avanti Tovarishch. – lo esortò standogli accanto.

“Ha le palle!” si disse Henri sgranocchiando una barretta proteica.

“È tutto scemo.” rifletté la Battu, prendendo appunti sul suo taccuino personale.

Aveva in mente di farne un best-seller, una volta rientrata.

Le ombre proiettate in maniera non convenzionale dalle scheletriche strutture della Stazione intimidirono per un attimo il giovane uomo.

Irina Dhomochevski seguiva le linee spezzate del profilo dell’habitat, così grande all’esterno e minuscolo all’interno: un mostro dalle ossa cave ed epidermide di Kevlar.

Giancarlo Parmesani cominciò a canticchiare.

“We get it on most every night

When that moon is big and bright

It’s a supernatural delight

Everybody was dancin’ in the moonlight…”

La chiave si mosse di tre millimetri.

“Everybody here is out of sight

They don’t bark and they don’t bite

They keep things loose, they keep things light

Everybody was dancing in the moonlight…”

Un altro millimetro.

Tornò indietro nel tempo, quando da ragazzo truccava le Vespe con il cugino alla periferia di Palermo. Bisognava stare attenti; più d’una volta il motore era schizzato via per colpa di un dado stretto con poca cura. Manteneva la concentrazione distraendosi con la canzone, percependo lo strumento e la massa da stringere.

“Dancing in the moonlight

Everybody’s feeling warm and bright

It’s such a fine and natural sight

Everybody’s dancing in the moonlight…”

Stop.

Parmesani sganciò con cautela l’attrezzo e illuminò l’opera. Sentiva il cuore rimbombargli nelle orecchie. Mise le mani in alto.

Irina si sporse da “sopra” la sua spalla sinistra e notò la chiavarda perfettamente avvitata e sicura.

– A posto. – annunciò con fierezza.

– Bravo ragazzo. – disse a Giancarlo, dandogli delle pacche sull’esoscheletro.

– E pulisci il sudore della visiera appena puoi. – aggiunse per postilla.

– Ottimo lavoro, ragazzi. Completiamo la sequenza e rientriamo. – concluse Temuera.

Dovettero interrompere lì, tuttavia. Henri e Devī li fecero rientrare di fretta al Modulo Unity: Ioannis aveva terminato la riunione e doveva parlare con tutto l’equipaggio.

Le notizie di Papadopulos li lasciarono sconfortati e attoniti, a tratti sconvolti: per almeno un’ora buona, nessuno riuscì a formulare un pensiero coerente o un’emozione precisa.

Il mondo intero era sotto attacco. Il nemico era invisibile, adattabile e all’apparenza invincibile. Non era un’epidemia d’influenza come gli era stato accennato nelle settimane precedenti; era qualcos’altro, qualcosa di molto antico e di molto cattivo. L’Uomo a Terra spiegò che sembrava trattarsi di un tipo ignoto di arbovirus, una creatura vecchia qualche milione di anni che era rimasta relegata e sonnolenta nelle impenetrabili foreste pluviali del Borneo finché qualche stronzo di prospettore minerario sudafricano non era andato a fargli una visita. Di più, lo aveva portato nella civiltà umana. Come liberare uno squalo bianco in una piscina di otarie, come accendere un fiammifero in una stanza satura di idrogeno. Non era chiaro nemmeno come fosse avvenuta la trasmissione: una teoria affermava che i geologi, per compiacere i locali e accattivarsene le simpatie per poter concludere affari, avessero banchettato insieme a loro con carne di scimmia infetta. Un’altra ipotesi, molto più verosimile e forse più aderente alla realtà dei fatti, voleva che il vettore dell’agente virale fosse un artropode sconosciuto, entrato in simbiosi con il microrganismo nel corso di migliaia di anni, che aveva punto quei deficienti di esploratori. Il problema che si stava riscontrando a livello globale non era tanto l’aggressività del patogeno quanto la sua estrema mutabilità.

– Quindi il test di privazione emotiva era tutto una balla? – chiese d’un tratto la Bonocore.

Ioannis li guardò fisso dallo schermo, i pixel leggermente sgranati, deglutendo un po’ di saliva.

– Sì. Non esiste alcun test di privazione emozionale. – affermò.

Aveva mentito per tenerli buoni e annichilire i sospetti, inventando di sana pianta uno studio sull’astensione sentimentale dell’equipaggio: niente contatti con gli affetti più vicini, compilazione di alcuni questionari e controllo delle reazioni somatiche in ambiente estremo. Dati per i futuri viaggi interplanetari.

Ah, le petit fils de pute… – esclamò Henri, quasi divertita.

Parmesani si scaldò.

– Sei un bastardo, Ioannis. Che ti dice il cervello? – latrò all’indirizzo dell’immagine digitale.

La Battu si mordicchiava le unghie e il comandante era misteriosamente taciturno.

Irina galleggiava in ultima fila.

– Ragazzi calmatevi. Non potevamo prevedere le vostre reazioni. Dovevamo prima capire con cosa avevamo a che fare e… –

– È pandemico? – domandò interrompendolo la dottoressa Devī, quasi rannicchiata nella sospensione gravitazionale.

Papadopulos si sistemò la pettinatura e lasciò vagare per qualche istante lo sguardo.

– Sì, altamente. Stanno evacuando anche noi. Questo è il nostro ultimo contatto diretto. In molte zone degli Stati Uniti e del Nord Europa la legge marziale è già in vigore. Da quattordici ore non abbiamo notizie dell’Ucraina e in mezza Africa è scoppiato il panico puro… Il permesso di rientrare è revocato fino a nuovo ordine. Cercherò di passarvi le informazioni che recupero. –

– Siamo in quarantena nella quarantena… – si lasciò sfuggire Harrison, con parole stanche e volteggianti nell’aria dal sapore di azoto.

– No, forse siamo l’ultima speranza. – concluse la Dhomochevski.

La frase restò lì, a ondeggiare con le penne e i tablet, sospesa come l’ultima foglia di un ramo morente.

Quando sei troppo in alto, i problemi dei terrestri sembrano non riguardarti. Ma ti sbagli, ti sbagli sempre.

Nessuno osò aggiungere altro.

Devī Battu non si accorse di nulla, era troppo assorta nello studio dei dati che Ioannis aveva lasciato nel cloud. Erano passati solo sette giorni dalla terribile notizia…

Centosessantotto lunghissime e logoranti ore, esasperanti nella loro banalità. L’assenza di peso funzionava come una specie di placebo per le preoccupazioni. Ciascuno di loro cercava di metabolizzare l’evento catastrofico come meglio poteva.

Giancarlo si allenava di continuo, convincendosi che la sua fidanzata e il suo piccolo Mario di tredici mesi stessero bene, al sicuro e in salute.

Henri teneva d’occhio tutti i parametri della Stazione: la parvenza di avere tutto sotto controllo le rendeva più sopportabile il pensiero di sua moglie e delle loro due figlie così lontane e indifese.

Temuera sfogliava su un device portatile le foto del suo clan: partite di football, barbecue in giardino, tramonti infuocati e si assicurava che tutti rimanessero calmi e concentrati. O così voleva che si pensasse.

Irina leggeva molti manuali e riguardava con una certa attenzione l’ultimo video che Ioannis era riuscito a inviare.

Gli studi preliminari erano assolutamente affascinanti: quel piccolo infame non rimaneva lo stesso per più di quattro generazioni. Si era manifestato come una potente influenza e dopo dodici giorni era diventato una bronchite, quindi una grave polmonite interstiziale. L’ultima analisi rimarcava una vicinanza alla dengue. Non ci avrebbe messo molto a evolversi per attaccare il sistema nervoso periferico per poi passare a quello centrale. La giovane biochimica leggeva le estrapolazioni ammaliata: le proprietà assassine della Natura non smettevano mai sorprenderla.

All’improvviso sentì nell’interfono Henrietta, emozionata.

– Comandante Harrison, che stai facendo? –

– Io… Io devo tornare a casa… – udì rispondere Captain America, nel gracchiante tono della cassa. Si lanciò verso lo schermo più vicino e scorse rapida le schermate delle telecamere interne. Vide Harrison aprire il portello interno del Modulo Uno. Se lo chiuse alle spalle e senza dire altro aprì il boccaporto esterno, nel vuoto cosmico senza la protezione della E.M.U.: Temuera Harrison venne risucchiato e fatto implodere all’istante dai gradienti negativi di pressione e temperatura. Il sangue si cristallizzò in piccoli rubini svolazzanti nella camera di equilibrio. Irina e Giancarlo, i più vicini, erano accorsi e rollavano nei pressi del raccordo di Unity, appesi agli agganci, fissando il nero universo che adesso e per sempre era diventata la dimora del loro compagno.

– Potrebbe toccare a chiunque di noi, l’Apocalisse non è per i deboli. – affermò convinto Parmesani, osservando la Terra da uno degli oblò centrali. Alludeva ovviamente al crollo psicologico di Harrison.

– E meno male che ha lasciato chiusa la porta interna. Forse è il caso di considerare un tentativo di rientro… – propose.

Le tre donne lo guardarono con un misto di rabbia e comprensione.

– Dobbiamo attenerci alle istruzioni. E poi, come dovremmo fare a rientrare? La capsula ne porta tre, tanto per cominciare. Non c’è nessuno al centro controllo, anzi non sappiamo nemmeno dove li abbiano portati. Ammesso poi che riuscissimo ad arrivare a terra, in Kazakistan, non abbiamo idea se verranno a recuperarci o ci fucileranno sul posto. Inoltre, abbiamo una responsabilità non indifferente: siamo gli unici esseri umani sicuramente mai entrati in contatto con la pandemia. – riassunse Henri, provando ossessivamente i canali radio.

Dhomochevski ascoltava ad occhi socchiusi e prestava particolare cura alla Battu che, accosciata e beccheggiante, scriveva sul suo blocconote.

Erano soli e disperati, in orbita, nel pericolo controllato sorvolando costantemente una minaccia di livello estintivo. Si lasciarono scappare sbuffi e sospiri.

La Bonocore si sdraiò lunga nell’assenza di gravità.

– Devo tornare giù. – disse improvvisamente la dottoressa Devī.

Irina le sorrise apertamente e gli altri due si guardarono interrogativi.

– Adesso vi spiego. – proseguì la giovane studiosa, accingendosi a illustrare le sue conclusioni.

Savitar, il dio del moto e della velocità, così lo aveva soprannominato. Aveva la straordinaria capacità di variare radicalmente la sua struttura ancor prima che gli scienziati lo studiassero nella sua interezza e trovassero contromisure efficaci. Un micrometrico perfido bastardo ma pur sempre una parte della biosfera e come tale doveva avere dei punti deboli, bisognava solo trovarli. Devī, dopo averci riflettuto a lungo, era convinta di aver trovato una strada promettente. Con buona approssimazione di certezza, raccontò, dell’emergenza se ne stavano occupando le strutture sanitarie pubbliche e private, lavorando spasmodicamente a un vaccino, a un antagonista sierologico, a un farmaco o a una cura. Era un vicolo cieco: Savitar era troppo rapido, troppo furbo; avrebbe frustrato tutti i loro sforzi. Dal poco materiale che Papadopulos era stato in grado di caricare, era riuscita a dedurre la vera potenza del virus: l’incompletezza. I dati di base confermavano veri e proprio buchi nell’RNA che il microbo colmava di volta in volta con creatività. Il probabile motivo di questa variabilità stupefacente, secondo la ragazza, risiedeva nella sua longevità: si era fatta convinta che Savitar fosse uno dei progenitori di tutti i virus, il patriarca di tutte le piaghe. La Natura lo aveva tenuto nascosto per una ragione ben precisa, gli umani avevano turbato un equilibrio ancestrale e ne stavano pagando le devastanti conseguente.

– La soluzione più efficiente è costruire il suo avversario. Se riusciamo a capire i suoi meccanismi di mutazione, possiamo creare delle cellule-bersaglio facilmente espellibili. Se riusciamo a mappare con precisione gli agganci proteici, possiamo costruire degli anticorpi appositi. Posso… Possiamo batterlo ma non qui. – concluse Devī con gli occhi lucidi. Le lacrime, prive di peso e d’inerzia, assumono forme oblunghe per via del quantitativo di minerali e ricordano le gocce di pioggia.

Henri le poggiò una mano sulla spalla, muovendosi dolcemente nell’atmosfera artificiale: voleva farle sentire la sua empatia e riportarla alla realtà.

– Dici sul serio? Puoi far finire questo casino? – chiese Parmesani eccitato, arrampicandosi verso le colleghe.

– Io… Non lo so. Quello che so è sono più utile in un laboratorio che qui. – rispose la Battu, tirando sul col naso.

La Bonocore la abbracciò e le accarezzò i capelli corvini.

– Non abbiamo modo di scendere sul pianeta… – replicò la francese tristemente.

Irina Dhomochevski lanciò ai colleghi cosmonauti un’occhiata dura come l’osmio corredata di un sorriso smagliante.

– Hai capito l’Uomo a Terra… – sussurrò Giancarlo.

La russa aveva assicurato che, con le dovute modifiche effettuabili da loro stessi, il sistema di guida a distanza era compatibile con il modello di Sojuz che li aveva trasportati in orbita. Ciò che rimaneva un’incognita era una zona di atterraggio sicura. A quell’interrogativo, Irina iniziò a fare scorrere l’ultimo filmato di Ioannis Papadopulos, spedito nell’etere tre giorni avanti. Si vedeva un uomo molto stanco e affranto eppure fiero e tenace. Riferiva che la situazione precipitava e si faceva più grave ogni ora, la malattia si propagava senza freni e con diversificazioni sempre più letali, decine di governi erano già crollati, le rivolte per il cibo scoppiavano ovunque, gli invasati stavano prendendo il sopravvento, la civiltà stava per crollare. Tendeva a massaggiarsi spesso le tempie e gli occhi, segno che era al chiuso, in un bunker. L’ipotesi era confermata dall’assenza di finestre nel suo alloggio.

– Guardate qui. – disse la donna, mettendo in pausa il video. Indicò l’orologio digitale sulla parete alle spalle dell’uomo. Segnava le 62 e 55: era certamente guasto.

Gli altri tre rimasero per un attimo molto poco convinti.

– E osservate bene il riflesso negli occhiali poggiati sul tavolo… – aggiunse.

Le lenti rispecchiavano quattro cifre al contrario digitate su di una calcolatrice: lette nel verso giusto erano 40,34.

Sotto controllo militare, tutte le trasmissioni erano monitorate perciò il coordinatore aveva escogitato un modo per far filtrare un’informazione vitale separandola in due componenti distinte cosicché almeno una parte raggiungesse la destinazione.

– È un messaggio per me. Mi sta dicendo dove sono. – affermò Irina con soddisfazione.

Cosmodromo di Pleseck: 62°55’32” N, 40°34’40” E. Ottocento chilometri circa a nord di Mosca: Lev Dhomochevski era morto lì e la figlia sapeva che lo spazioporto non era l’unica struttura nell’area. Nel sottosuolo, era stato costruito un alveare antiatomico segreto durante la Guerra Fredda ed evidentemente lo avevano riciclato per l’occasione.

Irina misurò i suoi compagni di avventura galleggiare fra strette pareti cilindriche, non proprio puliti e molto provati.

– Vi porto io giù. –

I preparativi furono febbrili. Irina, Henri e Giancarlo lavorarono a turni di due sulla navetta, risparmiando Devī dagli incarichi perché troppo importante per rischiare un incidente e perché troppo inesperta nei compiti extraveicolari. La Sojuz venne rinforzata nei punti strategici e vennero esclusi i giunti esplosivi automatici in quanto, citando la Dhomochevski, le servivano un po’ di aereodinamica e un po’ di massa per farle cambiare traiettoria nell’atmosfera. La superficie del velivolo venne irrorata con il colloidale protettivo rimasto per darle qualche secondo di resistenza in più alla ionizzazione da attrito. Era un azzardo di livello finale: Henri paragonò il loro piano a quello di Wile E. Coyote quando, beffato da Beep-beep, piombava giù dalle rupi e apriva l’ombrellino colorato per frenare lo schianto. Un giorno intero fu dedicato alla ricalibratura dei parametri dei software per essere certi che il mezzo orbitale rispondesse in maniera pronta e adeguata. La discussione successiva era senza uscita: la Battu era necessaria, Henri e Giancarlo avevano famiglia e quello era l’ultimo volo per chissà quanto tempo.

Irina doveva rimanere per forza sulla Stazione: non c’era spazio nell’abitacolo della Sojuz per un quarto membro anche se Parmesani aveva proposto di saldare un altro seggiolino. Senza contare che per far rientrare la Sojuz il quel modo bisognava in sostanza pilotare a vista almeno per un tratto e controllare una serie di strumenti con attenzione meticolosa. Il rientro dall’orbita non è l’ideale per aggiustamenti millimetrici.

La russa fu inflessibile come il diamante; avrebbe atteso nello spazio la fine del disastro, fiduciosa e serena.

– Senza voi tre e tirando un po’ la cinghia, quadruplicherò il tempo di permanenza. Posso reggere un altro anno, se sarà necessario. – disse l’astronauta stringendo i capelli ramati in una coda alta, mentendo spudoratamente. Parmesani, Bonocore e Battu non seppero come ribattere e andarono a indossare le protezioni.

– Cercherò di portarvi il più vicino possibile alle coordinate stabilite. Trasmetterò su tutte le frequenze il motivo del rientro, voi restate dentro le tute con l’ossigeno. Andrà tutto bene. – li rincuorò mentre li aiutava a trasferirsi dalla I.S.S. alla Sojuz.

Giancarlo Parmesani le strinse forte la mano, serrando la mascella e scese nella capsula prima che l’emozione prendesse il sopravvento.

Devī Battu guardò la sua compagna con un’ammirazione sconfinata e Irina la fissò di rimando, mentre le serrava il casco.

– Il tuo nome farà la differenza. “Devī”: colei che risplende. Porta la luce, ragazza. – le disse, spingendola senza sforzo nel cockpit.

Henri Bonocore la guardò e non trovò le frasi per salutarla poiché sapeva che quella era l’ultima volta che si vedevano. Entrambe erano coscienti che si trattava di un biglietto di sola andata. Si abbracciarono senza parlare.

Irina sganciò la Sojuz per trovarsela “sotto”, la sistemò in assetto con i razzi di posizione e attese qualche attimo che la traiettoria calcolata s’illuminasse di verde.

– Buon viaggio, ragazzi. Ci vediamo presto. –

La navetta iniziò il percorso di rientro come da programma, acquisendo velocità attirata dal pianeta. Riusciva ancora a intravederla, poi passò alla guida strumentale. Le componenti non si divisero, le modifiche reggevano. La schermatura anti-calore resse quei sei secondi che le servivano. Utilizzò i pannelli solari come alettoni per deviare il volo pre-caricato e la portò sopra lo spazio aereo russo.

– A tutti coloro che posso sentirmi: Sojuz in rientro con prezioso carico. NON ABBATTERE. RIPETO: NON ABBATERE. –

Ripeté quella comunicazione molte volte, in tutte le lingue che conosceva.

Una volta che ebbe la certezza di averli portati sulla verticale dello spazioporto in disuso, fece detonare i cuscinetti esplosivi e liberò i paracadute.

Adesso aveva un’altra missione da portare a compimento.

La videocamera aveva il led rosso acceso e riprendeva correttamente.

Si schiarì la voce e si diede una rassettata, quindi cominciò a parlare.

– Mi chiamo Irina Nikolovna Dhomochevski e sono un’astronauta. Sono un essere umano del pianeta Terra: troverete tutte le informazioni astrografiche negli hard-disk che ho allegato. Quarantotto giorni fa, una pandemia con mortalità certificata del 91% nella sua ultima forma, Savitar, ha colpito la mia specie. Tredici giorni fa ho rimandato al suolo una speranza per tutti noi. Undici giorni fa ho avuto conferma che la speranza era stata presa in carico e messa al lavoro. Da allora, non ho avuto più aggiornamenti. Ho recuperato tutta la conoscenza e le nozioni che ho potuto: arti figurative, architettura, geologia, geografia, letteratura, storia, medicina, matematica, astronomia, filosofia, fisica, filmati, giornali: qualunque testimonianza della nostra presenza e dei nostri errori su questo sperduto globo che ruota attorno a una stella di Classe spettrale G2 V. Non ho idea, allo stato attuale, della mia sorte. È probabile che non potrò essere recuperata e anche se avvenisse le ripercussioni sulla mia condizione fisica saranno permanenti. –

Fece una pausa e sorrise all’obiettivo: pensava alla perdita inesorabile di densità ossea e all’incessante progredire dell’atrofia muscolare.

– Ho stivato tutti i dischi di memoria in una sezione del satellite artificiale dove sono stata confinata insieme a un campione di sangue che contiene il nostro codice genetico, il nostro D.N.A., un esoscheletro E.M.U. e tutto ciò che sono riuscita a salvare. Procederò allo sgancio del modulo dopo avervi fissato dei propulsori di fortuna e lo lancerò nello spazio esterno, contando che non si abbatta su qualche luna: il messaggio nella bottiglia di un’intera razza. È tutto ciò che posso fare. È questa l’eredità che lascio: se c’è qualcuno là fuori, se riuscite a comprendermi, volevo solo che sapeste che siamo esistiti anche noi, in questo sconfinato universo.

Dhomochevski, chiudo.

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