Riprendiamo da Effimera un articolo di Andrea Fumagalli che contiene alcune osservazioni sul tema del reddito, tornato ad essere al centro del dibattito politico in questi mesi, basate su due dicotomie: condizionato/incondizionato/universale e remunerazione /protezione sociale.
Con il nuovo decreto “Rilancio”, al fine di contrastare gli effetti recessivi del parziale lockdown produttivo, è stato introdotto il “reddito di emergenza”, un nuovo tipo di reddito che si somma alle già molte tipologie di reddito esistenti.
Recentemente, in alcune città italiane il tema del reddito di base incondizionato è stato al centro di mobilitazioni e presidi. Come già scritto in precedenza, sul tema del reddito sta montando una certa confusione grazie al moltiplicarsi delle terminologie usate. Per questo, senza alcuna pretesa di esaustività, crediamo che sia necessario fare un minimo di chiarezza e procedere ad un’analisi definitoria di tali molteplici tipologie.
Come prima nota introduttiva, divideremo il tema di un diritto al reddito in due macro-famiglie. Da un lato, il reddito come remunerazione, così come sostenuto dalla scuola neo-operaista (alla luce dell’analisi dei nuovi meccanismi di valorizzazione che vedono la vita alla base dei processi di accumulazione), detto anche reddito primario; dall’altro, il reddito come ammortizzatore e protezione sociale, per coloro che non possono (perché non hanno i requisiti o per la limitatezza delle risorse) attingere agli usuali strumenti di sicurezza sociale (sussidi di disoccupazione e forme affini).
Il reddito di base incondizionato come reddito primario entra nel processo di distribuzione della ricchezza, al pari del salario e affini (remunerazione del lavoro), profitto (remunerazione dell’attività imprenditoriale, rendita (remunerazione della proprietà, qualunque essa sia). Da questo punto di vista, essendo il reddito di base remunerazione di quel tempo di vita produttivo che non viene riconosciuto come tale (tempo di formazione apprendimento, tempo di relazione, tempo di cura, tempo di svago, tempo di gioco, tempo di ozio per sé e le/gli altre/i), risulta complementare e non sostitutivo del salario come remunerazione del tempo certificato di lavoro. Reddito e salario tendono quindi a convergere in un’unica rivendicazione sociale.
Il reddito come ammortizzatore e protezione sociale, invece, entra nella re-distribuzione del reddito, una volta che la ricchezza prodotta è stata distribuita tra i fattori produttivi che hanno contribuita a crearla. È un intervento di politica economica istituzionale e non esito del conflitto sociale distributivo.
La differenza è fondamentale per far comprendere che la richiesta di un reddito incondizionato sia una rivendicazione sociale e sindacale che intacca direttamente il processo di organizzazione della produzione e del lavoro.
Tale prima distinzione, tuttavia, non è esaustiva. Riprendendo quanto già sottolineato dal Bin-Italia, occorre aggiungerne un’altra che si interseca con la precedente. Da una parte, il reddito minimo garantito, così come conosciuto soprattutto grazie alle esperienze di numerosi paesi europei, e dall’altra il reddito di base universale ed incondizionato, che oggi si va sperimentando in molti paesi nel mondo.
Come scrive Sandro Gobetti[2],
“Il reddito minimo garantito è un’erogazione economica in denaro, attribuita da parte di un’autorità pubblica a tutti i cittadini, o residenti in un paese, che versano in uno stato di bisogno (individuale e/o familiare) o che sono a rischio povertà. Il reddito minimo viene erogato a fronte di una prova che attesti la difficoltà economica e la necessità di ricevere tale sostegno (means test)”. Questa misura è spesso subordinata alla disponibilità a cercare lavoro, ad accettare impieghi o a seguire percorsi di formazione da parte del beneficiario. Tale erogazione non ha di regola una scadenza prefissata, viene erogata «fino al miglioramento della condizione economica”.
La finalità è quella di garantire una quota economica minima come base di un’esistenza dignitosa. Rientrano a livello concettuale nella famiglia del reddito minimo garantito declinazioni quali il reddito minimo di inserimento, il reddito di ultima istanza, il reddito di dignità, il reddito sociale. il reddito di emergenza, eccetera.
Il reddito di base (basic income nella definizione del dibattito internazionale) è invece un reddito attribuito da un’autorità pubblica a tutte le persone, indistintamente, senza alcun condizionamento ad accettare un lavoro, senza alcuna specificità categoriale, senza la richiesta di un requisito reddituale o patrimoniale. In sostanza si tratta di un reddito destinato a tutti gli esseri umani in quanto diritto fondamentale, diritto umano e di esistenza, e viene erogato per tutta la vita. Per questo viene definito: reddito di base incondizionato e universale. Rientrano a livello concettuale nella famiglia del basic income declinazioni quali il reddito di esistenza, il reddito di autodeterminazione, il reddito di cittadinanza, eccetera.
Tuttavia, all’interno della famiglia del basic income occorre fare un’altra distinzione, quella tra reddito di base incondizionato e universale (definito poc’anzi) e reddito di base incondizionato ma non universale. Per quest’ultimo, l’incondizionalità riguarda solo l’impegno nella ricerca del lavoro e nelle modalità di spesa del reddito percepito. In altre parole, l’unica condizione che viene mantenuta è quella dei means test, ovvero l’esistenza di un disagio economico, che deve essere definito in termini relativi e non assoluti (normalmente la soglia di povertà relativa, pari al 60% del reddito mediano esistente, che varia da anno in anno).
Con riferimento alla prima distinzione (reddito come strumento di remunerazione primaria – reddito primario – di una vita messa al lavoro, complementare al salario come remunerazione di un’attività lavorativa certificata come tale), l’incondizionalità è data per definizione, mentre non lo è in modo automatico se il reddito viene percepito come strumento di assistenza sociale.
Di conseguenza possiamo procedere a una classificazione delle diverse famiglie di reddito con l’ausilio della seguente tabella, basata sulle due dicotomie: condizionato/incondizionato/universale e remunerazione /protezione sociale.
Tale tabella ci permette di fare alcuni chiarimenti:
1. Il reddito che ci interessa è quello che remunera ed è incondizionato. Ne consegue che siamo di fronte a due possibili alternative: un reddito incondizionato e universale oppure un reddito incondizionato con i means test.
2. La Legge n. 26/2019, del 28 marzo 2019, “recante disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni”, presenta un titolo inappropriato. Non si tratta infatti di “reddito di cittadinanza” ma di un reddito minimo fortemente condizionato e, per di più, sottofinanziato rispetto, almeno, all’obiettivo, più volte dichiarato, di andare incontro alle esigenze dei poveri assoluti.
Il reddito di base incondizionato (universale o con i means test) deve comunque ottemperare altri criteri, per essere considerato tale. Ne enumeriamo tre:
1. Criterio dell’individualità: il reddito minimo deve essere erogato a livello individuale e non familiare a tutte le persone fisiche. Si potrà poi discutere se anche i minori di anni 18 potranno averne diritto o no.
2. Criterio della residenza: il reddito minimo deve essere erogato a tutte/i coloro che, risiedendo in un dato territorio, vivono, gioiscono, soffrono e partecipano alla produzione e alla cooperazione sociale a prescindere dalla loro condizione civile, di genere, di etnia, di credo religioso, ecc.
3. Criterio del finanziamento e della trasparenza: le modalità di finanziamento del reddito di base devono essere sempre enunciate sulla base di studi di sostenibilità economica, specificando dove le risorse vengono reperite in base alla stima del suo costo necessario. Tali risorse devono cadere sulla fiscalità generale e non su altri cespiti di provenienza (come, ad esempio, contributi sociali, alienazione di patrimonio pubblico, proventi da privatizzazioni, ecc.).
La famiglia di reddito che ci interessa è quella del reddito come remunerazione e incondizionato. Al riguardo, come sottolineato, siamo di fronte a due possibili alternative, a seconda se prevale il criterio dell’universalità su quello dell’incondizionalità con i means test.
Questi due criteri si possono presentare fra loro in contraddizione e in una fase iniziale di sperimentazione il criterio dell’incondizionalità può essere considerato più importante di quello dell’universalità. Perché in contraddizione?
Con riferimento all’Italia, possiamo immaginare due scenari alternativi, partendo dal presupposto che il finanziamento della misura ricada in ogni caso sulla fiscalità generale, ovvero come quota della ricchezza sociale prodotta (che per comodità, pur coscienti dell’inadeguatezza di tale indice, è espressa dal Pil).
Il primo scenario prevede un reddito universale individuale, incondizionato, pari a 10.000 euro l’anno, un livello di pochissimo superiore alla soglia di povertà relativa. Il costo complessivo per una platea di 48 milioni circa di abitanti maggiorenni è di 480 miliardi di euro all’anno. pari al 25% circa del Pil. Il bilancio dello Stato (compreso salari e stipendi dei dipendenti pubblici) ammonta a circa 570 miliardi. In effetti, i soldi per dare 10.000 all’anno a tutti ci sarebbero, se la spesa pubblica dello Stato si riducesse di almeno l’80% con privatizzazione dei servizi e un incremento delle entrate fiscali grazie alla maggiore progressività delle aliquote. In questo primo scenario la sostenibilità economica di un reddito universale e incondizionato implica lo smantellamento del sistema di welfare esistente e la scomparsa dello Stato come agente economico.
Un secondo scenario possibile prevede, invece, di quantificare in prima istanza il massimo delle risorse disponibili senza causare un effetto sostituzione con il welfare pubblico. Ad esempio, si potrebbe ipotizzare che tali risorse possano derivare da un uso alternativo della politica monetaria di Quantitative Easing (QE). Una possibilità che al momento non è data ma che in un futuro prossimo, chissà…
Attualmente il QE è pari a 25 miliardi al mese, di cui all’Italia va circa in media il 15%, pari a 4 miliardi, per un totale di 48 miliardi l’anno. Immaginiamo che una quota del 40% di tale cifra possa finanziare un fondo per il finanziamento della misura di reddito di base universale, a cui è possibile aggiungere una cifra annua di 8-10 miliardi sulla base delle leggi di stabilità. In conclusione, la cifra disponibile potrebbe aggirarsi a poco meno di 30 miliardi l’anno, pari a 625 euro l’anno pro capite, poco più di 52 euro al mese.
La proposta di universalità del reddito di base ci pone dunque di fronte a un dilemma, un trade-off. Da un lato garantire un livello di reddito (10.000 euro l’anno) tale da minimizzare il ricatto del bisogno e poter esercitare realmente il diritto alla scelta del lavoro e quindi all’autodeterminazione è possibile ma in cambio dell’azzeramento del welfare pubblico. Dall’altro, se non si vuole il totale smantellamento del ruolo dello Stato in economia, ci si deve accontentare di un livello di reddito di base irrisorio, non in grado in ogni caso di far modificare il proprio destino.
Tra queste due alternative, riteniamo che una terza proposta possa farsi strada e fa riferimento alla definizione di un criterio di accesso. Il reddito di base rimane incondizionato dal punto di vista degli obblighi e delle contropartite ma è vincolato solo dal livello di reddito percepito nel presente. Ciò significa introdurre un criterio di gradualità, che inizialmente limita la platea dei possibili beneficiari solo a coloro che si collocano al di sotto di una certa soglia di reddito (comunque non inferiore alla soglia di povertà relativa). Tale soglia deve esser fissata in termini relativi, così da crescere nel tempo e ampliare la platea dei beneficiari.
Secondo le stime preliminari provvisorie dell’Istat, in Italia nel 2019 vivono in condizione di povertà assoluta il 6,5% delle famiglie e il 7,8% degli individui (contro, rispettivamente, il 7,8% e l’8,4% del 2018) per un totale di quasi 5 milioni di persone.
I poveri relativi sono circa il 12,8% della popolazione, circa 8 milioni di persone. La stima dei costi necessari per portare tutti i poveri relativi al di sopra dell’attuale soglia relativa è compresa in una forbice tra i 19 miliardi e i 30 miliardi, a seconda se si considera la casa all’interno del calcolo del reddito Isee. Ogni anno vengono trasferite alle famiglie circa 9 miliardi di euro, sotto forma di sussidi per l’inoccupazione (Aspi, Naspi, mobilità, indennità di disoccupazione, varie forme di cassa integrazione, ecc), al netto dei trasferimenti previdenziali. Se la misura di reddito minimo di base incondizionato va a sostituire l’80% di tali trasferimenti[3], come esito di una ristrutturazione e semplificazione del sistema degli ammortizzatori sociali oggi tra i più iniqui e distorti a livello europeo, a favore di un’unica misura, ne consegue che il costo netto si aggira in una forbice tra 10 e 21 miliardi di euro. Si tratta di una cifra impegnativa ma abbordabile, anche tenendo conto degli effetti indiretti di una simile misura, in grado di favorire processi di autofinanziamento.
Facciamo, infatti, riferimento all’aumento del moltiplicatore del reddito grazie all’aumento della propensione marginale media al consumo (in seguito al trasferimento di reddito verso famiglie e individui che consumano quasi interamente il proprio reddito[4]) e all’incremento della domanda aggregata. In presenza di un’imposizione fiscale progressiva, ne conseguirebbe un aumento delle entrate fiscali superiore alla crescita del PIL con un positivo effetto anche sulla riduzione del rapporto debito/Pil.
In questa versione di un reddito incondizionato ma con i means test, viene sacrificato quindi il requisito dell’universalità immediata dell’accesso alla misura di reddito di base, mantenendo però inalterato il principio di non chiedere in cambio nessun tipo di contropartita e obbligo comportamentale (disponibilità al lavoro o alla formazione, in primo luogo) o di consumo e consentendo, comunque, un livello di reddito tale da garantire una maggior libertà di scelta e di rifiuto.
Post-scriptum: la tragicommedia italiana
Nelle ultime settimane, si sono verificati alcuni fatti e prese di posizione che vale la pena ricordare. Il 1 giugno scorso, la Corte dei Conti è intervenuta in modo fortemente critico sulla legge 26/2019 che ha istituito il reddito di cittadinanza nel “Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica”, sino a paventare il suo annullamento per il 2021, chiedendo che non venga inserita nella Legge di Bilancio 2021. Nel mirino, vi sono soprattutto le politiche attive del lavoro. La critica maggiore della Corte dei Conti riguarda, infatti, la fase due del reddito di cittadinanza, quella della ricerca di un lavoro per i percettori del sussidio. Secondo le analisi della Corte dei Conti (su dati Anpal, Agenzia nazionale politiche attive del lavoro), solo il 23,5% della forza lavoro nel 2019 ha cercato un’occupazione tramite i centri per l’impiego. Una percentuale che si è addirittura ridotta rispetto al 24,2% del 2017 e al 23,3% del 2018, nonostante l’assunzione di 3000 navigator da parte dell’Anpal, guidata dal professore del Mississippi Mimmo Parisi. Nella ricerca del lavoro continuano ad avere un ruolo predominante, in Italia, i canali informali. In particolare, solo poco più del 2 per cento ha trovato lavoro, tra il terzo trimestre 2018 e il terzo trimestre 2019, tramite i centri per l’impiego. Poi c’è l’accesso ridotto per gli immigrati: la quota di beneficiari stranieri extracomunitari è meno del 6%, nonostante il 31% di questi siano secondo l’Istat in situazione di povertà assoluta. «Il vincolo dei dieci anni di residenza, di cui almeno gli ultimi due in via continuativa, potrebbe aver limitato il numero delle domande presentate dalle famiglie straniere», spiegano i giudici della Corte.
Il 3 giugno, il Forum Disuguaglianza Diversità coordinato da Fabrizio Barca (area sinistra Pd) pubblica sul proprio sito un articolo in cui mette in dubbio l’efficacia del Reddito di Emergenza (Rem) nel raggiungere effettivamente le famiglie più povere. Eppure, poco meno di due mesi prima, il 30 marzo, il Forum Disuguaglianze Diversità e Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), insieme a Cristiano Gori (docente dell’Università Cattolica di Milano) , avevano presentato la proposta del Reddito di Emergenza (Rem), dichiarandosi contrario a qualunque intervento di carattere più universale, ma limitandosi a perorare un intervento di sussidio al reddito di ultima istanza. Secondo tale proposta
“il REM avrebbe dovuto sostituire il Reddito di Cittadinanza, per i nuovi richiedenti, per ampliare la sua platea per un periodo temporaneo ed eccezionale. Nell’impianto del Decreto Rilancio le due misure convivono e il REM è destinato a chi non gode già del Reddito di Cittadinanza o di altre prestazioni. … Per quanto riguarda la presentazione della domanda, per chi possiede un ISEE la domanda appare molto semplice. Per chi non lo possiede le cose appaiono più complicate. Si tratta di quelle persone oggi fuori dalla rete del welfare pubblico. Tuttavia, essendo l’ISEE fissato a 15.000 euro (una soglia elevata se considerata la platea per cui il REM è stato costruito), non costituirà il criterio per decidere chi debba ottenere il REM. Nella proposta ForumDD-ASviS-Gori non era previsto l’ISEE tra i criteri di accesso, mentre l’esecutivo ha deciso di tenerlo motivando che la presenza dell’ISEE era necessaria per la presa in carico delle domande da parte dell’INPS”.
Il rischio è dunque che, come avviene per il Reddito di Cittadinanza, anche il Rem non riesca a raggiungere coloro a cui dovrebbe essere destinato. Soprattutto coloro che svolgono lavoro nero, vivono situazione di elevata povertà, i senza tetto, ecc. difficilmente potranno accedervi.
Non è forse più saggio, invece di favorire la proliferazione di varie misure reddituali, concentrarsi solo un’unica misura, a partire dall’attuale esistente reddito di cittadinanza, eliminando i vincoli di accesso e le varie condizionalità comportamentali (i cui effetti, come abbiamo visto, sono irrisori), in modo che diventi effettivamente uno strumento di sostentamento adeguato e di autodeterminazione?
Pare di essere di fronte a una serie di suicidi politici. Il movimento 5S sta di fatto affossando la sua creatura, la legge sul reddito di cittadinanza, invece di cogliere l’emergenza sociale ed economica in corso come occasione per un suo rilancio ed estensione. Il Pd, stretto tra aperture al reddito e tentazioni lavoriste, prima, tramite alcune sue componenti, propone l’instaurazione del Reddito di Emergenza (accodandosi così ai 5S), poi, una volta introdotto, critica le modalità di applicazione, mettendo in evidenza la sua vera natura: essere favorevole ad un sussidio al reddito solo come misura estrema di ultima istanza contro la povertà ma non per l’autorealizzazione della persona: il povero deve sopravvivere ma continuare a rimanere, comunque, povero.
Con il fondato rischio di farsi superare a sinistra da Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti, che il giorno 6 giugno ha pubblicato sul suo sito un articolo di Gaël Giraud a favore di un reddito universale!
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Note:
[1] Nello scrivere questo testo ho potuto usufruire di chiacchierate e suggerimenti da parte di Sandro Gobetti, Cristina Morini e Rachele Serino
[2] Faccio riferimento ad alcune note scritte all’interno del progetto di ricerca Bin-Italia: “The Citizens’ Income Law in Italy, the European minimum income experiences and the basic income international debate 2019-2020”, finanziato dalla Fondazione Inet (Institute of New Economic Thinking), Usa.
[3] Tenendo conto, che alcune indennità di inoccupazione possono raggiungere livelli superiori alla soglia di povertà relativa
[4] Il moltiplicatore del reddito è definito dal rapporto [1/(1-c)], dove “c” è la propensione marginale al consumo, ovvero l’incremento del consumo C all’aumentare del reddito Y (ΔC/ΔY). Se aumenta il reddito delle persone più povere, l’aumento dei consumi sarà più che proporzionale di quanto non avvenga in caso di aumento del reddito delle fasce più ricche, con l’effetto che un euro di investimento o di spesa pubblica farà incrementare il Pil in misura maggiore.