Padurap paduloop

Non basta ricordare, non basta ricordare,

se la parola inciampa, bisogna camminare.

La sai la storia atroce, ascolta questa voce,

sono nomi lontani, sono caduti umani.

Conosci questi nomi, conosci questi luoghi:

Sant’Anna di Stazzema, Cavriglia, Marzabotto.

Ma un’altra storia antica, questa storia nemica,

non l’hai sentita mai, non sai che cosa sia.

E se l’ascolterai, non dimenticherai,

dirai «questo mi tocca», dirai «è storia mia».

È una palude grande, fra le montagne e l’Arno,

gente di ceppo forte, di dignità operosa.

È una terra di mezzo, c’è nato Leonardo,

e puoi trovarci il popolo, la vita laboriosa.

Ti dicono Cerreto, Fucecchio, Monsummano,

e poi Larciano e Ponte, parole che non sai,

ma tu dì «caro sangue», ma tu dì «cuore umano».

È un’ala, la memoria, e adesso volerai.

Popolo se m’ascolti ti spiego la tragedia,

del 23 d’agosto l’orribile commedia.

È il 23 d’agosto, è nel quarantaquattro,

e l’Italia è divisa, e l’Arno fa il confine;

una strage terribile, centosettantaquattro,

pane zuppo di lacrime, dolore senza fine.

Sconfitti, quei tedeschi, grande è la loro rabbia,

uccidono, violentano, rubano gli animali,

e questa terra freme, e questa terra è in gabbia,

ma i partigiani lottano, nei boschi e fra i canali.

Dall’alba al pomeriggio, sono ore di massacro,

insiste la mitraglia, brulicano soldati.

Muoiono donne, bimbi, tra spari e fumo acre,

pastori, contadini e poveri sfollati.

Non basta ricordare, non basta ricordare,

se la parola inciampa, bisogna camminare.

Sulle aie, nelle case, arrivano col fuoco,

hanno mitragliatrici e portano l’elmetto.

Sono curiosi, i bimbi: credono che sia un gioco,

pensano a foto in gruppo, fatte col cavalletto.

«Ho tanta tete, tete!», fa Graziella ferita,

e muore in braccio a un’altra che è grande poco più.

E i fichi dell’estate, che sono pane e vita,

dal pancino di Pietro escono rossi giù.

E duro è questo canto, e puro è il loro pianto,

braccianti con le spose, lattanti nel grembiule.

La vecchia e la più piccola cadono quasi accanto,

piccine tutte e due, pulcine del Padule.

Argenta è cieca e sorda, chiama i parenti invano:

non sa che li hanno uccisi, tutta la sua famiglia.

Nella sua tasca un milite mette una bomba a mano:

ha novant’anni, Argenta, non resta che poltiglia.

Popolo se m’ascolti ti spiego la tragedia,

del 23 d’agosto l’orribile commedia.

Remo è preso con gli altri, con Maggino il pastore,

li portano sull’argine, per i tedeschi è un gioco:

spinti nel fosso asciutto, gridano di terrore,

adesso sono in trappola, e quelli fanno fuoco.

Ha un capanno sicuro, il dolce Ferdinando,

ma ha promesso alla Ida che sola non starà.

La va a trovare trepido, s’affretta camminando,

e Ida aspetta, aspetta. Lui non arriverà.

Gente portata via, vecchi portati via,

li strappano dai letti, li strappano dai petti.

Antonio vede il sangue, ripete «mamma bua»,

gli spaccano la testa, solo silenzio resta.

Il marito di Angiola si chiama come lei.

Angiola vuole Angiolo, corre verso il canneto.

Corre anche il figlio Dario, non si vedranno mai:

si sente ta-ta-ta, restano in tre sul prato.

Non basta ricordare, non basta ricordare,

se la parola inciampa, bisogna camminare.

Vede i tedeschi, Lia, esce dal casolare.

Lando è fuori nascosto, e lei è la sua sposa:

vuole dirgli il pericolo, fa finta di falciare,

e muore al posto suo, cerbiatta generosa.

Sono forti, le donne, come mamma Maria:

la figlia Italia sanguina, la palude è assediata,

Maria la mette in barca e rema e rema via;

ma i tedeschi le fermano, e Italia è dissanguata.

Perciò, se trovi un fascio, e dice «Cristo» e «fede»,

tu mettilo alla prova, se quello fa il patriota:

digli che Italia è morta, ma c’è Maria che vede;

è una Passione povera, e lui è un povero idiota.

Marisa solo tredici, e ventun anni Anita:

e se davvero hai un cuore, aprilo con coraggio.

Una ha le cosce in pezzi, l’altra è stata svestita,

sono morte, e ora sai, qual’è l’ultimo oltraggio.

Popolo se m’ascolti ti spiego la tragedia,

del 23 d’agosto l’orribile commedia.

Dopo, vedovi e vedove, e orfani disperati,

notti di pietra, incubi, e giorni di sudore.

Fanno due ombre in terra, tutti i sopravvissuti,

lacrimano anche dentro, affamati d’amore.

Il tempo non ha tempo, il sangue è un lago nero:

i figli sono padri, le bimbe sono spose.

Nel fondo del dolore lo specchio è più sincero,

ci guardi la tua faccia, e parlano le cose.

L’innocenza è una trappola. Dici «sono innocente»,

ma la storia cammina. Tu non hai fatto il male,

però se contro il male tu non hai fatto niente,

il male è dietro l’angolo e ti verrà a cercare.

Non basta ricordare, non basta ricordare,

se la parola inciampa, bisogna camminare.

La vita da scampati è vita di assediati,

tremano ai temporali, o al volo di un moscone;

hanno la mano stanca, hanno la testa bianca,

sono cuccioli antichi, col cuore di leone.

Quando la loro voce sarà nella tua bocca

tu parlerai per loro, dirai senza paura.

Ricorda questa storia, è storia che ti tocca,

quello che fai è te, nessuno te lo ruba.

Quando racconterai, se ti daranno ascolto,

chiederanno il perché, diranno «non c’è scelta».

Tu racconta, ripeti: è un mostro senza volto

la colpa immaginaria che uccide un’altra volta.

Diranno «colpa loro, colpa dei partigiani»,

tu non gli dare ascolto, tu spezza le catene.

Ripeti con i piedi, ripeti con le mani,

ripeti con la voce se hai sangue nelle vene.

Popolo se m’ascolti ti spiego la tragedia,

del 23 d’agosto l’orribile commedia.

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