Scorrendo tra le pagine di cronaca internazionale in questi ultimi giorni, il lettore meno attento potrebbe farsi l’idea che la spianata delle Moschee a Gerusalemme sia da quasi un secolo “focolaio di scontri e disordini” legati prevalentemente a questioni religiose.
Le testate giornalistiche che si occupano più da vicino della questione palestinese, però, ci offrono delle chiavi di lettura più complete e complesse, indicandoci come la questione sia ancora una volta quella dello squilibrio di potere tra gli occupanti e la popolazione indigena.
Senza alcuna pretesa di voler tracciare la storia del luogo sacro, vale la pena di ricordare alcuni eventi cardine che potranno aiutarci nella comprensione dei fatti odierni; o meglio, di come la destra radicale israeliana -legata a doppio filo al movimento dei coloni- anche durante quest’ultimo ramadan, stia nuovamente manipolando la questione religiosa per scatenare le reazioni dei palestinesi.
Secondo la tradizione religiosa ebraica, il Monte del Tempio è il luogo del Santo dei Santi, l’area sulla terra dove apparve la presenza di Dio ed oggi rimane solo il Buraq Wall, noto come muro occidentale o muro del pianto a ricordare la presenza del tempio distrutto prima dai babilonesi e poi dai romani nel 70 D.C.
Per i musulmani Al Haram al sharif è il luogo dove il profeta Maometto portò gli altri profeti a pregare durante un miracoloso viaggio notturno verso il cielo e la moschea di Al Aqsa è per questo il terzo luogo sacro per i musulmani dopo Mecca e Medina.
L’Impero Ottomano conquistò Gerusalemme nel 1517, governandola per 4 secoli, fino alla fine della prima guerra mondiale.
Sotto l’impero ottomano vennero emanati una serie di editti che avevano lo scopo di prevenire gli scontri religiosi in città non solo tra ebrei e musulmani, ma anche tra varie sette cristiane. Tra questi editti il più famoso e rilevante è quello risalente al 1757, conosciuto come lo “Status Quo”.
Lo Status Quo, noto ai cristiani perché regolamenta l’utilizzo della Chiesa del Santo Sepolcro, pone il divieto per i non musulmani di entrare ad Al-Aqsa e il diritto per gli ebrei di usare il Muro Occidentale (Muro del pianto) per la preghiera.
Anche il Gran Rabbinato di Gerusalemme, dal 1921, ha ufficialmente vietato agli ebrei di entrare nel Monte del Tempio, soprattutto perché si profanerebbe un luogo dove vi è la presenza divina.
Prima del sionismo, il muro del pianto e tutta l’area di Al Haram al sharif non avevano mai avuto un’importanza religiosa rilevante come luogo di preghiera per gli ebrei
Mentre gli ebrei palestinesi potevano pregare lì durante il periodo ottomano, furono coloni sionisti e fanatici che iniziarono a rivendicare il Muro, che negli anni ’20 del secolo scorso accese una serie di violenti scontri con i musulmani palestinesi, culminati nella violenza del 1929, che i palestinesi chiamano “la rivolta di Buraq”.
Nel 1967 Israele ha occupato la Città Vecchia di Gerusalemme, lasciando la gestione dei siti islamici nelle mani delle autorità giordane.
Tuttavia, molti ebrei religiosi hanno considerato l’occupazione di Gerusalemme estremamente simbolica e in questo sono supportati da molti gruppi cristiani estremisti che la vedono come un segno dell’inizio di battaglie apocalittiche che porteranno alla fine dei giorni come profetizzato nelle sacre scritture.
Ufficialmente, le autorità israeliane hanno sempre mantenuto lo status quo. Sebbene il movimento sionista sia fondato su basi religiose, la maggior parte dei suoi leader e dei primi ministri israeliani sono stati laici. La priorità, generalmente, è stata sempre quella di prevenire un’esplosione di rabbia nel mondo musulmano anziché assecondare le richieste di gruppi che vorrebbero de-islamizzare il Monte del Tempio.
Dagli anni ’70 in avanti, com’era prevedibile, un numero sempre crescente di politici e leader dei movimenti sionisti hanno utilizzato la questione della rivendicazione della presenza ebraica nell’area di Haram al sharif, attraverso marce e preghiere, sia per accrescere la propria popolarità e guadagnare consenso (e supporto internazionale tra i gruppi cristiani sionisti molto influenti soprattutto negli USA) sia per provocare le reazioni dei musulmani palestinesi e del mondo islamico in generale.
Quella che viene ancora oggi ricordata come la provocazione più grave è sicuramente la marcia dell’allora candidato premier del Likud (eletto poi cinque mesi dopo) Ariel Sharon nel settembre 2000, che fece irruzione all’interno della moschea di Al Aqsa scortato dalla polizia antisommossa israeliana, uccidendo 4 palestinesi. Fu la miccia che innescò la seconda intifada.
Negli ultimi anni i gruppi dell’estrema destra israeliana ed i coloni organizzano -in concomitanza della festa islamica del ramadan- la “marcia delle bandiere”, ovvero una manifestazione provocatoria che ha lo scopo di rivendicare la sovranità sull’intera città, non solo quindi sui luoghi sacri per eccellenza, dunque, ma anche su aree e quartieri come Sheik Jarrah, dove i coloni hanno l’obiettivo dichiarato attuare un cambiamento demografico, aumentando la popolazione ebraica israeliana a spese della popolazione palestinese. E, d’altronde, gli strumenti sono a loro favorevoli e sono quelli dell’apartheid: passano dagli espropri alle demolizioni delle abitazioni per l’impossibilità di ottenere i permessi municipali, fino all’immutato status di “apolidi” per i palestinesi residenti nella Città Santa, ai quali è negato dunque qualsiasi diritto civile, incluso quello di voto.
Proprio ieri si è tenuta l’ennesima manifestazione con le bandiere, durante la quale circa 500 persone, marciando verso la porta di Damasco, hanno invocato il ritorno di Netanyahu alla guida del Paese, nostalgici della politica più repressiva di “Bibi il re” rispetto a quella, a loro dire, più tenera di Bennett.
Tra i primi destinatari del messaggio provocatorio c’è senza dubbio il movimento politico-religioso Hamas, le cui reazioni non si fanno certo attendere. Nel maggio dello scorso anno la provocazione è sfociata nel lancio di razzi da Gaza -enclave palestinese sotto il controllo di Hamas dal 2007 e sotto assedio israeliano dal 2009- che ha fatto partire un’operazione militare sproporzionata che ha portato alla morte di 232 palestinesi, 12 israeliani ed alla distruzione di abitazioni ed infrastrutture all’interno della striscia di Gaza.
Anche nei giorni scorsi le tensioni con Hamas, il lancio di razzi ed i bombardamenti di rappresaglia sono ricominciati e stanno andando avanti da 2 giorni di fila. Si teme nuovamente un’escalation simile a quella del 2021.
Quest’anno si sono aggiunti anche degli attentati a Tel Aviv compiuti da palestinesi ufficialmente non legati a nessun gruppo politico o di resistenza organizzata, proprio in concomitanza dell’inizio del ramadan. Attentati ai quali sono immediatamente seguiti rastrellamenti in varie città della Cisgiordania, in particolare Jenin. E, purtroppo, ancora una volta si sono registrati episodi che possono essere etichettati come “punizione collettiva” in cui hanno perso la vita civili inermi ed innocenti, come nel caso di Ghada Sabateen o dell’appena diciottenne Hanan Mahmoud Khdour solo per citarne due tra gli ultimi e più eclatanti.
Tuttavia, così come le proteste non sono limitate geograficamente soltanto alla città di Gerusalemme o alle aree della Cisgiordania oggetto di raid militari, ma l’anno scorso sono riuscite a coinvolgere anche i palestinesi residenti nelle città israeliane (i cosiddetti “arabi israeliani”) tanto da far temere l’inizio di una “guerra civile” ed hanno oltrepassato i confini mediorientali riempiendo le piazze a livello globale; allo stesso modo alle provocazioni dei coloni e degli estremisti israeliani non segue esclusivamente una risposta del mondo islamico e di Hamas a difesa dell’identità religiosa e della preservazione dei luoghi sacri, così come una parte della stampa tende a raccontare. Noi che viviamo le nostre vite al di fuori della Palestina, proviamo a gettare lo sguardo oltre il muro che è la rappresentazione della questione esclusivamente con la lente dello “scontro tra religioni e popoli” e connettiamoci con quel movimento globale che racconta e dà voce a chi resiste quotidianamente agli attacchi violenti del colonialismo e del regime di apartheid in Palestina e, se ne abbiamo la possibilità, andiamo a vedere con i nostri occhi ed a parlare con i palestinesi.